sabato 25 dicembre 2021

Sole nero (Nativity in black)

 

Racconto di 90Peppe90


Col ciufolo che Babbo Natale non esiste!
“Col ciufolo” era la massima imprecazione concessa a Luca, sebbene non gliene fosse concesso l’abuso. Mamma e papà avevano cresciuto un bambino ben educato, ma sapevano altresì che persino un bambino aveva il diritto a scaricare la pressione di una situazione spiacevole, ed era meglio farlo a parole – questo era il loro pensiero –, attraverso un’espressione colorita, e con ciò non necessariamente volgare, che in altri modi. Sempre meglio che menare le mani o sboccare in comportamenti aggressivi ben peggiori.
Prendiamo quella volta in cui Christian aveva ingiunto a Luca di ficcare la testa nel water dei bagni della scuola, minacciandolo che, se non l’avesse fatto, lui gli avrebbe pisciato sulle scarpe nuove. Sarebbe stato meglio che Luca gli avesse alzato le mani oppure offeso la madre? Né l’una né l’altra: “Col ciufolo” era bastevole, ed era stato in questi termini che Luca aveva sbottato. Christian lo aveva guardato strano, preso in giro perché incapace di usare parole da grandi – come “cazzo” o “vaffanculo” – e, deridendolo insieme al suo Sancio Panza personale, ovvero quel puzzone di Vicè, se n’era tornato in classe, soddisfatto di essersi tolto il capriccio di quella risata.
Vicè, da solo, invece era alquanto inoffensivo; in mancanza di Christian, si limitava a stazionare, accasciato sulla sedia, nell’angolo in fondo alla classe, là dove l’aria si faceva viziata di rutti e piedi al gorgonzola. Smanettava col telefono, magari, si scaccolava, si grattava le ascelle o faceva disegni sconci sul banco o sulle sue stesse braccia, tipo tatuaggi, ma raramente si scomodava a rompere le scatole a Luca o a qualcun altro.
Tant’è vero che, essendo che Christian aveva ben deciso di saltare integralmente la settimana antecedente alle vacanze natalizie, quell’ultimo periodo, per Luca, stava risultando piuttosto pacifico. Si era potuto dedicare, insieme ai compagni, alla realizzazione del cartellone da appendere all’ingresso della scuola senza che nessuno – leggasi “Christian” – andasse a rubare le matite, usare le tempere per imbrattarne i vestiti, strappare i fogli e via discorrendo. Christian era una grande testa di rapa – e questa era l’offesa massima che mamma e papà concedessero a Luca di utilizzare con parsimonia – e la scelta di assentarsi quei sette giorni, allo scopo di allungarsi le vacanze invernali, era stata la cosa più intelligente che avesse mai fatto in vita sua.
Purtroppo, però, qualcosa era comunque successo.
Vicè aveva partecipato di buon grado alla creazione del cartellone – che doveva consistere in un mucchio di disegni natalizi intorno alla scritta colorata “LA TERZA B DELLA SCUOLA ELEMENTARE ‘EDMONDO DE AMICIS’ AUGURA A TUTTO IL QUARTIERE BUONE FESTE” –, pur tenuto a debita distanza dagli altri a causa del fetore che lo avvolgeva, piedi sudati e capelli incrostati, e la sua unica bravata era consistita nell’aver disegnato una befana con le tette al vento.
Nel bel mezzo dei lavori, poi, si era avvicinato a Luca, impegnato nel disegnare Babbo Natale, e gli aveva detto: «Ma che fai! Devi lasciarlo bianco, quello spazio! Tanto Babbo Natale non esiste
Ne era nata una lunga discussione, una diatriba accesa ma priva di violenza verbale o fisica che fosse, e alla fine era intervenuta la maestra, spingendoli a tornare al lavoro, sostenendo che non poteva essere dimostrata né l’esistenza né, tantomeno, l’inesistenza di Babbo Natale. Però, aveva aggiunto, strizzando l’occhio a Luca, se non esisteva, allora da dove venivano fuori i regali?
Vicè sosteneva fossero i genitori a comprarli, infatti siccome i suoi erano poveri, lui non aveva mai ricevuto niente, almeno fino a quando non era arrivato il reddito di cittadinanza… ma Luca la trovava un’idea stupida! Come si poteva pensare che mamma e papà se ne andassero in giro per negozi di notte – fermo restando che la notte i negozi erano chiusi! – e trovassero esattamente quel che era stato scritto sulla letterina da inviare a Babbo Natale? Per altro, Luca scriveva annualmente le sue lettere con quello speciale inchiostro invisibile che poteva essere letto da Babbo Natale solo quando, esponendo la carta alle fiamme del camino accese dalla magia dei suoi aiutanti elfi, l’inchiostro si sarebbe colorato e avrebbe profumato di cannella. Nessun altro, men che meno mamma e papà, avrebbe quindi potuto leggere il contenuto della missiva!
Ma all’uscita da scuola, quando la campanella aveva appena smesso di trillare, Vicè aveva ripreso l’argomento, e allora Luca gli aveva risposto sbottando a modo suo: «Col ciufolo che Babbo Natale non esiste! E quando torniamo dalle vacanze te lo farò vedere! Te ne darò prova!»
Da allora, ci aveva pensato quasi ogni giorno, e così, la sera del 24 dicembre, Luca sgattaiolò fuori dalle coperte e, calpestando il pavimento freddo a piedi nudi e denti stretti, attraversò il corridoio nella furtività dei suoi trenta chili, con il telefono in mano. Non aveva uno smartphone – mamma e papà ritenevano non fosse ancora grande abbastanza per tuffarsi e sguazzare in quel mondo – ma un vecchio modello di Sony Ericsson a colori e con i tasti grandi. Munito, ovviamente, di fotocamera.
Avrebbe fotografato Babbo Natale in azione! Cavoli, se ci fosse riuscito, lo avrebbe pure filmato! Quale prova migliore per mettere a tacere quello stupido fetente di Vicè? Che andasse a farsi una doccia, poi!
Luca aveva superato anche la sua ritrosia delle stanze buie. Era rimasto sveglio, sotto le lenzuola, aspettando di sentire la porta della camera da letto chiudersi. Quando era successo, aveva atteso per una decina di minuti, che gli era parso l’arco di tempo più lungo e sfibrante della sua esistenza. In quel mentre, una variante stridula e vigliacca della sua voce gli aveva gridato, in testa, che non poteva pensare di correre là fuori, al freddo, con le luci tutte spente. Lui aveva ribattuto, sussurrando tra sé e sé, per infondersi coraggio, che comunque il corridoio passava dalla stanza di ma’ e pa’, e che quindi, in caso di pericolo, avrebbe potuto rifugiarsi là. E poi… e poi era la notte di Babbo Natale. Era la notte in cui Babbo Natale, sorvolando il mondo sulla sua magica slitta trainata dalle renne volanti, distribuiva i doni ai bambini meritevoli. Era una notte magica. E, il giorno dopo, tutti avrebbero colto i frutti di quella magia.
E se Vicè avesse ragione?
La vocina vile e sottile aveva raggelato Luca.
Se davvero Babbo Natale non esistesse?
Luca non aveva trovato niente da rispondere.
Se vai là fuori e sei davvero tutto solo e al buio?
Ma Vicè era un puzzone, un mezzo scemo, il Sancio Panza di quella testa di rapa di Christian! Aveva tutti i voti bassi e passava le ore di scuola a farsi rimproverare per la sua indolenza e a ficcarsi le dita nel naso e a frugarsi dentro le mutande. Era un buono a nulla che, probabilmente, si sarebbe garantito un’ottima carriera da spacciatore di rione. Figurarsi se poteva avere ragione…
«Col ciufolo che Babbo Natale non esiste!»
Con quella esclamazione Luca era riuscito a zittire definitivamente la vocina.
Raggiunto il soggiorno, dove la lunga tavolata era rimasta coperta dalle tovaglie rosse e dai mazzi di carte sparse, dalle cartelle della tombola e dai bicchieri dei nonni e degli zii e dei cugini che avevano cenato lì, e che l’indomani sarebbero tornati per il tradizionale cenone, Luca s’era acquattato sulla soglia della stanza.
L’albero si trovava di là dal tavolo, accanto alla finestra, e le lucine erano spente come ogni notte. La luce della luna e dei lampioni, però, filtrava dalle imposte socchiuse e illuminava quello scorcio di stanza quanto bastava da permettere di scorgere distintamente la forma del finto abete e dei pendagli che lo adornavano…
E la massiccia figura che, di spalle, reggeva un sacco sulle spalle.
 
