Babble, Babble, Bitch, Bitch
Rebel, Rebel, Party, Party
Sex, sex, sex and don’t forget the
violence
[…]
Are you motherfuckers ready for the new
shit?
Stand up and admit that tomorrow’s never
coming
This is the new shit
Stand up and admit
Do we get it? NO!
Do we want it? YEAH!
Sapete cos’è un pogo?
Se non lo sapete, vi evito la fatica di googlare: si tratta di una pratica, una
sorta di “danza violenta”, diffusa tra gli appassionati di musica metal, e che
consiste nello spintonarsi e prendersi a spallate reciprocamente, specie nei
pressi del palco, durante un concerto. Il rischio di ferite e contusioni di una
certa entità è piuttosto elevato.
Ma il pogo è nulla rispetto al macello che
si scatena tra giornalisti che cercano di strappare anche solo una piccola
dichiarazione da parte di un determinato individuo; in primo luogo, se questo determinato individuo è un tipo molto in
vista. Un tipo dalla fama planetaria. Un tipo appariscente, dall'acconciatura colorata e il volto truccato, l'abbigliamento costoso ed eccentrico, gli occhi di due innaturali colori diversi. Un tipo come Mister Gore.
A rendere ancora più evidente il paragone tra
un branco di giornalisti che cerca di spartirsi una sola preda, per strapparle
almeno un brandello di carne, e un gruppo di fan del metal che pogano, sono i
cori scatenati che si innalzano e rimbombano dall’interno dell’arena, stipata in
ogni ordine di posto, a una cinquantina di metri da noi.
Rallentiamo la marcia di Mister Gore,
snudando le zanne e avventandoci su di lui, graffiandoci a vicenda e
scontrandoci sul muro eretto dalle sue guardie del corpo, tutti diretti verso
l’arena più grande del globo e i cori – sui quali primeggia, per volume e
intensità, quello che dice: “Gore! Gore!
Gore!” – sono in progressivo aumento.
Invochiamo tutti quanti il suo nome e, a
seguire, spariamo raffiche di domande non tutte fortunate abbastanza da trovare
risposte, fornite da Mister Gore con modi e toni pacati, misurati. Pensa che
quello di stasera sarà un grande spettacolo, che avrà più seguito e comporterà
maggiori introiti del Super Bowl, della finale dei Mondiali di calcio e di
Wrestlemania: l’intero evento è stato un enorme successo mediatico e
commerciale e Mister Gore è certo che il gran finale farà impallidire qualsiasi
altro record. E no, Mister Gore non ha paura che gli estremisti difensori dei
diritti umani si producano in qualche attentato, anche perché sono solo dei
pivelli rispetto ai terroristi islamici e i terroristi islamici sono stati già
sconfitti diversi anni fa. Mister Gore comunica tranquillità a noi, ai nostri
microfoni e alle nostre telecamere e, di conseguenza, al mondo intero: non c’è
niente da temere, c’è solo da divertirsi. Io sono giovane, inesperta e questo
compito era stato assegnato a una giornalista ben più preparata e tosta – e
che, a differenza mia che ne sono disgustata, ha seguito l’intero svolgimento
dei Gore Games – ma, dovendosi operare d’urgenza, hanno mandato me. La mia
voce, troppo flebile e incerta, viene subissata dalle altre; devo trovare uno
stratagemma per farmi sentire…
«Lei
è un assassino!» Finalmente, l’attenzione di Mister Gore – e non solo la
sua, dinanzi a una dichiarazione tanto forte – si sposta su di me, che riesco a
intrufolarmi tra tre colleghi-rivali e arrivare alla giusta distanza per far sì
che la microcamera installata nei miei occhiali lo metta bene a fuoco. «Cosa
risponde a chi la definisce tale, Mister Gore? Cosa risponde a chi la taccia di
essere un uomo d’affari senza scrupoli, disposto a mandare uomini e donne al
macello pur di arricchire ulteriormente il bilancio della sua società?»
«Un uomo d’affari deve essere senza scrupoli, cara la mia signorina», mi risponde con
il suo sorriso inespressivo: una maschera atteggiata a sorriso. «Detto ciò, non
credo sia… lasciamo stare rispettoso… ma di certo non è corretto che mi si chiami
“assassino”: io non ho costretto nessuno dei partecipanti dei Gore Games a
partecipare.» Il sorriso si accentua e, per certi versi, è inquietante. Per
altri versi, non è nulla. Un’espressione vuota. «Né nessuno dei partecipanti è
stato corrotto per iscriversi ai giochi. Tutti loro, e tanti altri, tra quelli
che non sono stati accettati, si sono fatti avanti di loro spontanea volontà.»
