lunedì 31 ottobre 2022

Strega

 


La vecchia Emilia era semisdraiata in poltrona dentro una pozza di sole autunnale.
In mano aveva un libro giallo, l’indice destro infilato tra le pagine. La testa era reclinata all’indietro. Una foglia secca d’ippocastano le si era appoggiata sui capelli bianchi e là riluceva come un frammento di luce solida.
Come sempre, Laura esitò, prima di chiamarla.
Un giorno, pensava, non si sarebbe svegliata affatto. Il libro le sarebbe caduto di mano e la testa si sarebbe piegata in un’angolazione innaturale. Lei le avrebbe tastato il polso e, forse, la pelle sarebbe stata fredda. Avrebbe controllato il respiro, probabilmente attardandosi più del necessario, infine sarebbe andata in direzione a denunciare il decesso.
Un giorno come un altro, o quasi, in una casa di riposo e lei era pur sempre un’infermiera.
Fece qualche passo verso l’anziana, trattenendo il fiato senza esserne consapevole, e le carezzò la testa.
La foglia scivolò via, tornando a essere una foglia qualunque.
«È ora di cena» disse.
La donna sbatté gli occhi tornando alla realtà per quanto le era possibile.
“Quel” giorno non era “questo” giorno.
«Oh… stavo leggendo un giallo e non mi sono accorta che il tempo passava».
Laura gettò un’occhiata al libro John Dickson Carr. Le pagine erano ingiallite, un po’ gonfie d’umidità per essere state tenute a lungo tra le dita. C’erano un sacco di orecchie.
Emilia leggeva quel romanzo da due anni.
Da quando l’Alzheimer si era aggravato, lo apriva a caso, svogliava qualche pagina, leggeva qualche riga, poi se ne dimenticava. Il giorno dopo ricominciava da capo.
Negli ultimi sei mesi le era subentrata una maculopatia che l’aveva privata della visione centrale in tutti e due gli occhi.
«Vedo la divisa e il cappellino» le aveva rivelato una volta «ma la tua faccia è nell’ombra».Difficile che riuscisse a leggere più di qualche parola.
Nondimeno, si portava sempre dietro un romanzo giallo, tenendolo sotto l’ascella mentre passeggiava in cortile finché non decideva che arrivato il momento di sedersi e aprirlo.
«È così avvincente» disse «non mi pareva che fosse così tardi».
«Succede» disse Laura aiutandola ad alzarsi.
Lei le fece un mezzo sorriso e si diresse verso la sala da pranzo a piccoli passi veloci, ticchettando nelle sue scarpe da vecchia signora.


«Ma questi neppure sanno che cosa sia Halloween» disse Laura «è una festa recente, cioè...».
«E infatti Halloween non c’entra niente. È un modo per tenerli occupati e distrarli. Devono solo fare dei pupazzi. Soggetto libero» le rispose Sabrina.
«Forbici e ago? Non so se sia una buona idea».
«Daremo loro una mano e non coinvolgeremo quelli che non sono in grado di maneggiarli. Per loro c’inventeremo qualcos’altro».
Laura si chiese se la vecchia Emilia fosse capace di adoperare oggetti appuntiti e si rispose di sì. La donna non aveva alcuna difficoltà motoria né di coordinazione; per esempio usava senza difficoltà coltello e forchetta. Ce n’erano molti come lei, quasi la memoria si fosse rifugiata nelle mani o nei piedi come un esercito sconfitto che tentasse l’ultima, disperata resistenza in qualche ridotta.
Tra tutti, però, la prima cui aveva pensato era stata la vecchia lettrice di gialli. «Credo sia una buona idea» convenne.
«A proposito di Halloween» continuò Sabrina «che ne dici di una vera festa?».
«Quel giorno ho il turno del pomeriggio».
«Non più. Ti ho spostato a quello del mattino e non provarti a rifiutare: ordini superiori. È ora che tu la finisca di fare la monaca di clausura».
Laura fece per ribattere, ma Sabrina glie lo impedì. «È un bel posto. Il Red Owl, poco fuori città. Lo conosci? È tutto organizzato. Festa in maschera».
«E come dovrei vestirmi, da infermiera sexy?».
«No, quello è il mio costume. Tu puoi scegliere qualcos’altro. E hai una prelazione sul secondo ballerino. C’è un numero di strip - tease maschile».
«Il primo ballerino è roba tua?» chiese Laura.
«Ordini superiori» ripeté Sabrina.


