È una città marcia, nel corpo e nello spirito, una città malata di mente.
Non smetto di pensarci un solo giorno, chiedendomi cosa diavolo abbia convinto me e Cindy a trasferirci, l’Illinois non era mica male. Mi rispondo, puntualmente, che l’azienda ci aveva annunciato il licenziamento e che il mercato del lavoro aveva ben poco da offrire, e Allport era stata una delle poche opzioni vagamente appetibili che ci si erano prospettate.
Poi il clima, sempre caldo e soleggiato, la vicinanza al mare… erano stati di certo incentivi extralavorativi che avevano giocato il loro ruolo; un bel colpo di fortuna, a voler ben vedere, specie considerando che Allport presenta le statistiche disoccupazionali tra le peggiori d’America. Non ci abbiamo pensato su due volte. Ecco, dunque, cosa ci ha portati qui. Ed ecco, anche, ciò che ci costringe a restare: non il bel tempo, non più, non si vive mica di sole e spiaggia… ma il lavoro. Quello non va malaccio, e pensare di mollarlo, di ricominciare altrove… e poi il mutuo, le bambine, forse non è la città più indicata in cui far crescere dei figli, insomma, ma le bambine si stanno adattando e hanno le loro amicizie e…
Mi aggiro per le strade schiarite da lampioni che gettano, svogliatamente, una luce polverosa e giallastra come un morbo mefitico. Devo sgombrare la mente e sperare di allentare il mal di testa. Cindy è rimasta a casa con le bambine, la piccola ha qualche problema a prendere sonno, la grande ha appena finito di fare i compiti e io avevo una gran voglia di uscire per prendere una boccata d’aria e schiarire le idee, poche e confuse, sulla nostra situazione economica e familiare e sulla città che abbiamo scelto per vivere.
Ma è una città marcia, nel corpo e nello spirito, una città malata di mente. Una città che non può che intorbidire le poche e confuse idee che ho, una città che non può che offrirmi aria inquinata, di smog, fumi di scarico, nicotina e asfalto esalante, rantolanti respiri di una popolazione massificata al cospetto di orridi mostri in cemento nero.
Dal nostro quartiere, un rione popolare ma comunque dignitoso, al centro sono neanche venti minuti. Più mi avvicino e più mi rendo conto che c’è troppa gente in giro, per essere un mercoledì sera, finché guardo in faccia lo sciame che ronza lungo le strade e ricordo: stanotte è Halloween. In effetti, se non fosse stato che la piccola ha qualche linea di febbre, io e Cindy le avremmo portate a fare dolcetto o scherzetto.
Vedo mostri di ogni tipo: ci sono vampiri e ci sono streghe, ci sono spettri e ci sono zombi, ci sono licantropi e ci sono mummie, c’è qualche Jack lo Squartatore e qualche Jack O’Lantern, qualche demonietto e qualche minotauro… nessun vestito e nessuna faccia risulta simpatica, divertente, tutte soltanto mostruose e grottesche.
Caccio le mani in tasca, sudate per i ventotto gradi e l’aria sciroccosa dell’ultimo di ottobre, e riabbasso lo sguardo; non c’è speranza, stando così le cose, che possa liberarmi dell’emicrania. Mi chiedo quanti mostri reali si annidino tra questi posticci, festanti, in un baccanale di zanne in plastica e dolciumi assortiti. Mi chiedo quanti litri di sangue vero scorreranno tra i litri di sangue finto. Mi chiedo quanti saranno i pugnali reali che si celano e mimetizzano tra quelli giocattolo; quanti saranno, alla fine della notte, i morti veri e propri in mezzo a quelli, truccati e travestiti, che schiamazzano festeggianti.
