Per comporre
il testo la IA si è ispirata a questa tavola presa da un mio vecchio racconto a
fumetti.
LE CAVIE
Il dottor Lemoine lavorava nel seminterrato dell’Istituto di Neurochimica. Nessuno lo disturbava. Gli avevano affidato un progetto marginale, una curiosità accademica: studiare la coscienza collettiva dei roditori da laboratorio.
Aveva modificato geneticamente tre cavie, inserendo minuscoli recettori sensoriali nel cervello per mappare le loro connessioni neurali.
Annotava ogni giorno:
“Le cavie mostrano coordinamento crescente. Reagiscono insieme a stimoli differenti. Possibile forma rudimentale di empatia condivisa.”
Cominciò a chiamarle “le tre menti”.
Il suo lavoro procedeva lentamente, ma con una costanza ossessiva. Una notte, però, trovò qualcosa di diverso nei tracciati: interferenze deboli ma continue, come un segnale in arrivo da un punto esterno all’esperimento.
Pensò a un errore. Ricontrollò tutto. Poi realizzò che l’origine dell’interferenza era lui stesso.
Le cavie reagivano ai suoi stati d’animo. Quando era stanco, restavano immobili. Quando si irritava, scalpitavano. Quando pensava di interrompere l’esperimento, una delle tre emise un suono breve, acuto, quasi implorante.
Annotazione: “Possibile eco psicosomatica?”
Ma presto accadde qualcosa di più preciso.
Durante una sessione di controllo, mentre osservava i tracciati cerebrali, vide comparire una sequenza numerica che non proveniva da alcun sensore conosciuto: 120718-LEM-2.
Era la sigla del suo fascicolo personale di ricercatore.
In un istante, comprese che i dati non si limitavano a rispecchiare la sua mente — la stavano leggendo.
Iniziò a dormire nel laboratorio. Non per necessità, ma per controllo. Tuttavia, ogni mattina trovava i registri aggiornati con note che non aveva scritto.
Una: “Soggetto umano continua a ignorare la natura dello studio. Persistono illusioni di autorità.”
Sotto, una firma minuscola, leggibile solo con la lente: Unità C3.
La realtà cominciò a incrinarsi come un vetrino difettoso.
Le cavie si muovevano con una sincronia troppo perfetta, come se seguissero istruzioni.
Lemoine installò una telecamera per osservarle di notte. Rivide il filmato: per ore, le cavie restavano immobili — poi, improvvisamente, si voltavano tutte e tre verso la telecamera, fissandola per venti minuti esatti. Alla fine una di loro, la nera, si avvicinava all’obiettivo e lo oscurava con la zampa.
Annotò con mano tremante: “Forse non sono animali. Forse sono un’interfaccia.”
Cominciò a sospettare che non ricordasse più l’inizio dell’esperimento. Chi lo aveva davvero proposto? Perché le schede dei suoi precedenti progetti risultavano cancellate?
Ogni volta che cercava di ricostruire la sequenza logica del proprio lavoro, una vertigine lo assaliva: come se stesse ripetendo gesti che qualcun altro gli aveva già fatto compiere, migliaia di volte.
Un mattino si svegliò davanti al microscopio, senza ricordare di essersi addormentato.
Sul tavolo c’era un vetrino già pronto. Vi poggiò l’occhio.
Vide una struttura cerebrale complessa, con fibre, sinapsi, impulsi elettrici pulsanti. Non animale, non umana.
Nel mezzo del tessuto, minuscolo, un campo di coordinate: Osservatore – Iterazione 84 – Stato: Quasi stabile.
Si staccò dal microscopio, il cuore in gola. Le cavie lo fissavano.
La voce gli uscì spezzata:
— Che… che cos’è questo?
Le tre cavie si mossero lentamente, come obbedendo a un segnale remoto. La più piccola salì sul bordo del banco e lo guardò negli occhi. Poi, in un linguaggio fatto di scariche ultrasoniche e vibrazioni, qualcosa parlò dentro la sua testa:
“Siamo ancora nella fase di osservazione. Mantieni la coerenza, Lemoine. Lo studio sul comportamento umano procede.”
Allora ricordò.
Non era un ricercatore. Non lo era mai stato. Era il soggetto.
L’esperimento consisteva nel testare quanto a lungo un essere umano potesse sopportare l’illusione del libero arbitrio prima di riconoscere il proprio stato di prigionia cognitiva.
Le cavie registrarono l’ultimo impulso elettrico della sua corteccia quando Lemoine cominciò a ridere.
Sul monitor principale comparve la nota finale:
“Sessione 84 conclusa. Risultato coerente. Preparare il soggetto 85.”
E nella gabbia vuota, le tre cavie si voltarono verso un nuovo osservatore che, senza ricordare nulla, stava già sistemando il microscopio.