Emilia cuciva, tagliava e imbottiva senza difficoltà.
Nulla di straordinario. Aveva fatto la merciaia.
Aveva chiesto aiuto solo per infilare il filo nella cruna e c’era da scommettere che si affidasse al tatto, più che alla vista. Si capiva dall’inclinazione della testa.
Il pupazzo aveva una forma rozza, ma riconoscibile: un corpo conico e due cilindretti per le braccia, mentre il palloncino lì accanto sarebbe diventato la testa.
L’anziana donna aveva scelto un panno nero e, a lavoro ultimato, il pupazzo avrebbe probabilmente assunto un aspetto vagamente stregonesco. Alla fine, dunque, l’iconografia della Notte delle Streghe sarebbe stata rispettata, anche se Emilia non aveva la minima idea di che cosa fosse Halloween; probabilmente non sarebbe neanche riuscita a dire la parola.
«Come si chiama?» domandò Laura, dando per scontato che il pupazzo fosse una “Lei”. Era previsto che gli ospiti della casa di riposo dessero un’identità alle loro creature. Quelli che non se la cavavano col cucito avrebbero creato dei documenti cartacei, con tanto di nome, professione e segni particolari.
«Emilia» disse Emilia.
Laura si chiese se fosse il caso di commentare, ma lasciò perdere. Probabilmente l’anziana donna stava dando vita, in effige, a una versione più giovane di se stessa e quella che Laura aveva scambiato per una palandrana da strega altro non era che un grembiule da commessa.
Cercò le altre parti del pupazzo – gli occhi, per esempio – e vide il solito giallo abbandonato e malconcio. Cornell Woolrich: “La sposa era in nero”.
C’era un segnalibro, nel romanzo, che sporgeva come se avesse deciso di dare un’occhiata in giro: la foto di un uomo dall’aspetto inconfondibilmente anni ‘60. Avendola vista altre volte, Laura riconobbe il defunto marito di Emilia. “La faccia è nell’ombra” pensò.
Forse il grembiule da commessa non era neanche un grembiule da commessa.


Laura era vicino alla finestra con un bicchiere di vino in una mano e il cellulare nell’altra.
Accanto, sul tavolo della cucina, l’album dei ritratti.
Aveva smesso di sfogliarlo da poco. Si era accorta di avere poche foto e la maggior parte di più di dieci anni prima. Una Laura più giovane, più ingenua e molto più fiduciosa la guardava da quel punto irraggiungibile del tempo. Aveva un’aria decisa e sicura di sé, come se sfidasse la Laura del futuro a deludere le sue aspettative.
«Direi che ci sono riuscita benissimo, invece» disse bevendo un sorso. Posò il bicchiere e sfilò una foto dalla sede. Per l’ennesima volta, si accinse a buttarla e, per l’ennesima volta, cambiò idea.
Prese il cellulare e fece scorrere le immagini. Erano molte di più e molto più recenti.
«Far sparire queste è più facile» disse.
Ne selezionò una, esitò poi la cancellò.
«Ecco fatto» disse.
Ma nessuna di quelle immagini l’avrebbe accompagnata fino a quando sarebbe stata lei, vecchia, magari in un ospizio a cercare di afferrare gli ultimi ricordi che le erano rimasti nelle dita. Questo, però, lo pensò soltanto.