Allport è esattamente come i media degli altri Stati la descrivono: non c’è alcunché di pittoresco, di caricaturale, di esagerato o razzista in quel che dicono o scrivono le persone che vivono altrove e che, al massimo, vengono qui per trascorrere una settimana di vacanze balneari. Allport è culturalmente e civicamente arretrata, lenta e farraginosa, negligente e povera d’industrie; i servizi sono carenti, l’amministrazione chiusa e imperscrutabile, la burocrazia soffocante e spietata; gli spazi verdi pochi e lasciati a sé stessi, luoghi di spaccio e prostituzione più che di svago, le strade sporche, la popolazione vandala e ignorante. Allport è la capitale dell’omonimo Stato, lo Stato del malaffare, dei giochi tra mafia e politica, la roccaforte della criminalità organizzata, centro nevralgico dei traffici illegali statunitensi, nazionali e internazionali, dove la giustizia chiude un occhio verso chi delinque e chi delinque ricambia il favore in denaro sonante e mancati atti terroristici, la città dove una mano lava l’altra e tutt’e due lavano il viso.
Ci sarà almeno un pusher a ogni angolo di strada, almeno una baby gang che farà scattare un serramanico, almeno un topo d’appartamento o uno scassinatore che sfrutterà la folla, il corteo di mostri, per forzare la saracinesca di un negozio; chissà quanti uomini d’onore, quanti figli di boss, chissà quanti pregiudicati in libertà condizionata o assassini e stupratori, liberi come l’aria, in attesa di un processo che non inizierà mai; chissà quanta violenza e quanta cattiveria e quanta ottusa criminalità, comprese e giustificate, lasciate libere di dilagare.
È una città marcia, nel corpo e nello spirito, una città malata di mente.
E, diamine, ora che ci penso…
L’edizione speciale del TG, stamattina, parlava della cosiddetta «Evasione Diabolica»! A quanto pare, un detenuto dell’ospedale psichiatrico criminale, lo Shisland, è riuscito in qualche modo a fuggire dalla sua cella di isolamento. E verrebbe da chiedersi quale sarebbe questo “qualche modo”, dato che, tra l’altro, il manicomio è piazzato su un’isola al largo di Allport: la versione allportiana di Fuga da Alcatraz, praticamente, in salsa psicotica. Viene da chiedersi se pure qui non ci sia uno scambio di favori tra i piani alti e quel maniaco…
Anche se, ovviamente, i media hanno preferito convolare a nozze con la notizia e costruire una storia assolutamente assurda e sensazionalistica: l’evaso è un omicida affetto da schizofrenia e disturbi di personalità che sostiene di essere una sorta di mago, di stregone, il figlio o l’allievo nientemeno che dello stesso Satana, e quindi non può che esserci del preternaturale e del maligno nel fatto che un simile soggetto sia scappato dall’istituto detentivo.
Sia come sia, il sindaco Duncan ha più e più volte ribadito, su tutti i canali comunicativi possibili e immaginabili, che i festeggiamenti di Halloween non sarebbero stati annullati, che la situazione sarebbe stata risolta al più presto, e che un singolo «individuo emotivamente instabile» non avrebbe di certo limitato la nostra libertà né, tantomeno, fermato la nostra democrazia.
E io ricordo tutto questo soltanto adesso, immerso tra i mostri, brulicanti e ululanti tutt’intorno a me, perché l’intera faccenda era stata sepolta dai mille e più interrogativi sulla nostra scelta di vita, mia e di Cindy, sul nostro lavoro e sulle nostre bambine e sul senso che possa avere rimanere qui.
La testa pulsa, dolente, a causa dell’enorme messe d’immagini e preoccupazioni che si accavallano, avvicendandosi l’una dopo l’altra, poi aggrovigliandosi tutte assieme. Pensieri su pensieri, inquietudini su inquietudini, paranoie su paranoie: una babele d’angoscia. Ogni respiro porta con sé un sentore di ansia e mai, come oggi, m’è successo che una passeggiata dopo cena peggiorasse la situazione.