«La maggior parte dei concorrenti, Mister
Gore», riprendo a dire, «è composta da disoccupati, da gente quasi sul lastrico,
che faticava enormemente a tirare avanti…» Zoomo leggermente sul suo volto
inespressivo e dai muscoli distesi. «Lei e gli altri uomini d’affari che hanno
contribuito alla realizzazione dei Gore Games avreste potuto investire le
vostre risorse per creare nuovi posti di lavoro, per risollevare la situazione
economica di questa gente in ben altri…»
«Mi spiace interromperla, cara la mia
signorina, davvero», si inserisce lui, la sua voce sovrasta la mia, il vociare
degli altri e, quasi, il coro dell’arena: “Gore!
Gore! Gore!”. «Partendo dal fatto che ognuno di noi può disporre del
proprio patrimonio come meglio crede e partendo dal presupposto che i miei
interessi riguardano da sempre l’intrattenimento di massa, io mi sono
semplicemente limitato a dare alla gente ciò che la gente voleva. I risultati
parlano chiaro.»
«Lo sviluppo tecnologico ci è, in larga
parte, sfuggito di mano, Mister Gore.» Non mi arrendo. So cosa il mio direttore
vuole che domandi a Gore. So cosa io voglio domandare a Gore. «La tecnologia ha
portato alla disoccupazione ben il 70% della popolazione globale.» Penso ai
miei occhiali-videocamera e al posto del cameramen che ormai è vacante. «La
gente vuole dignità, la dignità la si ottiene attraverso il lavoro e il lavoro
porta con sé entrate economiche che più della metà di questo 70% desidera più
d’ogni altra cosa…»
«Vede? Li vede?», mi chiede Mister Gore,
accennando agli uomini in smoking e occhiali da sole che lo circondano. «Io
sono il primo a dare lavoro alle persone: mi circondo dal calore di esseri
umani piuttosto che dal gelo di agenti tecnologici.» Allarga le braccia, come
se fosse dispiaciuto per me, quasi desolato. «Coloro i quali muovono critiche
del genere nei miei confronti hanno decisamente sbagliato bersaglio.» Solleva
le spalle. «È proprio questo che vuole la gente: violenza. Conviviamo con la
violenza sin dall’alba dei tempi e, pian piano, ci siamo abituati a essa.
Respiriamo violenza, viviamo nella violenza, basta seguire i TG a pranzo o cena
per nutrirci di pane e violenza. Siamo
cresciuti consumando i nostri pasti mentre guardavamo in TV ospedali che
esplodono, uomini sfigurati dall’acido, bambini smembrati dalla guerra, civili
sgozzati e donne stuprate. La violenza ormai è entrata nel nostro metabolismo,
gira in circolo insieme al sangue.»
Mi inabisso nella mia incompetenza e
inesperienza, non so come ribattere soprattutto senza risultare parziale:
detesto la sola idea dei Gore Games, figurarsi intervistarne l’ideatore e
partecipare al gran finale. E cosa dice Mister Gore degli interventi
genetico-militari apportati ai partecipanti del gioco, anche pensando al fatto
che, dopo l’ultima guerra, si era stabilita la sospensione di studi ed
esperimenti di stampo bellico?
«La guerra è finita, è vero», risponde il
diretto interessato. «Ma io credo di essere un discreto conoscitore del genere
umano e, per questo, so per certo che scoppieranno altre guerre e dovremo
essere pronti per fronteggiarle.» Muove l’indice verso il giornalista che gli
ha posto quest’ultima domanda, per fargli capire che non ha ancora finito di
rispondere. «Nonostante ciò, gli interventi genetico-militare di cui parla lei,
sono stati approvati dalle Nazioni Unite ed eseguiti solo dopo la dichiarazione consensuale dei concorrenti. Parliamo di
esperimenti a scopo d’intrattenimento, non bellico. Il pubblico è ben protetto
da un campo di forza che divide gli spalti dal terreno di combattimento.»
Infine, indica l’ingresso dell’arena: il Nuovo Colosseo, costruito sulle ceneri
del vecchio, distrutto insieme a mezza Roma durante le ultime guerre. Qualcuno
disse, tanti anni fa: “Finché esisterà il Colosseo, esisterà anche Roma;quando cadrà
il Colosseo, cadrà anche Roma;quando cadrà Roma, cadrà anche il mondo.” Quel
qualcuno dimenticò di dire che sia Roma che il Colosseo sarebbero risorti, più
grandi e imponenti. Più violenti e sanguinari. «E adesso, cari signori, è il
momento di goderci lo spettacolo.»
Lo show è aperto dall’esibizione live dei
Carnage, che danno il via alle danze con le loro hit più famose:Gore (ovviamente), Merry Suicide e FearChaosAgony.