«Quanti anni ha Emilia?» chiese Laura. Lei e Sabrina stavano mettendo i pupazzi cuciti dagli ospiti della casa su una mensola di fronte all’ingresso, così che i parenti potessero vederli. Quelli che fossero venuti nei prossimi giorni, almeno.
«Non mi dire che non lo sai» disse Sabrina.
«È del ‘39, no?».
«Appunto».
«Quindi non può ricordarsi la guerra».
«Be’… non esattamente. Qualcosa probabilmente sì. Immagini, suoni, frammenti...».
«No, no… parlo di qualcosa di molto più preciso. Bombardamenti, lezioni interrotte per mettersi al sicuro nei rifugi… » disse Laura.
«Non avrete lasciato il televisore acceso troppo a lungo su qualche programma che parlava della guerra in Ucraina?». Non potevano impedire agli ospiti di informarsi, ma scoraggiavano l’uso della televisione e in particolare i programmi di informazione. Rischiavano di turbare molti anziani.
«No… mi ha parlato di gente sfollata in campagna, rastrellamenti, soldati che disertavano dopo l’Otto Settembre. Non può ricordarsi tutto questo. Era troppo piccola. Era come se raccontasse i ricordi di qualcun altro».
«E probabilmente lo sono. Storie sentite da altri che adesso crede di aver vissuto in prima persona».
«Già» disse Laura. Era una spiegazione razionale e funzionava. Quello che non funzionava ero lo sguardo della donna mentre raccontava. Angosciato. Come se davvero avesse vissuto quelle esperienze. Nessun ricordo poteva provocare quel terrore se non si trattava di qualcosa sperimentato direttamente. Ma questo Sabrina non avrebbe potuto capirlo, soprattutto perché lei stessa, Laura, non sarebbe riuscita a raccontarlo meglio di quanto stesse facendo.
«Non preoccuparti per lei» disse Sabrina. «Starà benissimo. Sai che il periodo più duro, per loro, è quello delle feste, ma questa… non è una vera festa, lo hai detto anche tu».
La vecchia Emilia non aveva figli. Solo un pronipote che veniva a trovarla di tanto in tanto. Sabrina aveva ragione. Natale e altre ricorrenze simili potevano essere dure per gli anziani soli, ma Halloween…«Mi chiedo solo chi sarà l’infermiera che baderà a me, quando sarà il mio turno» disse.
Sabrina la guardò gravemente. «Questo è il motivo per cui devi assolutamente venire al Red Owl, domani sera».


Emilia, il pupazzo, non era al suo posto.
Era in braccio all’altra Emilia, quella vera.
E, nel suo panno nero, con in mano un bastoncino che avrebbe potuto essere qualunque cosa (anche una scopa, ah ah) sembrava sul serio una piccola strega.
Gli occhi, in particolare. Grandi, neri e privi di palpebre com’erano sembravano… “spiritati” aveva fatto scrivere l’anziana nella sezione “segni particolari” e aveva ragione.
«Vieni, dobbiamo metterla insieme alle sue amiche» disse Laura allungando dolcemente la mano.
La donna esitò, poi le porse il pupazzo.
Al momento di lasciarlo andare, lo strinse. Gli occhi dell’anziana donna si accesero e, per un istante, Laura ebbe la certezza che Emilia la vedesse perfettamente. Che vedesse un sacco di cose. «Portala con te alla festa» disse.


