domenica 3 novembre 2013

Una pagina del Necronomicon


Mistificatore. Sì, ricordo che in questo modo qualche critico dei suoi tempi l’aveva definito, il grande Edgar Allan Poe.
Racconti come “la verità sul caso del signor Valdemar” o “rivelazione magnetica”, in effetti, sono così ben condotti e possiedono un tono di scientificità tale da sembrare il resoconto di veri fatti di cronaca.
Ed è per questo, forse, che sono capaci di trasmettere quel senso d’inquietudine a cui ogni buon scrittore horror dovrebbe ispirarsi.
Il maestro contemporaneo S. King, in uno dei suoi saggi sulla narrativa dell’orrore se la memoria non m’inganna, definisce questa particolare abilità come il saper “liberare il gorilla”. La bestia scura e spaventosa che contiene tutte le nostre paure, ancestrali e non; quella cosa che dal passaggio all’infanzia all’età adulta riusciamo via via a sprofondare nel super bunker a compartimenti stagni della realtà e della ragione.
Il suo metodo, tuttavia, è diverso e non parte dalle solide fondamenta della scienza o di una raziocinante magniloquenza; egli, infatti, sostiene che per far sì che questo mostro riesca a manifestare ancora il suo potere e liberarsi da un luogo così inaccessibile e fortificato a volte è necessario che la narrazione sia quasi capace di farci tornare indietro nel tempo; a quando eravamo dei ragazzini, per esempio, per riportarci alle nostre paure più ataviche ed elementari.
Personalmente, da buon appassionato del genere, non sono mai riuscito a sperimentare sensibilmente questa regressione o del terrore con la semplice lettura di un racconto, neanche nelle notti più solitarie trascorse con un libro, c’è stata però un’occasione in cui mi trovavo a leggere un saggio di psicanalisi e ho avuto una breve crisi di panico molto vicina alla paura.
Questo perché non ero preparato a incontrare in quel genere di testi dei contenuti spaventosi.
Il tema era l’isteria complicata da allucinazioni e veniva introdotto riportando un caso studiato da Freud in cui una delle sue pazienti ricoverate alla Salpêtrière, ogni notte, prima di addormentarsi, vedeva comparire dei morti nella sua stanza.
Salme con occhi sbarrati che le cascavano addosso, a volte immobili e altre scosse da orribili fremiti e convulsioni.
E mi trovavo a letto, da solo, in una notte particolarmente silenziosa.
I miei neuroni a specchio,probabilmente, avevano trovato l’occasione peggiore per manifestare la loro efficienza; così, proprio a causa della descrizione inaspettata, angosciante ed efficace degli attimi di terrore provati dalla donna, e le seriose note mediche sull’eziologia del suo disturbo, il mio bunker a poco a poco aveva cominciato a riempirsi di crepe e frantumarsi al punto che dopo poche righe dovetti alzarmi con la forte sensazione che la sola luce della mia lampada da comò non fosse più sufficiente a proteggermi dal “gorilla”.
 …da quei morti che possono apparire nel buio o nella penombra per cascarti addosso.
E con questo mi riallaccio al discorso introduttivo sull’efficacia che procura a una buona storia dell’orrore il forte senso di realtà, poiché nel racconto dell’esperienza che segue questo sembrerebbe uno degli espedienti usati per spaventare.
Tuttavia, non è così.
Quindi, forse a beneficio della vostra serenità notturna, premetto che questo desiderio è assente e che la vicenda potrete trovarla inquietante solo nella misura in cui credete al soprannaturale.
Un’altra buona eventualità, naturalmente, e quella che vi porterà a pensare che il tutto sia un mio sadico esercizio di scrittura, pura mistificazione, beh!…
In tal caso, tanti saluti a quella che viene definita sospensione intenzionale dell’incredulità e tanto di guadagnato anche alla sicurezza del vostro bunker; in fondo è per questo che ho deciso di presentare la vicenda soltanto come un racconto dell’orrore.

L’episodio risale a dieci anni fa.