Col ciufolo che Babbo Natale non esiste!
Era come se la mente di Luca si fosse bloccata, imperniata intorno a quel pensiero, e non riuscisse a produrre altre elaborazioni. Era stato travolto da un’ondata emozionale talmente alta e poderosa da immobilizzarlo. Giunto in punta di piedi, era stato in grado di non disturbare il sonno di mamma e papà e persino di occultare la sua presenza ai sensi di Babbo Natale, che era già lì, voltato verso il pino, quando lui era arrivato.
Luca sapeva che Babbo Natale esisteva, non aveva mai avuto il bisogno di accertarsene, ed è plausibile che non ne avrebbe mai avvertito la necessità, in futuro, se Vicè non lo avesse invitato a lasciare il foglio in bianco. Eppure, vederlo all’opera, proprio a casa sua, in carne e ossa, lo colpì con il fragore di un fulmine. Con le dovute proporzioni, era quanto gli era successo quando, l’anno precedente, mamma e papà lo avevano portato alla fiera del fumetto e lui aveva incontrato il suo disegnatore preferito. Non fosse stato per i suoi genitori, che avevano preso la parola e chiesto di autografare una copia del fumetto per Luca – il numero trentatré di Le fantascientifiche investigazioni di Lem Nomad – lui se ne sarebbe rimasto zitto e imbambolato come un piccolo spaventapasseri piantato al suolo. Che poi era esattamente la figura che aveva fatto, quella dello spaventapasseri, impagliato dall’emozione, e se non fosse stato per ma’ e pa’ se ne sarebbe tornato a casa senza l’albo filmato. A mani vuote. Invece ci aveva guadagnato quello e una bella pacca sulla spalla: «I tuoi mi hanno detto che sei bravo a disegnare, eh?», gli aveva riferito il fumettista. «Promettimi che coltiverai questa passione, così, un giorno, disegneremo qualche volume insieme!»
La storia si ripeteva, insomma, anche se un disegnatore di fumetti – per quanto apprezzato e ammirato – non poteva nemmeno sognarsi di reggere il paragone con Babbo Natale in persona! Il punto era, comunque, che se Luca si fosse lasciato impietrire dall’emozione, il cuore ingolfato dai battiti accelerati, questa volta si sarebbe perso qualcosa di più prezioso che un semplice fumetto autografato… si sarebbe perso l’irripetibile – nella mente di un bambino l’attesa di un anno equivale a un’infinità incalcolabile – occasione di immortalare la prova provata dell’esistenza di Babbo Natale. Se non si fosse dato una mossa, l’avrebbe data vinta a quel mezzo bullo scansafatiche di Vicè… che magari, al rientro dalle vacanze, avrebbe spifferato la vicenda a Christian e quest’ultimo avrebbe preso a tormentare Luca anche su questo argomento.
Questa volta, Luca doveva agire; doveva muoversi alla svelta!
Il suo cervello tornò a percepire il peso e la materia del telefonino chiuso nella mano, appiccicosa di sudori freddi e scossa da ripetuti fremiti, e allora Luca ne sbloccò la tastiera e avvicinò il polpastrello del pollice al pulsante laterale per attivare la fotocamera e…
Se resti sveglio la notte della vigilia, Babbo Natale non viene!
Era stata la vocina pavida e uggiolante a parlargli nella testa. Ma non si era trattato, in questa circostanza, di una varietà della sua stessa voce. Era stata una sorta di imitazione. L’imitazione della voce di mamma. Quand’era stato più piccolo, ricordò ora Luca, la notte di Natale si era impuntato di rimanere sveglio per poter conoscere quel panciuto vegliardo barbuto. E allora mamma gli aveva detto esattamente quello: che Babbo Natale, se non ti fidavi di lui, se non confidavi nella sua esistenza, tanto da non dormire la notte e metterti a curiosare, non veniva a lasciarti i regali. Anzi, di più, il 6 gennaio, la sua amica Befana avrebbe portato una calza rigonfia di carboni ardenti, secchi e amarognoli, per ripagare una simile monelleria.
Be’, fece Luca, rispondendo all’imitazione mnemonica della voce di sua madre, il polpastrello inerte sul pulsante della fotocamera. Io sono rimasto sveglio non perché non credo che Babbo Natale esiste… ma per dimostrare a uno scemo che non ci crede che invece esiste!
Quella riflessione chiudeva il cerchio e metteva a tacere qualsiasi avvertimento avrebbe potuto formulare la vocina mentale: era l’unica spiegazione che potesse giustificare la presenza di Babbo Natale nonostante Luca fosse sveglio. Babbo Natale lo sapeva, sapeva che Luca credeva in lui e che non era fuori dal letto per accertarsi della sua esistenza, e quindi era venuto ugualmente per portare in dono quanto rispettosamente richiesto nella letterina. E il mese seguente la Befana avrebbe di certo portato una calza traboccante di delizie…
Col ciufolo che Babbo Natale non esiste!
Al ripetersi quel mantra, Luca ritrovò le energie necessarie ad attivare la funzione fotografica del suo Sony Ericsson, ma poi si fermò.
Riconosceva quella puzza. Non capiva perché l’avesse notata soltanto adesso, probabilmente perché all’inizio i suoi sensi erano stati intorpiditi e surclassati dall’emozione di vedere Babbo Natale, fatto sta che adesso la sentiva. Ed era tremenda. Com’era tremendo che lui la riconoscesse. Era il fetore di sudore e sporcizia che promanava spesso dall’angolo in fondo alla classe. Quello occupato da Vicè. Era la puzza di Vicè, sì, che però si univa, in una mescolanza nauseabonda, all’unticcia acqua di colonia con cui si cospargeva Christian. Era il puzzo delle spacconate, dei soprusi, del bullismo. Era il fetore contro il quale Luca aveva imparato a dire: «Col ciufolo!» stringendo dignitosamente i pugni.
Ma c’era anche dell’altro.
Luca sentì gli intestini raggomitolarsi e salirgli verso l’esofago fino a far vibrare l’ugola. Il miasma, come se non fosse stato già di per sé abbastanza vomitevole, era aggravato da un’ulteriore nota fetida. Era un odore forte, prepotente, e – sebbene questo Luca non potesse saperlo – affine a quello, selvaggio e ferale, che si potrebbe captare nella tana di un lupo.
Adesso che all’immensa portata dell’iniziale vampata di emozioni sconvolgenti aveva iniziato a sostituirsi la razionalità – ovvero: Babbo Natale è qui perché sa che io credo in lui e adesso devo prendere il telefono, scattare la foto e correre fino al letto –, non solo Luca era stato investito da quel tanfo disumano, più che bestiale, ma anche da un dubbio suo – e suo soltanto, non dettato dalla vocetta impaurita, non stavolta.
Perché se n’è rimasto fermo, in questa manciata di minuti, a darmi le spalle? Perché non s’è messo a rovistare nel sacco? Perché, mentre me ne stavo qui a fissarlo sbalordito, non tirava fuori i regali e li piazzava sotto l’albero? Perché…?
La risposta era tanto semplice quanto terribile: perché quello non era Babbo Natale.
La vocina terrorizzata maturò quella consapevolezza un istante prima di Luca. E quella consapevolezza trovò conferma quando, frattanto che Luca si poneva certi legittimi interrogativi, quell’intruso imbacuccato da Babbo Natale si girò di scatto verso di lui.
 