È una città marcia, nel corpo e nello spirito, una città malata di mente. È una città dove torme di quindicenni pestano a morte una vecchietta tutta sola semplicemente per filmare il divertimento e postarlo sui social; una città dove questi stessi quindicenni vengono lasciati in libertà, rimessi alla custodia di genitori capaci soltanto di accoppiarsi e campare con sussidi di disoccupazione, perché troppo giovani per capire che picchiare selvaggiamente una vecchietta sia sbagliato. È una città dove, saltuariamente, qualche capomafia viene consegnato alla giustizia in seguito a operazioni di polizia simili a sceneggiate teatrali; una città dove questi stessi capimafia, continuando tranquillamente a gestire gli affari dal carcere, vengono rilasciati nel giro di pochi anni per buona condotta o per via di malattie che renderebbero inumana la loro detenzione. È una città dove un assassino fuori di testa se ne va liberamente in giro e i media lo dipingono come un affascinante antieroe dotato di capacità paranormali e connotati demoniaci; una città dove gli esperti definiscono questo stesso assassino fuori di testa come un soggetto precario, insicuro, una persona un tempo perfettamente integrata nelle dinamiche sociali e interpersonali, adesso vittima oppressa da una società che non l’ha mai compresa e che, anzi, la respinge come un reietto quando, invece, avrebbe bisogno nient’altro che di ascolto e attenzione e comprensione…
Rialzo lo sguardo, sudo, e so che non è soltanto per il caldo che continuerà ad asfissiare la città almeno fino a dicembre, degnandosi poi di cominciare a tirarsi indietro a partire da metà gennaio, forse pure da febbraio.
Mi guardo intorno, e penso a Cindy e alle bambine, e ai problemi che mi affliggono, scalciando come stalloni imbizzarriti nell’affollata stalla della mia mente, e che mi hanno portato a dimenticare che giorno sia oggi, che cosa sia successo stamattina, che Allport è una città marcia, nel corpo e nello spirito, una città malata di mente.
Mi guardo intorno, nello sconclusionato e vasto carnevale di volti paurosi e distorti, cercando con tutto me stesso di rievocare alla mente non tanto il nome quanto, piuttosto, il volto del mostro tra i mostri, del mostro vero, uscito dal manicomio o dall’inferno, armato di un pugnale vero tra mille pugnali falsi, capace di spargere sangue vero che risulterebbe indistinguibile tra le chiazze di sangue finto…
Sudo, e cerco di ricordare, sudo e cerco di darmi una risposta valida: che ci faccio qui? Ne vale la pena? Cindy e le bambine… vogliamo davvero vivere qui? I figli adottivi di una simile città… non possono che crescere marci, nel corpo e nello spirito, malati di mente come lei, madre perversa e degenere.
Poi le sirene innalzano il loro canto alla cupa notte di Allport, due canti diversi, stridenti e lancinanti. Si avvicinano, tormentano ed esasperano le mie emicranie, il suono sembra provenire allo stesso tempo da tutte le direzioni e da nessuna in particolare. Mi dico che ho ragione: deve essere successo qualcosa – un assassinio, un furto, uno scippo, una rapina, uno stupro, una zuffa – e sono stato fortunato che non sia successo a me, siamo stati fortunati che non sia ancora successo niente a Cindy e alle bambine, ma per quanto dobbiamo ancora rischiare, ammesso che ne valga la pena?
Comincio a fantasticare su una possibile nuova vita altrove, con il mal di testa che si spinge dalla fronte alla nuca e si estende al volto intero, quando le sirene non si limitano a farsi sentire ma iniziano pure a farsi vedere: lampi rossi e blu che invadono le strade e illuminano la folla mostruosa accalcata e vociante…
È il suono e il colore delle sirene a farmi ricordare.
Anzi, più precisamente, a fargli ricordare: a lui, l’altro, uno degli altri.
O, forse, a tutti quanti, tutti insieme, o forse al solo che esista.