Ero al tavolino coi teschi e i serpenti, intento a guardare attraverso lo spesso piano di vetro su cui poggiava il mio boccale vuoto.
I teschi erano fatti di una resina mal dipinta e rifinita, un grossolano lavoro di falso invecchiamento; vedevo anche la linea di giunzione degli stampi usati per produrli. I serpenti di gomma, invece, parevano cacche arrotolate.
Alzai un braccio per attirare l’attenzione del gestore e lui mi venne subito in contro: urgeva un’altra birra; più o meno in amicizia, visto che gli avevo fatto un buonissimo prezzo su diverse sculture e dipinti.
Spiegai anche che avevo tutto il tempo di guadagnare altri spicci sostituendogli quelle cagate con della roba più seria, magari dei mostriciattoli o riproduzioni di arti mozzati molto più realistiche.
Poi gli chiesi ancora di quella donna e del suo ritardo.
Tuttavia sembrava non saperne granché; o meglio, era quello che voleva lasciar intendere, visto che la cosa era sicuramente accompagnata da una vistosa e divertita reticenza. 
Ciò che mi aveva detto di lei al telefono un attimo prima che arrivassi lì, era che aveva visto il mio murales all’entrata e chiesto informazioni a riguardo, e che lui subito dopo aveva colto l’occasione per farla entrare e mostrarle gli altri miei lavori.
Un’operazione pubblicitaria ben sbandierata con cui, in modo neanche poi tanto implicito, sperava di ottenere altri sconti.
La donna, mi spiegò, cercava qualcuno che le realizzasse dei disegni; roba macabra, in linea con gli arredi e lo stile del locale, ma lui non si era voluto prendere la libertà di darle il mio numero.
Così mi ritrovavo ad aspettarla già da una buona mezzora e da un paio di doppio malto rosse, in mezzo al casino heavy metal di quella serata.
Era sicuramente il luogo meno adatto per avere una qualsiasi tipo di conversazione; immaginai dunque che avrei dovuto star ben vicino e subire questa disperata, magari costretta a urlare e gesticolare all’impazzata per farsi intendere.
Altrimenti sarebbe stata la mia momentanea condizione di “gambe molli” a renderla tale, visto che di portarmi fino all’uscita proprio non se ne parlava.
Ricordo che un branco di capelloni sedeva in un lungo tavolaccio alla mia destra e qualcuno dallo sguardo un po’ torvo, quasi a volermi sacrificare a qualche divinità infernale, cercava insistentemente di trasmettermi che stavo proprio fuori posto. Sembrava infastidito dalla mia solitudine e mi fissava dondolando come un cobra o, forse, ero io a dondolare.
In effetti il look e l’acconciatura concessa dai miei pochi capelli erano del tutto convenzionali, troppo borghesi per quel tipo di marmaglia.
Niente borchie, vestiti in pelle, piercing o tatuaggi; anche se dentro di me si agitavano da sempre demoni ben peggiori di quelli stampati su alcune delle loro magliette.


Poi la donna arrivò, anche se non me ne accorsi subito dal momento che mi stavo stropicciando gli occhi e grattando alla radice del naso. La vidi soltanto quando li riaprii, ed era già seduta e immobile davanti a me.
Oddio! Proprio immobile no, a voler essere precisi, dato che tutto vorticava al ritmo di “fear of the dark” e del doppio malto, ma nel suo inconsapevole dinamismo rimaneva comunque una pessima apparizione.
A spaventarmi fu soprattutto questa sua improvvisa entrata in scena; aldilà dello sguardo vitreo, pure circondato da un’innaturale a vasta ragnatela di rughe.
In più c’era quell’ enorme cespuglio di capelli grigi, discreto come un’esplosione atomica. Dovetti faticare non poco a trattenere certi spasmi facciali e il disagio rafforzati dall’ alcol; non era certo quello schianto di principessa della notte, inguainata dal sexy completo sado maso che avevo immaginato, del resto.
La sua domanda, oltretutto, era delle più singolari mai sentite; anche rispetto alla sua età, che poteva aggirarsi intorno ai settanta.
In sostanza, con una altrettanto inquietante e catarrosa voce da super fumatrice ben udibile anche nel frastuono della musica di sottofondo, mi spiegò che voleva un ritratto del proprio figlio.
Lo voleva, però, modificato o meglio, deturpato da un restyling demoniaco.
Doveva farla rabbrividire senza perdere la somiglianza col soggetto originale, mi gracchiò, che avrei dovuto dipingere su una specie di pergamena abbondantemente bruciacchiata lungo i contorni che lei stessa mi aveva consegnato.
Accompagnata in ogni suo gesto dalla bieca e ridanciana curiosità dei capelloni, mi diede anche la foto.
Quest’ultima, in verità, una polaroid bisunta e tenuta assieme da del nastro adesivo ingiallito, già mostrava un volto parecchio malvagio e psicotico; quello di un ragazzo di almeno venticinque o trent’anni.
La mia rielaborazione, comunque, si sarebbe aggiunta a una specie di volume pieno di altre illustrazioni su cui egli stava lavorando; volume che, nel momento in cui venne descritto, mi ricordo subito il tipo di grimori satanici immaginati da Lovecraft con il suo “Necronomicon”.
Nessuna difficoltà, quindi, visto che avevo già replicato più volte l’articolo.
Era una sorpresa, mi disse, qualcosa che sicuramente lui avrebbe gradito e mai immaginato di ricevere per il suo compleanno, poi mi diede una descrizione dettagliata di cosa avrei dovuto modificare e aggiungere.
Particolari che mettevano in mostra un discreto talento visionario e gusto per l’orrido.
C’era anche una specie di simbolo che scarabocchiò al momento sopra un pacchetto di sigarette.