Aveva dovuto scartare il costume da infermiera sexy, ma anche come strega Laura non era male.
Si osservò nel grande specchio della camera da letto, le parigine nere che si fermavano appena sotto la minigonna, il giubbino attillato dall’ampia scollatura e il cappellaccio conico sopra la testa.
Si voltò di tre quarti verso Emilia che la fissava appoggiata sui cuscini.
L’aveva portata a casa perché non aveva voluto deludere l’anziana, perché tanto nessun pronipote sarebbe venuto a trovarla e perché… oh, al diavolo, non c’era, Sabrina, quando Emilia le aveva detto di portare con sé il pupazzo.
«Come faceva a sapere della festa di stasera?» avrebbe chiesto Laura e Sabrina avrebbe risposto che, probabilmente, la vecchia aveva sentito le infermiere parlarne. Sarebbe stata, ancora una volta, una spiegazione razionale e forse Sabrina l’avrebbe convinta a rimettere il pupazzo al suo posto, ma non c’era, lei, quando la vecchia donna aveva parlato. Non l’aveva visto, Sabrina, quello sguardo.
«Tremate, le streghe son tornate» disse Laura, ed Emilia, appoggiata sui cuscini, parve approvare.


«È la nostra serata fortunata» disse Laura ad Emilia adagiata sul sedile accanto al suo.
Aveva trovato posto proprio davanti all’ingresso del Red Owl e, già a quella distanza, la musica copriva le parole.
Un buttafuori vestito di scuro stava di guardia appoggiato al muro accanto all’ingresso.
Esitò e, per un momento, fu tentata di tornarsene a casa.
«È solo una stupida festa» disse e, improvvisamente, si rese conto che era vero. La vera Halloween era diversa da quella che si accingeva a celebrare quanto la ricorrenza cattolica di Ognissanti che, per secoli, l’aveva quasi soppiantata. Era una ricorrenza ctonia, legata al mistero che avvolgeva il lungo sonno dei semi nelle profondità della terra. Una celebrazione durante la quale i morti e i vivi infrangevano le barriere che li separavano. E si parlavano.
«Forza, è ora di smetterla con la clausura» disse. Spense il motore, uscì dall’auto e si diresse all’ingresso del Red Owl.
(portala con te alla festa).
Oh, per la miseria, non letteralmente.
Fu a pochi passi dalla porta, poi si fermò.
Ma perché no?
Non sarebbe stata l’ospite più strana.
Un pupazzo non troppo diverso da una bambola vodoo o qualche altro feticcio, confezionato da una donna che era… più di là che di qua, per così dire, almeno con la testa.
Una donna che apparteneva a un mondo in gran parte morto e che...
Girò sui tacchi e tornò all’auto.
Aprì la portiera e la luce dell’abitacolo, accendendosi, strappò un luccichio agli occhi neri di Emilia, quasi il pupazzo l’attendesse.
«Forza, bella, diamoci dentro» disse Laura agguantandolo.
Richiuse l’auto e tornò verso il Red Owl, le scarpe che affondavano in un leggerissimo velo di nebbia che pareva essersi alzato proprio in quel momento.
Rivolse uno sguardo al buttafuori – che lo ricambiò con un cenno di compiacimento – e appoggiò la mano alla porta.
«Le streghe son tornate» mormorò.
Poi il Red Owl esplose.


«Va tutto bene» disse l’uomo in bianco accanto al suo letto.
Un medico. Ma non era di quelli che lavoravano in ospizio e quello non era l’ospizio.
«Cosa è successo? Dove mi trovo?».
«Non è il momento» il medico.
Laura gli afferrò la mano. Il dottore provò a ritrarsi, ma lei insistette. Le scoccò un’occhiata perplessa, come se fosse sorpreso dalla forza della stretta.
«Un incidente» disse il medico «C’era una gran quantità di fiamme libere, dentro. Suppongo dovessero rappresentare un rogo, o qualcosa del genere, e avessero a che fare con lo strip – tease maschile. Forse una fuga di gas…» appoggiò l’altra mano su quella che Laura stringeva. «Pochi istanti e… se si fosse trovata dentro...» accennò a qualcosa dall’altra parte della stanza. «Quello dev’essere il suo portafortuna» disse «Decisamente efficace».
I muscoli e le ossa dolenti, Laura alzò la testa per quanto poteva.
Di fronte a lei, su una sedia dell’ospedale, Emilia pareva rivolgerle uno sguardo carico di oscur
i segreti.







Rubrus "Strega" (2022)
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