Luca rimase nel nero delle palpebre chiuse per un lasso di tempo indecifrabile. Nonostante la totale assenza di luce e la sua congenita paura del buio, il bambino trovò confortevole quel nero avvolgente, entro il quale evocò la confortevole sensazione, quasi tattile e olfattiva, di stare affondando la faccia contro il petto di mamma o papà.
O almeno all’inizio fu così.
Perché poi, a un certo punto di quel tempo senza tempo, un’immagine rosseggiante gli si parò dinnanzi, tracciandosi nel nero, un’immagine residua impressa nella retina e marchiata a fuoco sotto le palpebre. La stessa immagine che lo aveva indotto a chiudere gli occhi: l’effige di Babbo Natale! O meglio, della cosa che Luca aveva creduto essere Babbo Natale, fino a quando non si era voltata a guardarlo…
L’impostore aveva una barba tanto folta da ricoprirgli l’intero volto, occultandone i tratti fisionomici, una barba simile a irsuto e setoloso pelo ruvido, che aveva perso – semmai ne avesse mai avuto alcuno – qualsiasi connotato di candido biancore: era nera, striata irregolarmente di grigio scuro, un grigio più vicino al nero che al bianco.
Al posto del naso emergeva, dal folto di quella barbaccia, un muso affilato, lupesco, dalle cui cavità fuoriuscivano fitte nubi di condensa eruttanti come vapore ribollente. Gli occhi erano due biglie rosse, due conglomerati di sangue fresco solidificato, privi di pupille e di palpebre, eternamente e voracemente spalancati. Schiumanti di rabbia.
Da qualche parte sotto quegli orribili occhi e quel muso protruso e arricciato nell’atto di intercettare qualsiasi odore, si srotolava in orizzontale una larghissima chiostra di denti più cagneschi che umani, e anzi forse anche più affini a quelli di uno squalo che a quelli di un cane o di un lupo.
Il resto del corpo era nascosto – per fortuna! – dal vestito che era un’esatta replica di quello di Babbo Natale, ma nero anziché rosso, a parte ciò che sbucava dalle maniche foderate di pelliccia ispida (probabilmente la stessa che ricopriva la mostruosa faccia): ovvero un paio di mani che… oh, be’, che non erano mani! Erano due zampe dotate di dita prensili, troppe dita prensili, che davano l’idea di poter afferrare qualsiasi cosa, animale e persona in qualsiasi frangente e in qualsiasi condizione – davano l’idea di poter afferrare le proprie prede (non potevano ghermire altro che prede, quelle zampe bestiali!) e squarciarle spietatamente con quegli adunchi artigli somiglianti a ganci da macelleria.
Per concludere, ai lati del cappello da Babbo Natale – calcato su una testa in cui la barba sfociava in capelli lunghissimi e della medesima tonalità della barba – fuoriuscivano due possenti corna da caprone ricurvi all’indietro.
«Vieni qua, frocino», aveva detto il mostruoso impostore, producendo un suono che Luca conosceva bene, perché era la voce di Christian – la voce che lo aveva impaurito svariate volte accompagnato da quell’aroma dolciastro di acqua di colonia frammista al puzzo di Vicè – ed erano parole che Luca si era già sentito rivolgere in precedenza. «Vieni qua e ficca la testa nel cesso, altrimenti ti piscio sulle scarpe nuove!»
Luca, atterrito, era rimasto paralizzato dal terrore e si era visto calare addosso il sacco che, se quello fosse stato il vero Babbo Natale, avrebbe traboccato di splendidi regali. E invece era stato vuoto, quel sacco, almeno fino a quando non si era riempito di Luca.
Lì lui aveva chiuso gli occhi ed era stato aggredito dall’odore chimico e acidulo dei bagni della scuola, sotto al quale imperava un tanfo raccapricciante di terrore e umori corporei, umidità e sudiciume. E il nero era stato totale fino al momento in cui una rosseggiante striscia di fuoco aveva disegnato l’orrida faccia del mostro sotto le palpebre serrate.
Solo a quel punto, vedendosi apparire l’immagine tremebonda che lo aveva costretto a chiudere gli occhi, Luca li riaprì… e allora percepì vacillare l’immaturo senso della realtà che aveva costruito, mattoncino su mattoncino, nei suoi undici anni di vita.
Non si accorse né del caldo né del fatto che stesse sudando, perché la sua giovane mente fu totalmente assorbita dalla stranezza del luogo in cui si trovava, e che doveva trovarsi dentro al sacco di Babbo Natale, o oltre di esso, dato che Luca non si trovava più nel salotto di casa sua, né in nessun’altra stanza di casa sua, e che potevano essere passati solo minuti dal momento in cui quell’incubo travestito da Babbo Natale gli aveva infilato il sacco sulla testa. Doveva essere successo uno di quei salti spaziotemporali di cui Luca leggeva in certi numeri di Le fantascientifiche investigazioni di Lem Nomad. Con la sola eccezione che nei suoi fumetti preferiti non figuravano luoghi tanto squallidi e deprimenti come quello che gli si parava davanti.
Nevicava, in quel posto pazzesco, e la neve era nera ed era calda e cadeva in forme che ricordavano soltanto vagamente i cristalli di ghiaccio, perché oltre a essere neri – di un nero nel quale, però, potevi vedere attraverso – erano privi di qualsiasi perfezione, simmetria e regolarità; per di più, quegli pseudo-cristalli cascavano giù da un cielo bianco, di un bianco sporco, nel quale si ergeva un sole nero e… gelido. Luca non capì per quale ragione pensasse – o, di più, sapesse – che quel sole fosse gelido, anche perché la neve era calda e lui stava sudando (se ne accorse solo allora), ma lo sapeva e tanto bastava: se non fosse stato per la neve, scottante e nera, quel sole avrebbe congelato il mondo sul quale dominava.
In lontananza, all’orizzonte, si intravedeva una altissima sagoma che doveva essere una montagna, la cui vetta sfiorava il sole nero piazzato in quel cielo smorto e incolore, come il foro di un proiettile nel mezzo della fronte di un cadavere. Nient’altro si scorgeva all’intorno: tutto il resto era una monotona e compatta tavola di nera neve scottante.
Luca, che si era ridestato seduto su quella superficie bizzarra, balzò in piedi quando avvertì il bruciore ai palmi delle mani poggiati sulla neve. Continuò a guardarsi intorno e non vide altro che una desolazione di neve nera e calura opprimente. Ciò che vedeva lo atterriva e non ci volle molto che, infine, il ragazzo scoppiasse a piangere disperatamente. Invocò a lungo sua madre e suo padre, invocò che venissero a prenderlo, strillò nella speranza che potessero udirlo, dovunque lui si trovasse, e arrivassero per trarlo in salvo. Che lo riportassero a casa, dove l’indomani avrebbero festeggiato il Natale tutti insieme, in famiglia, tra una portata e una tombolata.
Il pianto e la disperazione durarono parecchio, e alla fine, quando Luca si ritrovò con un groppo in gola, le narici irritate e la bocca asciutta, la testa pulsante e appesantita, si ritrovò a corto di lacrime. Doveva averle piante tutte, eppure non era successo nulla, non era cambiato niente. Aveva rimediato solo un gran mal di testa e una continua fuoriuscita di muco dal naso.
Sprovvisto di fazzoletti, si ripulì alla meglio con le mani, poi iniziò a tirare su col naso e infine, sfinito dalle lacrime, si sedette e incassò la testa tra le ginocchia piegate. Decise di restarsene lì, in quella posizione, fino a quando la neve – una volta caduti, gli pseudo-cristalli si sfarinavano in una strana soluzione tra il liquido e il solido, inspiegabile e indescrivibile – non gli avrebbe reso insopportabile la calura al fondoschiena.
«Risolvere un mistero è come ritrovarsi all’improvviso in una stanza sconosciuta: l’importante è non farsi travolgere dallo sconforto ma ricordare, invece, che per ogni stanza c’è una porta… e per ogni porta, una chiave!»
Era la tipica frase del protagonista del suo fumetto preferito, quello del quale aveva conosciuto il disegnatore, lo stesso disegnatore con cui, da grande, Luca avrebbe tanto voluto illustrare una storia. Lem Nomad era un investigatore privato, un detective che si trovava invischiato in mille e più casi, apparentemente irrisolvibili e indecifrabili. Ma alla fine ce la faceva sempre. Alla fine trovava sempre la porta della stanza; e se la porta era chiusa, Lem riusciva a trovare una chiave… o fabbricava un chiavistello per forzarne la serratura.
Luca sollevò il capo. Fissò intensamente la sagoma pressoché triangolare all’orizzonte, gli occhi che bruciavano, arrossati per via del pianto e del calore promanato dalla neve nera di quel mondo raggelato dal sole nero che bucava l’insopportabile insipidezza del cielo morto.
«Se il sacco era la porta d’ingresso…», mormorò, in un filo di voce che non gli impedì di immaginare sé stesso nelle sembianze di un novello, giovane Lem Nomad, «… allora quello può essere il varco d’uscita…»
Inizialmente non ne fu molto convinto. Più ripensava a quanto aveva appena detto, tuttavia, e più quelle parole gli apparivano sensate. Era finito lì – ovunque fosse quel – dopo che il Babbo Natale demoniaco lo aveva inghiottito nel suo sacco nero… e adesso non c’erano oggetti, costruzioni, animali, persone o qualsiasi altra forma di vita, anche mostruosa o aliena, cui potesse appigliarsi per ricostruire una parvenza di orientamento.
C’era solo quella montagna…
«No, non “montagna”», si disse, tirandosi in piedi, i pugni stretti come il giorno in cui si era rifiutato di sottomettersi alla prepotenza di Christian e mettere la testa dentro al cesso, il filo di voce che si annodava ad altri fili di voce, iniziando a formare una cordicella appena più spessa e appena più resistente. «Un varco. Una porta.»
E si incamminò.
 