Il pubblico è totalmente in delirio, gridano tutti con voci raschianti andando
dietro alle parole del cantante e, all’interno dello spicchio riservato ai
media, mi sento circondata da tanti matti scalmanati. Mi fanno paura. Così eccitati
dall’attesa del sangue. Come cani davanti a una ciotola che sanno verrà, a
momenti, riempita di gustosi croccantini.
Non oso neppure immaginare come saranno
ridotti quando lo avranno, il sangue che tanto bramano.
Nell’attesa che comincino i giochi, alla
fine del breve live della band brutal heavy fucking death metal, un po’ di
pubblicità sui maxi-schermi, che non fa mai male: viene sponsorizzato il Sex
Show, il famoso reality dove i concorrenti si sfidano a suon di prestazioni
sessuali delle più estreme, a favor di telecamere, per conquistare
l’ambitissimo premio di cinquantamila dollari e un contratto in esclusiva con
HardTV, l’emittente che trasmette pornografia gratuita e in chiaro, in alta
definizione con tanto di 3D e VR, per tutti i gusti, tutti i sessi e tutte le
età; il secondo spot è relativo, invece, a Executioner
Day, il mega evento annuale trasmesso in mondovisione durante il quale il
pubblico da casa decide sulle sorti di cinque tra i più famosi prigionieri al
mondo; gente condannata alla pena capitale o all’ergastolo e che, in base alla
storia della propria vita e del percorsoriabilitativo in carcere, il pubblico decide
se ridurre la pena o se confermarla tramutandola in un’esecuzione filmata, la
cui modalità viene anch’essa selezionata dalla vox populi: iniezione letale, ascia, decapitazione, fucilazione…
Neanche ve lo dico: quale pensate che, tra
le due, tra condono e sanzione, sia la scelta più gettonata, ogni volta?
Davanti a una libertà nel decidere sulla vita e sulla morte del prossimo,
persino il più irreprensibile dei cittadini, il più perbene e il più
morigerato, il padre di famiglia più coscienzioso e la madre di famiglia più
etica, si inginocchiano alla sete di sangue.
A tal proposito, ecco che entrano i primi
due contendenti, i primi due moderni gladiatori, antropomorfi, sì, ma privati
di attributi e dotati di estremità cibernetiche, in grado di colpire,
maciullare, spezzare e tagliare.
I combattenti, un uomo e una donna, nudi
eccezion fatta per le letali armi annesse ai loro corpi, si fronteggiano, si
studiano per pochi istanti, e poi si saltano addosso, affondano i colpi,
gridano urla gutturali, al limite del bestiale, sudano e sputano sangue, si
battono mentre la gente canta, inneggia, urla, scommette, mangia e beve, alcuni
si baciano e altri ridono e salutano i droni che riprendono la platea e la
lotta.
Il terreno liscio e asettico, di un grigio
chiaro un pelo meno del bianco, diviene superficie di atterraggio per frotte di
gocce rosse, chiazze che copulano, allargandosi in macchie, prima, e
pozzanghere, poi.
Piedi che si piantano, fanno da leva, si
spostano e scivolano sul sangue, scalciano e sgambettano… un braccio va via,
poi tocca a un occhio e quello che deve essere un seno, seguito da altri
schizzi, altre grida, altri insulti a vicenda, denti che digrignano, fazioni
che si schierano e imprecano e sperano, tifando e appassionandosi…
E io non posso resistere… non posso
appassionarmi… non fino a quando la donna è prona, per terra, boccheggia, e lunghi
filamenti di sangue le pendono dalla bocca e dal petto mutilato, il corpo che
si muove, in scossoni e respiri profondi, tentennanti, vicini alla fine; un
colpo discendente. Un ultimo colpo. Il colpo di grazia.
«No…», mormoro e vorrei coprirmi gli occhi
ma non posso, il mio corpo non segue i comandi del cervello o forse io mi
illudo che il mio cervello non voglia guardare, perché forse, in fondo, è
proprio questo che vuole: il sangue, la morte, la lotta. «No, ti prego…»
La mazza chiodata che funge da braccio
sinistro dell’uomo cala con veemenza verso il basso, verso la nuca china della
donna sfinita e agonizzante; ma eccola: la scintilla. Lo scatto dei reni, il
richiamo primordiale della vita, l’ululato della sopravvivenza… la donna che si
getta di lato, affetta le caviglie dell’avversario con le mannaie che ha per
dita; l’uomo, sbilanciato e privo di appoggio ora che i suoi piedi appartengono
al pavimento, comincia a cadere in avanti; la donna fa sfoggio del suo braccio
destro, quello forgiato come una scimitarra, e gli taglia il braccio armato con
il quale stava per finirla.