I freni stridono, la portiera si apre, le pistole vengono armate e la donna urla con fare deciso e persuasivo: «Dwight Fry, metti le mani in alto, sei in arresto per evasione e duplice omicidio!»
Mentre ricordo, mi volto, e sento che sto sogghignando: i muscoli della faccia sono irrigiditi in un sorriso ebete, apatico, tagliente come il coltellaccio che stringo, serrato tra i denti, da non so quante ore, causando il dolore alla testa.
Il manico non sa di plastica, sa di sangue, di sangue vero: so riconoscerlo, io, il sangue vero, so riconoscerlo nonostante non lo assapori da quattordici anni, quattordici anni di pareti bianche ed elettroshock, è un sapore ben diverso da quello del sangue finto… cazzo, sia fottuto il cielo, neanche so che cazzo di sapore abbia il sangue finto!
Il sogghigno permane, si distende fino al limite, perché la sbirra mi ha intimato di mettere le mani in alto e leggo l’orrore, il disgusto e l’incomprensione negli occhi suoi e dei suoi colleghi che mi tengono sotto tiro: non posso mettere le mani in alto perché sono ancora rinchiuso nella fottuta camicia di forza che mi imprigiona da quattordici anni di sbobba, barbiturici e solitudine. Sono anni che non dimenticherò mai, mai finché vivrò, mai finché rimarrò in superficie, prevalendo sugli altri che vivono qui dentro, anni che vedo riflessi nelle facce dei due paramedici che scendono dall’ambulanza ferma dietro le tre pattuglie di polizia. Anni che rivivo, tutti in un colpo solo, mentre la dottoressa McGrath, la psicologa che si occupa di me, si avvicina alla poliziotta e le dice di abbassare le armi, che non sono una bestia ma un essere umano, che probabilmente sono la persona più spaventata tra tutti i presenti.
So che la puttana vomita tutte queste stronzate solo a favore delle telecamere dei giornalisti che sono accorsi subito e dei telefonini che la folla di Halloween, che fa da cornice al nostro spettacolo, riprendono in diretta per Internet. So che la puttana, quando mi ributteranno dentro, riprenderà con le sue scosse e le sue cinghie e le sue fottute pillole amare peggio della merda. So che la puttana è un mostro, sotto il bell’aspetto e le belle parole, ma so anche che il vero mostro sono io e io soltanto.
Io, Dwight Fry, uno dei tanti che rispondono a questo nome, o forse l’unico che s’illude di essere una parte del tutto, una delle parti che sono emerse dopo la frattura, quando l’aver cambiato vita e città non è servito a nulla, perché è arrivato un nuovo licenziamento, perché c’era un mutuo da pagare e la retta scolastica, i soldi da raccogliere per il college, i lavori di manutenzione domestica, perché la banca pressava e Cindy piangeva, le piccole mangiavano solo perché io e lei digiunavamo facendo loro credere che fosse nient’altro che un gioco, e l’ansia, la paura, la consapevolezza di non essere abbastanza, di non essere bravo a sufficienza per vivere, per assicurare a chi ami un tetto sulla testa e un letto in cui dormire, di non essere il padre che ogni figlio meriterebbe; i pensieri e le idee che diventano voci, le voci che sono consigli e suggerimenti, che sono speranze, ma la speranza s’infrange facilmente e la realtà è che sarebbe un tormento insostenibile trasferirsi di nuovo, provare a ricominciare ancora una volta, tutto daccapo; e la banca reclama, lo Stato reclama, lo strozzino reclama… e minaccia, più o meno velatamente, guardando Cindy e le bambine, il fatto che tu abbia da perdere molto più che soldi e molto più che la vita…
E le voci diventano ordini e gli ordini lacerano il tessuto stesso di cui sei fatto e Dwight Fry diventa qualcosa d’altro, diventa tanti, o forse diventa semplicemente ciò che è, ciò che è sempre stato, perché il tessuto lacerato potrebbe essere il velo di apparenza dietro cui si cela la verità, la realtà, ciò che è.