Iniziò a constatare che non si trattava di una montagna più o meno nell’esatto momento in cui scorse, tra la nera neve e il vapore scuro che ne scaturiva, distorcendo la visibilità, delle macchie in movimento.
Sembravano grossi cumuli di quella strana neve smossi da particolari e insensate correnti d’aria. Ma man mano che si avvicinava, non avendo oramai contezza di ogni singolo passo dato che il corpo aveva assunto autonomia rispetto alla mente focalizzata nel tentativo di decifrare ciò che gli si andava parando dinnanzi, Luca fu raggiunto dal fastidioso rumore di schiamazzi che si sforzavano di intonare il motivetto di una canzone con scarsi risultati.
Non beccavano una nota giusta, quelle voci urlanti, e non seguivano alcuno schema, distanti da qualsiasi concetto assimilabile a quelli di ordine, consequenzialità e armonia. Ma tanto bastò a Luca per capire che quelle macchie in movimento, via via più nette e distinte nel suo campo visivo, corrispondevano ad altrettanti individui impegnati in un ballo e in un canto sfrenati e del tutto privi di senso.
Eppure, a fronte di ciò, quel che colpiva Luca con maggiore potenza era la montagna. Che non era una montagna, no. Era triangolare, sì, un triangolo isoscele dai lati lunghi e congruenti e il cui vertice puntava dritto in cielo. Ma no, appunto, non era una montagna. Il guaio vero, però, era un altro.
Una voce – la solita vigliacca e crudele – tornò a insinuarsi nei meandri della sua mente: Col ciufolo che sei Lem Nomad! Già. Scarse capacità investigative. Scarso intuito. Scarso coraggio. I pugni si sciolsero, le spalle si afflosciarono, intorno riprese ad aleggiare l’appiccicoso fetore di acqua di colonia, candeggina a buon mercato e calzini lerci, e la voce concluse: Ed ecco il vero guaio: col ciufolo che è una porta!
 