L’uomo è a terra, situazione inversa, senza
piedi e con la faccia brutalmente schiacciata al pavimento rosso e io… un urlo
liberatorio, di speranza assecondata e trionfo vitale mi erompe dalla bocca e
gli occhi spalancati, prossimi alle lacrime, esultanti di gioia per quello
scintillante scatto di vita… gli occhi, dicevo, osservano la donna che agguanta
– in qualche modo, in mezzo a quell’accozzaglia di lanuggine e acciaio che sono
le sue estremità superiori – il braccio mozzato dell’uomo e lo cala con
violenza e rabbia – violenza e rabbia che hanno un fondo di giustizia e
giustificazione – sul nemico, frantumandogli in poltiglia la gabbia toracica e
i muscoli contenuti al suo interno.
Abbiamo la vincitrice del primo round.
Il pubblico è in visibilio e io… sento gli
occhi lucidi, ritrovo le mie mani con le dita serrate a pugno, sollevate al
cielo e i muscoli facciali distesi in un sorriso vincente, un profondo sospiro
di sollievo viene esalato dai miei polmoni.
Mi sforzo di ricompormi, torno a sedermi, e
mi guardo intorno, quasi preoccupata di essermi fatta cogliere in fallo, con le
mani nella marmellata, a fare qualcosa che non avrei dovuto… né voluto… fare.
Mi accorgo che nessuno ha occhi per me: tutti esultano, alcuni si abbracciano,
altri saltellano e cantano, tutti a fotografare e immortalare il momento con
palmari, occhiali, visori o le buone, vecchie macchine fotografiche.
Sui megaschermi, la vincitrice del primo
duello viene sostituita da Mister Gore che parla in diretta dalla sua
postazione privilegiata, super-sorvegliata e protetta da lastre di vetro
impenetrabili. Gli applausi e il tripudio dei partecipanti aumentano in un
estatico turbinio che si esaurisce solo dopo una ininterrotta ventina di
secondi, al termine dei quali, con un lieve sorriso professionale, Mister Gore
fa un passo avanti e prende parola.
«Preferisco lasciar parlare prima i fatti,
e questo è stato solo un assaggio del resto dei Giochi», esordisce, meritandosi
un altro applauso scrosciante a scena aperta. «Opposizione e scontro, strenua
lotta, l’uno contro l’altro al fine di determinare la sopravvivenza e la
perpetuazione: questa è la vita, questa è l’esistenza, umana e non.» Fischi ed
esclamazioni di approvazione, conditi da una nuova mitragliata di applausi. «Questo
è lo spirito che sta a fondamento dei Gore Games, la più sincera e profonda
forma di inno alla vita.»
Prendo nota di tutto: quel che dice, il
modo in cui lo fa, analizzo il livello della comunicazione non verbale,
registro tutto attraverso gli occhiali, incido tutto su memoria, invio ogni
singolo bit al computer di casa, dove lavorerò sul materiale raccolto e butterò
giù il mio articolo critico sulla disumanità dei Gore Games e sullo spietato
cinismo del loro inventore. Quando avrò finito qui, andrò a sedermi alla
scrivania del mio studiolo, accanto a una fumante tisana, e darò forma a questo
insieme di appunti audiovisivi. Quando tornerò a casa, sbobinerò il video,
riascolterò le parole di Mister Gore, e scriverò dei suoi occhi insensibili e
del suo tono piatto, quasi asettico, privo di calore umano. Quando sarò a casa,
batterò sui tasti per descrivere la follia collettiva che pervade, strisciante,
le gradinate del Nuovo Colosseo. Quando sarò nel mio studio, racconterò di come
coloro i quali hanno potere, preferiscono usarlo per blandire le masse, per far
loro il lavaggio del cervello, per controllarli anziché risolvere i reali
problemi che affliggono la società umana. Farò ciò che è giusto fare.
A casa. Tutto questo, a casa.
Adesso, qui, è il momento dell’ingresso dei
due nuovi gladiatori.
Adesso, qui, è il momento del sangue e
della violenza, del sudore e della lotta, del prevalere della vita sulla morte;
è il momento in cui il sangue ribolle, il cuore pompa a più non posso, la
salivazione si azzera e tutti i cinque sensi si concentrano su quelle movenze e
su quegli sguardi e quelle espressioni manifestazione dell’attaccamento alla
vita, dell’istinto di sopravvivenza, del rifiuto della morte.
Adesso, qui, è il momento di Gore Games.
È il momento di ciò che vogliamo e non di
ciò che è giusto.
[1]Blah, blah, blah, puttana, puttana
Ribelle, ribelle, festa, festa
Sesso, sesso, sesso e non dimenticare la violenza
[…]
Voi figli di puttana, siete pronti per la nuova merda?
Alzatevi e ammettete che il domani non arriverà mai
Questa è la nuova merda
Alzatevi e ammettetelo
L’abbiamo capito? NO!
Lo vogliamo? SÌ!
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