Dwight Fry ammazza lo strozzino, ricorda ancora il calore viscido del sangue sulle mani, ricorda ancora il rantolo strozzato e lo sguardo vetroso del rappresentante della banca che suona alla porta per comunicare il pignoramento, e quando Cindy urla per l’orrore, Dwight Fry capisce di aver fallito anche in questo, capisce di aver solamente peggiorato le cose, di aver esacerbato le sofferenze, e Dwight Fry sa che c’è un solo modo.
Quando la polizia ha fatto irruzione, Cindy non era niente di più che una bambola di carne su un letto di sangue, con il collo svitato… e le bambine le avrebbero somigliato se non fossero state tanto brave a giocare a nascondino, come ai bei vecchi tempi, come nella casa in Illinois.
Al processo, le voci erano diventate Satana, lui il figlio prediletto del Diavolo, e perciò a Dwight Fry era stata riconosciuta l’infermità mentale, sottolineata, poi, dall’ultima dichiarazione: «Tra quattordici anni tornerò a scatenare un po’ d’inferno su Allport.»
Nessuno gli aveva creduto, ovviamente, e, per quattordici anni, medici e infermieri avevano infierito sul suo corpo e sulla sua mente, confinandolo e lobotomizzandolo, riducendolo a una catalettica, vaga forma umana. Ma lui sapeva. Aveva creduto al fatto che sarebbe evaso, dopo quattordici anni, perché glielo avevano detto le voci. Lui sapeva, perché le voci gli dicevano cose che lui non poteva sapere, cose che succedevano altrove, al di là dei suoi sensi, oltre le pareti bianche, la porta blindata e i medicinali, oltre il mare.
Lui sapeva che tutte quelle “cure” non se le stava beccando lui, ma l’altro, quello che era stato un rispettabile membro della società civile finché la società civile non gli era franata addosso distruggendo tutto ciò che di civile poteva esserci in lui; l’altro, o uno degli altri, aveva assorbito tutte le iniezioni, le scariche elettromagnetiche, le compresse e gli intrugli; mentre lui, che poi sono io, una parte di me stesso, o forse l’unico me stesso che esista, io sapevo, io so, io sapevo che le bambine erano cresciute, sapevo dove stavano, sapevo l’indirizzo di residenza della loro famiglia adottiva e sapevo che dovevo finire ciò che avevo iniziato, che la piccola non s’era mai più del tutto ripresa dallo shock e che la grande fingeva normalità sotto una coltre di psicofarmaci, sapevo l’orrore e la paura e la sofferenza, e sapevo quale fosse l’unica via d’uscita, l’unica soluzione, l’unica vera cura.
Vedo la dottoressa McGrath che s’avvicina, vedo le luci accecanti delle sirene, la sbirra incerta, che mi odia, e gli occhi neri delle pistole e delle camere puntate su di me, su di noi, sull’intera scena; so che non è altro che una rappresentazione, una pantomima del grottesco, un pezzo di teatro dell’orrido. So che è tutta finzione e apparenza, che la verità è dentro e oltre, so che le voci sono reali e le buone intenzioni artefatte. So che tutto il mondo è male, che la città è marcia, nel corpo e nello spirito, è una città malata di mente, così come lo è il fottuto mondo di merda e ogni singolo figlio di puttana che lo abita, tutti noi, nessuno escluso, opachi atomi di male.
So tutto questo e so molto altro e questo mi permette di non fingere.
La dottoressa McGrath, la puttana di merda, è davanti a me e mi parla con parole sensate e calme e pacate e affettuose, quasi materne, ma so che nasconde le siringhe e i muscoli dei paramedici, so che nasconde le pasticche e gli elettrodi; so la verità dietro la finzione. So chi sono i mostri. Siamo tutti. Tutti noi. Solo che io non sono tanto ipocrita da tenerlo nascosto. Me l’hanno detto le voci; e le voci sono ordini e gli ordini sono personalità e le personalità sono identità e le identità sono io, Dwight Fry, e non c’è niente di più vero che me stesso. E so che la verità è spesso irricevibile, genera occhiate strane ed espressioni sospettose, risate irridenti e distoglimenti di sguardo, paura e sgomento, da esorcizzare con lo stigma della follia.