Somigliava, per composizione e struttura, a un albero di natale. Lo scheletro rievocava l’immagine di un tronco con vari rami, alto quanto un grattacielo, e la materia di cui era fatto, però, poco o niente aveva a che fare con il legno. Era un materiale che Luca non sapeva spiegarsi. Così come non sapeva spiegarsi perché mai, al posto degli abbellimenti e dei pendagli, attaccati a quei rami – conficcati in foglie aghiformi che erano spuntoni affilati delle dimensioni di aste da bandiera – vi fossero i corpi di migliaia e migliaia di ragazzini della sua stessa età, semmai poco più piccoli o poco più grandi. Sebbene potessero, a primo impatto, dare l’idea di bambolotti o cadaveri, gli inequivocabili lamenti e gemiti di dolore che provenivano dai corpi, nonché i vaghi movimenti e gli spasmi inarticolati di cui erano preda, scansavano qualunque possibilità di equivoco. Il puzzo acido di sudore e orina, detersivi da discount e assenza d’igiene intima, lì era tanto imponente da poterlo toccare.
Luca ebbe appena il tempo di farsela addosso, senza neanche accorgersi della tiepida umidità che gli appiccicava i pantaloni alle gambe, che una delle figure danzanti in circolo attorno all’albero si voltò di scatto verso di lui con un sorriso aguzzo e impossibile. Come aguzza e impossibile era l’intera figura cui apparteneva quel ghigno: indossava un cappello nero a punta e portava una lunga barba nera, alto all’incirca quanto Luca, sguardo e pelle da rettile con denti seghettati e decine di orecchini appesi alle orecchie appuntite.
Se quell’oscena gigantesca struttura emulava un abete natalizio e il mostro che aveva spedito Luca in quella terra orrenda equivaleva a Babbo Natale, allora, concluse il bambino, quel mostriciattolo – e parimenti i suoi consimili impegnati in quei balli e in quei canti sregolati, sconclusionati e cacofonici – corrispondeva a uno di quegli elfi aiutanti che coadiuvavano Babbo Natale lassù in Lapponia.
«Benvenuto nel Multiverso all’Incontrario, amico, fatti avanti e non temere!», lo ricevette l’elfo degenerato, le cui scaglie rilucevano al sole nero e sulle quali la neve nera scivolava via, come inorridita al pensiero di doverci stare a contatto. «Perdona se non siamo venuti ad accoglierti allo stesso modo riservato agli altri», aggiunse, teatralmente affranto, indicando con le lunghe zampe palmate le macabre decorazioni dell’albero. «Ma, vedi, il tempo è quasi giunto… e dobbiamo festeggiare l’annuale venuta del nostro signore e padrone! E quando viene lui, tutto si sovverte, il lavoro diviene ozio, il dovere divertimento, persino la vita si converte in morte!»
Luca sentì cedere le ginocchia tremanti e, il cuore ridotto a un atomo inconsistente, cascò prostrato davanti a quella visione e a quelle parole semplicemente irricevibili e astruse. Ebbe l’impressione che il cervello gli fosse esploso e, sotto forma di massa gelatinosa, si fosse spiaccicato contro le pareti della scatola cranica. Si sentiva sottosopra, come sottosopra era quel mondo, quel multiverso, incubo o realtà che fosse, fatto sta che la sostanza non cambiava poi di tanto: ogni cosa era corrotta e ribaltata nel suo ordine naturale.
«Avanti, vieni qui, amico! Unisciti alla festa! Perché non c’è festa che si rispetti se manca il cibo
Prima ancora di potersi ulteriormente terrorizzare nell’udire quanto appena esclamato dall’elfo malvagio, quest’ultimo allungò il braccio, simile alla coda di un varano ma dalla consistenza elastica, afferrò Luca per un polso e, estendendo ulteriormente l’arto, andò a piazzare il ragazzo insieme agli altri orpelli umani dell’albero. Un ramo trapassò, da parte a parte, il ventre del ragazzino poco sotto lo sterno.
Luca, ben lungi dal morire sul colpo, si sentì paralizzare dal dolore e, eruttando una discreta quantità di sangue, spalancò gli occhi verso il sole nero che ardeva glaciale nel cielo slavato di quell’irreale realtà.
Fu a quel punto che lo vide.
Riluceva di un biancore abbagliante, e la sua sagoma si stagliava contro lo sfondo scuro del disco solare, attraversata ma mai toccata dalla neve che, turbinante, si sfaldava in atomi inconsistenti nelle sue immediate vicinanze. Conduceva un carro trainato da sbraitanti bestiacce che, anch’esse baluginanti di un marmoreo candore, avevano sembianze di cani da caccia ma muniti di ritorti palchi da renna. I loro versi, però, più che i latrati di una muta di cani si avvicinavano ai ruggiti primitivi dei T-Rex che facevano tremare le sale cinematografiche.
Più si avvicinava in picchiata verso l’albero, in un crescendo inarrestabile di paura che faceva palpitare e vibrare il corpicino di Luca, più la figura si manifestava nelle sue abnormi proporzioni: un gigante, un colosso, un titano che avrebbe potuto utilizzare il pianeta Terra come una pallina da golf. E più si avvicinava, più la titanica figura rischiarava l’angoscia di quel luogo desolato e perverso, dall’ordine pervertito, rendendo progressivamente ciechi gli occhi di Luca e delle decine di centinaia di migliaia di altri bambini come lui. Bambini che, si rendeva conto adesso Luca, preda di un’improvvisa e illuminante consapevolezza, avevano anch’essi sovvertito l’ordine vigente: contravvenendo alla regola, erano rimasti svegli per sbirciare la venuta di Babbo Natale, e per questo erano stati rastrellati dalla mostruosa aberrazione che aveva messo nel sacco anche Luca.