LE CAVIE
Il dottor Lemoine lavorava nel seminterrato dell’Istituto di Neurochimica. Nessuno lo disturbava. Gli avevano affidato un progetto marginale, una curiosità accademica: studiare la coscienza collettiva dei roditori da laboratorio.
Aveva modificato geneticamente tre cavie, inserendo minuscoli recettori sensoriali nel cervello per mappare le loro connessioni neurali.
Annotava ogni giorno:
“Le cavie mostrano coordinamento crescente. Reagiscono insieme a stimoli differenti. Possibile forma rudimentale di empatia condivisa.”
Cominciò a chiamarle “le tre menti”.
Il suo lavoro procedeva lentamente, ma con una costanza ossessiva. Una notte, però, trovò qualcosa di diverso nei tracciati: interferenze deboli ma continue, come un segnale in arrivo da un punto esterno all’esperimento.
Pensò a un errore. Ricontrollò tutto. Poi realizzò che l’origine dell’interferenza era lui stesso.
Le cavie reagivano ai suoi stati d’animo. Quando era stanco, restavano immobili. Quando si irritava, scalpitavano. Quando pensava di interrompere l’esperimento, una delle tre emise un suono breve, acuto, quasi implorante.
Annotazione: “Possibile eco psicosomatica?”
Ma presto accadde qualcosa di più preciso.
Durante una sessione di controllo, mentre osservava i tracciati cerebrali, vide comparire una sequenza numerica che non proveniva da alcun sensore conosciuto: 120718-LEM-2.
Era la sigla del suo fascicolo personale di ricercatore.
In un istante, comprese che i dati non si limitavano a rispecchiare la sua mente — la stavano leggendo.
Iniziò a dormire nel laboratorio. Non per necessità, ma per controllo. Tuttavia, ogni mattina trovava i registri aggiornati con note che non aveva scritto.
Una: “Soggetto umano continua a ignorare la natura dello studio. Persistono illusioni di autorità.”
Sotto, una firma minuscola, leggibile solo con la lente: Unità C3.
La realtà cominciò a incrinarsi come un vetrino difettoso.
Le cavie si muovevano con una sincronia troppo perfetta, come se seguissero istruzioni.
Lemoine installò una telecamera per osservarle di notte. Rivide il filmato: per ore, le cavie restavano immobili — poi, improvvisamente, si voltavano tutte e tre verso la telecamera, fissandola per venti minuti esatti. Alla fine una di loro, la nera, si avvicinava all’obiettivo e lo oscurava con la zampa.
Annotò con mano tremante: “Forse non sono animali. Forse sono un’interfaccia.”
Cominciò a sospettare che non ricordasse più l’inizio dell’esperimento. Chi lo aveva davvero proposto? Perché le schede dei suoi precedenti progetti risultavano cancellate?
Ogni volta che cercava di ricostruire la sequenza logica del proprio lavoro, una vertigine lo assaliva: come se stesse ripetendo gesti che qualcun altro gli aveva già fatto compiere, migliaia di volte.
Un mattino si svegliò davanti al microscopio, senza ricordare di essersi addormentato.
Sul tavolo c’era un vetrino già pronto. Vi poggiò l’occhio.
Vide una struttura cerebrale complessa, con fibre, sinapsi, impulsi elettrici pulsanti. Non animale, non umana.
Nel mezzo del tessuto, minuscolo, un campo di coordinate: Osservatore – Iterazione 84 – Stato: Quasi stabile.
Si staccò dal microscopio, il cuore in gola. Le cavie lo fissavano.
La voce gli uscì spezzata:
— Che… che cos’è questo?
Le tre cavie si mossero lentamente, come obbedendo a un segnale remoto. La più piccola salì sul bordo del banco e lo guardò negli occhi. Poi, in un linguaggio fatto di scariche ultrasoniche e vibrazioni, qualcosa parlò dentro la sua testa:
“Siamo ancora nella fase di osservazione. Mantieni la coerenza, Lemoine. Lo studio sul comportamento umano procede.”
Allora ricordò.
Non era un ricercatore. Non lo era mai stato. Era il soggetto.
L’esperimento consisteva nel testare quanto a lungo un essere umano potesse sopportare l’illusione del libero arbitrio prima di riconoscere il proprio stato di prigionia cognitiva.
Le cavie registrarono l’ultimo impulso elettrico della sua corteccia quando Lemoine cominciò a ridere.
Sul monitor principale comparve la nota finale:
“Sessione 84 conclusa. Risultato coerente. Preparare il soggetto 85.”
E nella gabbia vuota, le tre cavie si voltarono verso un nuovo osservatore che, senza ricordare nulla, stava già sistemando il microscopio.
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