Ma io so, e sorrido, so e sorrido oltre ogni limite umano.
So che mi basta uno scatto del collo per usare il coltello e squarciare la gola della puttana, aprendole una nuova fica, proprio sotto al mento, in orizzontale, che mi spruzza in faccia il rosso prodotto dell’orgasmo che la spedisce da qualche altra parte, altrove, in un posto sicuramente migliore di questo.
L’altra puttana urla, intorno tutti urlano o trattengono il fiato, mostri che si mascherano da mostri per dissimulare la loro reale mostruosità. Le pistole urlano. Ma dimenticano ciò che io so: sono un mago, uno stregone, figlio e allievo nientemeno che dello stesso Satana. Mi basta una torsione del busto per svanire, lasciando davanti ai loro occhi nient’altro che la camicia di forza afflosciata, fumante per i fori d’ingresso e uscita dei proiettili.
Lo so, come sapevo in che modo evadere, aggirando l’isolamento, le guardie, le cinghie.
Ed ecco che evado ancora, da me stesso, dal mondo: svanisco. Svanisco, come sono svanito per quattordici anni, obliterato dalla memoria di tutti, da una società troppo impaurita dalla verità, troppo vigliacca per guardarmi in faccia, occhi negli occhi. Svanisco, da me stesso, dagli altri, da tutti, da tutto.
Svanisco, nella tempesta di fuoco, nella notte di Halloween.
È così che si conclude lo spettacolo, la rappresentazione, la pantomima.
È così che da uno, a molti, divengo niente.
È così che si conclude La ballata di Dwight Fry.
Non smetto di pensarci un solo giorno, chiedendomi cosa diavolo abbia convinto me e Cindy a trasferirci, l’Illinois non era mica male. Mi rispondo, puntualmente, che l’azienda ci aveva annunciato il licenziamento e che il mercato del lavoro aveva ben poco da offrire, e Allport era stata una delle poche opzioni vagamente appetibili che ci si erano prospettate.
Poi il clima, sempre caldo e soleggiato, la vicinanza al mare… erano stati di certo incentivi extralavorativi che avevano giocato il loro ruolo; un bel colpo di fortuna, a voler ben vedere, specie considerando che Allport presenta le statistiche disoccupazionali tra le peggiori d’America. Non ci abbiamo pensato su due volte. Ecco, dunque, cosa ci ha portati qui. Ed ecco, anche, ciò che ci costringe a restare: non il bel tempo, non più, non si vive mica di sole e spiaggia… ma il lavoro. Quello non va malaccio, e pensare di mollarlo, di ricominciare altrove… e poi il mutuo, le bambine, forse non è la città più indicata in cui far crescere dei figli, insomma, ma le bambine si stanno adattando e hanno le loro amicizie e…
Mi aggiro per le strade schiarite da lampioni che gettano, svogliatamente, una luce polverosa e giallastra come un morbo mefitico. Devo sgombrare la mente e sperare di allentare il mal di testa. Cindy è rimasta a casa con le bambine, la piccola ha qualche problema a prendere sonno, la grande ha appena finito di fare i compiti e io avevo una gran voglia di uscire per prendere una boccata d’aria e schiarire le idee, poche e confuse, sulla nostra situazione economica e familiare e sulla città che abbiamo scelto per vivere.
Ma è una città marcia, nel corpo e nello spirito, una città malata di mente. Una città che non può che intorbidire le poche e confuse idee che ho, una città che non può che offrirmi aria inquinata, di smog, fumi di scarico, nicotina e asfalto esalante, rantolanti respiri di una popolazione massificata al cospetto di orridi mostri in cemento nero.