«Vieni a noi, nostro signore, tu che sei padrone incontrastato del Multiverso: laddove il giorno è notte e la luce è tenebra, gli schiavi sono signori, gli elfi sono goblin e i santi sono demoni!», intonavano a squarciagola le figure danzanti alle pendici dell’albero – e solo allora le orecchie di Luca si accorsero che, sebbene parlassero una lingua a lui sconosciuta, sicuramente non italiana (né, suppose, umana), lui riusciva a capire ogni singola parola. «Vieni e accetta i nostri doni! Vieni e fa’ tuo il Raccolto del Krampus, il nordico segugio che hai sottomesso, il tuo raccordo tra questo e l’altro universo! Vieni e recupera le tue antiche energie, ricostituisci le tue forze, in attesa del tuo ritorno! Tu che hai divorato la luce del Sol Invictus, Primo degli Impostori, tu che porti la corona di spine del Secondo Impostore, tu che adesso devi annientare il consumistico potere che alimenta l’Ultimo Impostore che ha usurpato il tuo scranno e che ha contribuito a relegarti in questo oblio perenne!»
Luca sentì i timpani esplodere sotto la pressione di quel canto invocativo, il sangue sgorgare dai padiglioni auricolari, colandogli lungo un corpo sempre meno presente a sé stesso, sempre meno sensibile, gli occhi che si perdevano in un lucore senza fondo, senza passato né presente né futuro, un’abbagliante vampata bianca che nel suo mondo, il mondo reale e ordinato, non poteva che equivalere a un infinito nero abissale.
Una terrificante scossa di energia lo percuoteva continuamente da quando era stato appeso all’albero, e non riuscì a trattenere un pensiero raggelante: quel vibrante e persistente brontolio erano motori in rodaggio, in fase di avviamento, che da tempo immemore stavano incamerando l’energia sufficiente per poter completare l’accensione e procedere con la partenza, la partenza di un aeromobile, di una navicella, di uno shuttle a foggia di abete natalizio, progettato per un viaggio interdimensionale, da questo Multiverso a…
O forse era solo la sua fantasia, sollecitata dalle fantascientifiche avventure di Lem Nomad, stressata dalla sfrontata sfida lanciata da un bulletto della classe, o forse… o forse no. Nessuna mente umana, nemmeno quella fervida e propensa alle fantasticherie come lo era la sua, come lo è quella dei bambini, poteva concepire simili orrori. Luca vibrò, soffrì, avvertì qualcosa che si staccava da lui, all’interno, prendendo il largo in uno schiumante oceano di oscurità sconfinata.
Era cieco ma vide: quel titanico vecchio, rifulgente al di là dell’aura sfolgorante, racchiuso negli stracci dal cappuccio sollevato; la barba svolazzante e gli occhi avidi, giallastri come bulbi di pus infetto, i lunghi capelli che parevano fili arrugginiti dell’alta tensione, la falce nella destra e l’enorme mano sinistra, dalle interminabili dita dinoccolate, grosse come colonne, e le annerite unghie spezzate, protesa per arraffare e soddisfare l’eterno, smodato e insaziabile appetito espresso da quella bocca sdentata e spalancata, sbavante, ingorda.
Era sordo ma sentì: «Vieni a noi, o Saturno, nel giorno a te consacrato, e riafferma il tuo antico e originario potere… DIVORANDO I TUOI FIGLI!», e ancora, mentre tutto si riduceva all’eterna luce della fine, l’eterna luce che era eterna tenebra, i goblin proseguirono: «Morte al Giorno di Nascita del Sole Invitto e morte alla Natività, sacra e profana che sia, e morte ai Tre Impostori… LUNGA VITA AI SATURNALI! LUNGA VITA A SATURNO! LUNGA VITA A SATURNO CHE DIVORA I SUOI FIGLI!»
Col ciufolo che Babbo Natale non esiste!, imprecò una vocina pavida e stridente riecheggiando in una landa mentale perduta nel regno in cui l’irrazionalità era razionalità e ogni cosa esattamente l’opposto di sé stessa. Dove contorni, profili e particolari si sfocavano, investiti dal bianco. Quel bianco che doveva essere nero. Quel bianco dove tutto finiva, e dunque forse tutto iniziava, dove non aveva più importanza stringere i pugni, dimostrare di aver ragione, festeggiare insieme in famiglia tra cibo, carte e tombola, essere eroici e determinati come Lem Nomad. Quel bianco dove tutto perdeva senso per poi acquisirne uno uguale e contrario. Il nero.
Babbo Natale esiste ed esiste il suo Opposto, esiste tutto ciò che può e non può esistere, esiste ogni orrore possibile e immaginabile, riprese, veloce e affannata, la vocina che si faceva via via più fievole. Ma anche impossibile e inimmaginabile! Eppure non vivrai abbastanza per registrarne le prove…
Poi si tenne l’annuale banchetto dei Saturnali.
E, come ogni anno, fu una gran festa: serpeggianti radici nere succhiarono avidamente il sangue piovuto dall’alto, mentre imperversavano canti e danze, sonori rumori di risucchio e deglutizione. Un sabba primitivo e potente.
Il nero albero sotto il sole nero aumentò l’intensità dei suoi fremiti.
Bianchi fumi di scarico si espansero e ogni cosa tremò.
Ed ecco la porta: ecco come si tornava nell’altro universo.









