Karrion il purista

 


«Lo senti?» chiese Karrion, accostando il dito all’orecchio.
Fred rimase in silenzio. Sembrava che nell’enorme studio sotterraneo non ci fosse alcun suono. Solo il leggerissimo ronzio dei tubi neon a soffitto.
«È il rumore del sangue…» spiegò Karrion. «Quando finalmente smetti di ascoltare quella merda là fuori.»
Fece un gesto vago, verso l’alto. Verso il mondo. Verso TikTok. Verso i club col beat preimpostato. Verso ogni algoritmo che impacchetta un’emozione e la infila in una playlist chiamata “Essentials”.
Fred non sapeva cosa rispondere. Aveva accettato l’invito con entusiasmo — d’altronde, Karrion era leggenda. Ex chitarrista degli Arch Wound, oggi solista osannato da una cerchia ristretta di puristi che parlavano di lui come di un profeta o un assassino.
O entrambi.
«Hai portato il tuo strumento, come ti avevo detto?»
Fred annuì, ancora col fiato corto. Estrasse la sua Fender Jazzmaster dal fodero rigido. Nero opaco, manopole d’ottone, corde nuove.
Karrion la prese, l’accarezzò con due dita come se fosse una reliquia e annuì soddisfatto.
«Buona. Ancora viva.»
Posò la chitarra su uno stand. Poi tornò da Fred con un’espressione che sembrava meno umana e più… lucertolesca. I lineamenti affilati, la pelle lucida come pelle morta, gli occhi che non battevano ciglio da troppo tempo.
«Lo sai qual è la differenza tra la nostra musica e quella di oggi?» domandò con voce impastata dal whisky.
Fred scosse la testa. Karrion si avvicinò al mixer, lo accese, e un’ondata di frequenze basse e fruscianti investì l’aria. Sembrava una registrazione ambientale da un cimitero industriale. Il suono di un metronomo morente, glitchato, corrotto da un plug-in maligno.
«La musica di oggi è concepita. La nostra era partorita
Fred sorrise, incerto se si trattasse di una frase poetica o solo di una stramberia da boomer psicotico.
«Ho qualcosa da farti vedere.» disse Karrion, e aprì una porta laterale dello studio.
Dentro c’era una stanzetta buia con una sola lampada rossa. Al centro, una serie di gabbie. Minuscole. Da esse uscivano suoni: snippet, drop, beat lo-fi, campionamenti vocali, voci robotiche.
Fred si avvicinò. Dentro ogni gabbia c’era una piccola creatura sonora: un 808 che pulsava come un cuore artificiale, un sample vocale con la voce di una ragazza che sussurrava “you’re mine, baby”, un loop trap che si autoripeteva all’infinito.
«Li nutro con view e interazioni. Una goccia alla volta.» spiegò Karrion. «Sono vermi della musica. Creati in laboratorio, da esseri che non hanno mai sporcato le mani con una corda d’acciaio.»
«Sono… carini.» tentò di dire Fred, anche se uno dei loop stava tossendo.
«Sono contagiosi. Ecco perché li tengo chiusi. Li metti in una canzone, e ti riproducono l’infezione. Non hai idea di quanti se ne siano già impiantati nei cervelli là fuori.»
«Ma… tu che ci fai con loro?»
Karrion si voltò. «Li uso per costruire il contesto
Poi aprì l’altra porta.
Fred vide una sala vuota, interamente rivestita in pelle e specchi. Al centro, un amplificatore Marshall delle dimensioni di un monolocale, con cavi che correvano ovunque come vene di un cuore distorto.
«Qui dentro, il suono vero risorge.» disse Karrion, e indicò l’ingresso. «Vieni. Suoneremo senza click, senza filtro, senza melodia. Solo rumore e verità.»
Fred era stordito. Ma entrò.
Quando cominciarono a suonare, le pareti tremarono. La Jazzmaster piangeva feedback lancinanti e ruggiti armonici così intensi che parevano risvegliare qualcosa di antico sotto il pavimento. Fred chiuse gli occhi. La musica lo attraversava, lo divorava, lo rifaceva da zero.
E allora capì: stava suonando contro qualcosa.
Non contro altri musicisti. Ma contro interi ecosistemi culturali costruiti sul nulla.
 
Un’ora dopo, uscì dalla sala sudato, stremato, con le dita insanguinate.
Karrion era lì, calmo, a fumare accanto alla gabbia dei suoni artificiali. Li stava liberando uno a uno.
«Perché li lasci uscire?» chiese Fred, allarmato.
Alcune di quelle cose si contorcevano e poi, lampeggiando fra pianti femminili e altri strani rumori, si smaterializzavano come ologrammi cancellati da un disturbo elettrico.
«Perché ora sei immunizzato. E sarai uno di quelli che combattono con lo strumento, non col software. Voglio vedere se reggi. Voglio vedere se resti integro… anche fuori da queste mura.»
Poi si fece serio.
«E se ricominci a usarli — autotune, drum machine, tutta quella merda — tornerò a prenderti. E suonerò dentro di te. Fino a farti esplodere assieme a ogni fottuta nota falsa.»















testo e illustrazione generati artificialmente
Per scrivere questo racconto La IA si è ispirata alla storia: "L'inferno è vuoto" cercando di imitarne lo stile.

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