giovedì 28 agosto 2014

Pappagalli


Racconto di 90peppe90


Le ci volle un po’ di tempo per mettere a fuoco la scena.
Nella penombra, corredata dalla pallida luce lunare, riuscì a scorgere un baule in fondo alla stanza e un piccolo armadietto alla sua destra. Il letto era a due piazze. Comodo. Ma…
Dove sono!?, pensò, saettando semieretta sul letto. La testa scattò a destra e a sinistra. Non conosceva quella stanza. La testa le pulsava all’altezza della nuca. Toccò la parte dolorante e una forte fitta la investì.
«Ahi!», esclamò. «Cos’è successo…?».
Come risposta sentì un leggero rumore metallico. La penombra fu squarciata da un fascio di luce gialla e tremolante. Era una torcia elettrica. Nella mano di un uomo.
«Buonasera», disse l’uomo. «Vedo che si è svegliata.»
La voce era gentile e placida. L’uomo alto, di età indefinibile, forse sulla cinquantina, il viso appena illuminato dalla luce della luna.
«Dove mi trovo? Chi è lei?». La voce della giovane donna risultò alquanto spaventata e ciò la irritò. Non voleva dare quell’impressione.
«Oh, non ricorda nulla?», domandò l’uomo. «L’auto? La caduta?».
La donna inizialmente parve non capire. Poi il viso le si illuminò, ricordò l’auto improvvisamente ferma, la ricerca di aiuto, i colpi ad una porta e poi il vuoto.
La camera si illuminò di colpo per un istante, come immortalata dal flash di una gigantesca macchina fotografica. Seguì un tuono.
«E ricordo anche il temporale. A quanto pare, non è ancora finito.»
«Sembra proprio di no», rispose l’uomo premendo un interruttore. Non accadde nulla e lo premette di nuovo. «In più, la corrente elettrica non è ancora tornata. E qui in campagna ho soltanto questa vecchia torcia che non uso da anni.»
Fuori, la pioggia cominciò a cadere più forte.
«Ad ogni modo», riprese l’uomo. «Sì, in effetti casa mia è l’unica abitazione nel raggio di parecchi chilometri. E da qui, difficilmente passa qualcuno. Dopo aver aperto la porta, stava per portarmi al punto dove le si era fermata l’auto. Però è scivolata sul terreno fangoso e ha sbattuto la testa sullo scalino d’ingresso. Per fortuna sono riuscito ad afferrarla all’ultimo attutendo l’impatto. Almeno così non c’è stato bisogno di portarla in ospedale. Le linee telefoniche sono saltate e il centro medico più vicino si trova molto distante da qui.»
La ragazza lo ringraziò e gli chiese se, per caso, avesse cercato la macchina.
«Sì, certo. Esattamente un paio d’ore fa – dopo averla portata in questa stanza - sono uscito a cercare l’auto. Adesso si trova di fianco alla mia, nel box. E sembra funzionare. Soltanto qualche cavo fuori posto, nulla di irreparabile.»
La ragazza lo ringraziò nuovamente. «Credo di dover togliere subito il disturbo. Stavo salendo in campagna dai miei genitori per questo weekend. Mia madre è stata poco bene in questi giorni, perciò avevo deciso di andare a trovarli proprio nel fine settimana.» Non sapeva perché stesse raccontando cose private a quell’uomo. Ma si sentiva in debito con lui. L’improvvisa gratitudine verso quello sconosciuto la spinse a raccontare la verità.
«Ma non si preoccupi, nessun disturbo! Tra l’altro, sarebbe un po’ imprudente ripartire con questo brutto tempo. Aspetti almeno che smetta di piovere e poi…». Fu interrotto da un fischio stridente e prolungato, proveniente da un’altra stanza. «Quasi dimenticavo! Stavo anche preparando del tè. Con questo freddo e dopo una disavventura del genere, credo sia l’ideale.»
La donna tentennò qualche secondo. «Sì, penso proprio di sì», disse, infine.
L’uomo poggiò la torcia sul baule in fondo alla stanza.
«Non mi sembra giusto lasciarla al buio. Anche senza questa», disse, indicando la torcia, «so muovermi a casa mia evitando di sbattere la faccia riducendola ad un frittella.» Il tono fu a metà tra il serio e l’ironico. E risero tutti e due.
Non appena l’uomo uscì dalla stanza, arrivò un altro fulmine. Per quell’istante, la donna credette di aver visto due gabbie, come quelle usate per gli uccelli, coperte da un telo ciascuna, appese al tetto. Poi arrivò il tuono.
Ricordava quando, da piccola, all’udire i tuoni andava subito a nascondersi sotto il letto. Rise di nuovo.
Si alzò. La testa le girò per qualche secondo. Poi si diresse verso il baule, prese la torcia e illuminò verso il tetto. Sì, sembravano proprio due gabbie per uccelli. Tenere uccelli in camera da letto? Non conosco nessuno che lo faccia. Be’… tranne gli uomini. Rise di nuovo e le guance le si colorarono leggermente di rosso. La testa le riprese a girare e decise di tornare a letto.
L’uomo tornò dopo poco.
«Visto? Bello come prima! Non ho sbattuto!», esclamò allegramente. Reggeva un vassoio con due grandi tazze fumanti. «Visto non credo sia il verbo giusto, ora che ci penso.» In effetti, non si riusciva a vedere granché del suo viso, il fascio giallo della torcia puntava dritto all’armadio, alla destra del letto.
Bevvero il tè. Dopo, la giovane donna chiese allo sconosciuto una compressa per il suo mal di testa e l’uomo, che non ricordava di averne, andò a rovistare nell’armadietto del bagno.
Quando fu sola ripensò alle due gabbie e alla battuta sugli uccelli che le era passata nella mente, minuti prima.
Ritornò dopo qualche minuto con una pillola e un bicchiere d’acqua. La donna mandò giù.
«Non so proprio come ringraziarla. Sento d’essere stata troppo invadente, però», disse la donna.
«Ma si figuri. I miei genitori, riposino in pace, mi hanno sempre insegnato ad aiutare chiunque ne avesse bisogno. Persone o animali che fossero. Quando abitavo nella casa di mio padre avevamo un sacco di animali ed ero io a prendermi cura di loro. Anche qui ne ho un paio ai quali tuttora mi dedico.»
Il soccorritore passò una buona mezz’ora a raccontare aneddoti di vita vissuta e la donna lo ascoltò con piacere. Aveva un che di attraente, quell’uomo. Forse i modi affabili ed eleganti, oramai rari, o il modo di parlare. Perciò, la donna si stupì a dover reprimere qualche sbadiglio. Era interessante ascoltare quelle parole, ma un’improvvisa stanchezza si stava impossessando di lei, minacciando di riportarla nel regno di Morfeo. E ciò la infastidì, sarebbe stato oltremodo scortese a riaddormentarsi così, mentre quell’uomo le parlava così dolcemente.
Dopodiché calò il silenzio che fu interrotto dopo un paio di minuti dalla donna, mentre il tempo continuava a peggiorare.
«Poco fa mi parlava di animali… Ne tiene qualcuno in questa stanza?», chiese. Si sentì arrossire, non sapeva bene perché.
«Prego?».
«Ho visto…».
«Ah, si riferisce a loro!» L’uomo indicò con l’indice il soffitto. «Sì, sono due pappagalli. Jack e Jake. Uno rosso e l’altro blu.»
«Pappagalli? Davvero? Non ne ho mai visto uno dal vivo».
«Veramente? Non sa che si perde, sono uno spettacolo della natura… così belli, colorati… Staranno dormendo per adesso, ma non importa. Glieli farò vedere.» Detto questo, prese una scala a pioli che era poggiata all’armadio.
«Non si preoccupi! Li lasci pure riposare…». Arrossì nuovamente.
L’uomo sembrò non averla ascoltata, e salì per i gradini.
Come mai li tiene coperti? , stava per chiedere la giovane donna ma s’impose di tacere per non apparire oltremodo invadente, altrimenti sarebbe arrossita così tanto da illuminare tutta la stanza. Sentì mancare le forze, da non riuscire nemmeno ad aprir bocca.
L’uomo posizionò le gabbie ai piedi del letto, mentre la donna, da seduta, cadde distesa sulla schiena sul morbido letto.