7 commenti:

  1. Leggendo questa meraviglia pensavo di essere tra le pagine ora di Neil Gaiman e ancora con il devastante Chuck Palahniuk.
    Ma poi si naviga in mezzo a Scilla e Cariddi nel vasto mare weird di questo strepitoso genio di nome 90Peppe90.
    Qua troviamo la mitologia antica più affascinante - vedasi il significato di "fas" in latino - mixata con il cyberpunk più sfrenato.
    Del resto, la nostra iniziazione al culto demoniaco del consumismo avviene proprio con la figura sinistra di Babbo Natale, in quella malefica notte tra il 24 e il 25 dicembre, dove ci viene proposto un patto con Mephisto, a cui ben pochi di noi riescono a rinunciare.
    Sarebbe da ricordare che nell'antica Roma, nello stesso periodo, veniva eletto, tramite estrazione a sorte, un princeps - una sorta di caricatura, un impostore come ben menziona Peppe, della classe nobile - a cui veniva assegnato ogni potere.
    Tuttavia la connotazione religiosa della festa prevaleva su quella sociale e di "classe". Il "princeps" era in genere vestito con una buffa maschera e colori sgargianti, tra i quali spiccava il rosso (colore degli dèi e del sangue). Era la personificazione di una divinità infera, da identificare di volta in volta con Crono o Ade (Saturno o Plutone, ma talvolta pure un orrendo mix infero), preposta alla custodia delle anime dei defunti, ma anche protettrice delle campagne e dei raccolti, perchè la vita è sempre e comunque mescolata e miscelata con la morte.
    I greci e i romani, società aristocratiche, sapevano bene che ogni forma di comunità rende più "feroci e volgari", e quale forma di socialità più violenta, barbarica e terrificante del consumismo?
    Resto ammaliato, divertito, erudito con il ghigno in bocca, magnificamente straniato: lunga vita a 90Peppe90, prodigioso, fantasmagorico Aladino del weird italiano!
    E sia gioia...nera. (porc...ma che capolavoro hai scritto?)