Non mi andava di tenere a lungo quella foto, cosicché nel pomeriggio del giorno successivo mi misi al lavoro e in serata avevo già completato in ogni sua parte l’illustrazione.
Era un mix di acquarello e acrilici soddisfacente, nel quale avevo certo pesantemente trasfigurato il soggetto come richiesto, ma mentendolo comunque riconoscibile. Decisi quindi di telefonare alla megera per avvertirla della mia immediata disponibilità alla consegna e lei accettò, proponendomi di organizzarla ancora nel locale.
Soltanto un paio di ore più tardi, dunque, mi ritrovai nuovamente ad aspettarla .


Si fece attendere anche questa volta, arrivando con qualche decina di minuti di troppo in ritardo; il mio disappunto, tuttavia, sparì nel momento in cui gli consegnai il disegno che avevo diligentemente imbustato in un raccoglitore di plastica.
Estraendolo, infatti, si mise subito a rimiralo con vigorosi cenni di assenso che mi lasciarono molto soddisfatto.
Disse che avevo realizzato un bel dipinto, qualcosa di straordinario, che suo figlio avrebbe sicuramente apprezzato, e mi allungò il doppio di quello che avevamo pattuito.
Solitamente, in casi ad alto indice di stranezza come questo, non facevo domande; mi limitavo a infilare i soldi in tasca e ringraziare. Qui, però, c’era la curiosità di avere informazioni riguardo alla pubblicazione; così domandai se il libro, nell’eventualità di un effettivo assenso del figlio ad includerne la mia illustrazione, sarebbe poi uscito in vendita da qualche parte.
La donna allora si alzò, mise il disegno nella borsa e mi spiegò che quella era l’ultima pagina di qualcosa che avrebbe usato soltanto lei e pochi conoscenti.
Sì, “Usato”, perché il suo ragazzo era morto e tutto quello che c’era da fare per evocarlo stava scritto lì, dettatole attraverso la scrittura automatica...
 direttamente dall’inferno.

Assolutamente improbabile, no?
Una di quelle cose che, mi auguro, non siano sufficienti a liberare il gorilla.
Oppure già lo sentite ringhiare e abbattere i muri della sua prigione?
Ah!… Dimenticavo…:
 M’invitò anche a non parlarne con nessuno, ovviamente, e distruggere eventuali copie o schizzi del disegno; dal momento che la sola visione del simbolo poteva fissarsi nell’inconscio di particolari individui predisposti alla medianità e aprire delle porte…
Passaggi che si aprivano durante il sonno e attraverso i sogni.
Cose del genere, insomma, come spesso prevedono i cliché di questo tipo di storie.
Ovviamente non le ho creduto.
Proprio per niente; altrimenti non avrei mai pubblicato su queste pagine la foto del disegno originale.






Una pagina del Necronomicon (2012)
Racconto, foto e illustrazioni di Fabio Cavagliano

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