Quando si risvegliò, la luce lattiginosa della luna era stata sostituita da una flebile luce giallina. Sentiva la pioggia battere sulla casa. Ancora maltempo.
«Buongiorno». Di chi era quella voce?
Aprì gli occhi. L’uomo era accanto a lei, al lato del letto. Alto, capelli corti e brizzolati, occhi azzurri – di un azzurro gelido – e bocca piccola e… malvagia. Così come lo era stata la sua voce. No, non poteva essere la sua voce, quella.
«Dove eravamo rimasti?», si domandò, carezzandosi il mento. Aveva le mani protette da grossi guanti di gomma. «Ah, già. Volevi conoscere Jack e Jake.»
Sì, la voce era la sua. Elegante, pacata, ma… non trasmetteva la stessa tranquillità e sicurezza che aveva trasmesso durante la notte. Piuttosto, il contrario. Era affilata e crudele, in un certo modo.
La donna provò a parlare ma emise un suono strozzato. Provò ad alzarsi, senza risultati. Riuscì soltanto a girare la testa per constatare come polsi e caviglie fossero saldamente legate al letto con delle corde annodate strette.
«Eccoli», disse l’uomo, sollevando una gabbia. «Questo è Jack, quello rosso.» Tolse il telo. Dentro la gabbia c’era un pappagallo rosso. Ma… non era un uccello. Era una grossa pinza a pappagallo, d’un rosso acceso.
La donna sgranò gli occhi e cominciò ad agitarsi sul letto, ma c’era ben poco che potesse fare. Urlò ma il nastro adesivo sulla sua bocca mozzò il suono.
«E questo qui, invece, è Jake!», esclamò l’uomo. Un’espressione di pura follia gli si dipinse sul volto. Le pupille glacialmente azzurre parvero rimpicciolirsi. Nell’altra gabbia c’era una pinza a pappagallo blu. Alla debole luce del sole, il metallo pulito dei due attrezzi mandò piccoli bagliori. Nella totale assenza di lucidità e posseduta dalla paura, la mente della donna pensò, senza alcun motivo apparente 

Li cura davvero i suoi animali.
L’uomo avvicinò “Jake” alla donna. Cominciò con le dita dei piedi.
Il minolo del piede sinistro fu il primo. Poi pondolo e il trillice. I rumori erano piccoli, secchi, insopportabili. Come lo spezzarsi di un grottesco cracker. Le urla di dolore della donna si fecero sempre più alte e raccapriccianti ma vane, poiché non udite da nessuno.
Quella casa era l’unica abitazione nel raggio di parecchi chilometri e di lì, difficilmente passava qualcuno.




Racconto di 90peppe90 (2013)

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