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    1. Come sempre i tuoi commenti, caro Mauro, sono densi e costruttivi (oltre che tanto tanto lusinghieri!).
      Non può che farmi piacere il tuo gradimento e la nota di approfondimento sulla figura del "princeps": tra l'altro nel racconto si tende anche, tra i vari nuclei tematici, ad accennare a questa caricatura del nobile e quindi alla messa in discussione (e alla berlina) del potere (precostituito e non).
      E sono io a restare ammaliato ed erudito dai tuoi splendidi commenti!
      Grazie Maurone!

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  2. Pazzesco, Giuseppe!!!.... Gli spioni nevicati dall'inferno. Mi è piaciuto un casino e, come scritto sopra dal Mosco, credo tu ti sia superato in questa storia. C’è ironia, genio, orrore e filosofia. Lo scenario al rovescio, poi, davvero estraniante e suggestivo.

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    1. Quel che "temevo" maggiormente, con questo racconto, era proprio di non riuscire a rendere credibile e coerente - nell'economia e nel contesto stessi della storia - il Mondo all'Incontrario.
      Che altro dire? Elettrizzato da questa valutazione entusiasta! Così come dall'illustrazione in apertura - che, come ti dicevo, raccoglie gli elementi nodali della narrazione: il bambino inerme, il sole nero che campeggia sopra a un terreno nero e desolato, il ghignante servo del dio - e dalla possibilità di comparire ancora una volta tra le pagine del weirdissimo ALTREDIMENSIONI!

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  3. Due, forse tre osservazioni. La prima è che il racconto ruota attorno al concetto di "negativo", non tanto o non soltanto in senso etico - morale, quanto (e direi anche in modo trasparente, visto che lo dice) in senso visivo o visionario, come appunto il negativo di una foto, in cui colgo echi lovecraftiani filtrati forse dal "Revival" di King. La seconda è che negatività quotidiane sono specchio ed esempio di negatività "cosmiche" (microcosmo e macrocosmo, insomma). La terza, che esula forse dal racconto in sè è che il Natale (come tutte le feste, ma stiamo parlando del Natale, adesso) ha senso in quanto tempo "diverso" e "forte" rispetto al tempo ordinario. Non ha quindi senso - ma qui scivolo verso l'opinione personale - dire cose come "dovrebbe essere così tutti i giorni". Il senso profondo del Natale (e di tutte le feste) sta nell'essere un "di più". Se fosse Natale tutti i giorni ci inventeremmo un Supernatale - ovviamente sempre lamentandoci del suo essere "di più" che invece è il suo senso ultimo. La domanda che serpeggia nel racconto, piuttosto, o che esso fa sorgere, è quindi se vi sia davvero un equilibrio tra negativo o positivo o se invece la bilancia possa non essere perfettamente tarata.

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    1. Tre osservazioni puntuali, caro Rub. Gli echi lovecraftiani ci sono - voluti -, non so se filtrati da "Revival" (di certo non consciamente), ma applicati allo sviluppo visivo del concetto di "negativo". Ci tenevo a interrelare in qualche modo micro e macrocosmo(anche per evitare, a livello prettamente narrativo, di troncare nettamente la storia in due pezzi pressoché distinti e separati) e quindi sono soddisfatto che la cosa si scorga. Infine, una considerazione analoga la faccio in un breve racconto inedito di svariati anni fa ("Dio in terra"), in cui una ragazzina ragiona di quanto alcune cose siano speciali anche/solo/soprattutto perché hanno una durata circoscritta, limitata, vedasi il tramonto: è splendido vederlo, coglierlo, mentre il sole sparisce dietro le colline di un panorama agreste... ma se il tramonto ci fosse sempre, quale condizione fissa (ovviamente senza andare a considerare le implicazioni fisiche, climatiche, geografiche ecc!), diverrebbe banale, assoluta normalità, perderebbe il suo "di più", perderebbe il suo essere speciale. Tornando a questo racconto, invece, non oso immaginare come potrebbe essere il tramonto di un sole nero...

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    2. Come dice Renato Pozzetto in "Il ragazzo di campagna" - parafrasando: il treno è sempre il treno, ma se lo fanno passare spesso ci si abitua e non ci si diverte più.

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