Dal nostro quartiere, un rione popolare ma comunque dignitoso, al centro sono neanche venti minuti. Più mi avvicino e più mi rendo conto che c’è troppa gente in giro, per essere un mercoledì sera, finché guardo in faccia lo sciame che ronza lungo le strade e ricordo: stanotte è Halloween. In effetti, se non fosse stato che la piccola ha qualche linea di febbre, io e Cindy le avremmo portate a fare dolcetto o scherzetto.
Vedo mostri di ogni tipo: ci sono vampiri e ci sono streghe, ci sono spettri e ci sono zombi, ci sono licantropi e ci sono mummie, c’è qualche Jack lo Squartatore e qualche Jack O’Lantern, qualche demonietto e qualche minotauro… nessun vestito e nessuna faccia risulta simpatica, divertente, tutte soltanto mostruose e grottesche.
Caccio le mani in tasca, sudate per i ventotto gradi e l’aria sciroccosa dell’ultimo di ottobre, e riabbasso lo sguardo; non c’è speranza, stando così le cose, che possa liberarmi dell’emicrania. Mi chiedo quanti mostri reali si annidino tra questi posticci, festanti, in un baccanale di zanne in plastica e dolciumi assortiti. Mi chiedo quanti litri di sangue vero scorreranno tra i litri di sangue finto. Mi chiedo quanti saranno i pugnali reali che si celano e mimetizzano tra quelli giocattolo; quanti saranno, alla fine della notte, i morti veri e propri in mezzo a quelli, truccati e travestiti, che schiamazzano festeggianti.
Allport è esattamente come i media degli altri Stati la descrivono: non c’è alcunché di pittoresco, di caricaturale, di esagerato o razzista in quel che dicono o scrivono le persone che vivono altrove e che, al massimo, vengono qui per trascorrere una settimana di vacanze balneari. Allport è culturalmente e civicamente arretrata, lenta e farraginosa, negligente e povera d’industrie; i servizi sono carenti, l’amministrazione chiusa e imperscrutabile, la burocrazia soffocante e spietata; gli spazi verdi pochi e lasciati a sé stessi, luoghi di spaccio e prostituzione più che di svago, le strade sporche, la popolazione vandala e ignorante. Allport è la capitale dell’omonimo Stato, lo Stato del malaffare, dei giochi tra mafia e politica, la roccaforte della criminalità organizzata, centro nevralgico dei traffici illegali statunitensi, nazionali e internazionali, dove la giustizia chiude un occhio verso chi delinque e chi delinque ricambia il favore in denaro sonante e mancati atti terroristici, la città dove una mano lava l’altra e tutt’e due lavano il viso.
Ci sarà almeno un pusher a ogni angolo di strada, almeno una baby gang che farà scattare un serramanico, almeno un topo d’appartamento o uno scassinatore che sfrutterà la folla, il corteo di mostri, per forzare la saracinesca di un negozio; chissà quanti uomini d’onore, quanti figli di boss, chissà quanti pregiudicati in libertà condizionata o assassini e stupratori, liberi come l’aria, in attesa di un processo che non inizierà mai; chissà quanta violenza e quanta cattiveria e quanta ottusa criminalità, comprese e giustificate, lasciate libere di dilagare.
È una città marcia, nel corpo e nello spirito, una città malata di mente.
E, diamine, ora che ci penso…
L’edizione speciale del TG, stamattina, parlava della cosiddetta «Evasione Diabolica»! A quanto pare, un detenuto dell’ospedale psichiatrico criminale, lo Shisland, è riuscito in qualche modo a fuggire dalla sua cella di isolamento. E verrebbe da chiedersi quale sarebbe questo “qualche modo”, dato che, tra l’altro, il manicomio è piazzato su un’isola al largo di Allport: la versione allportiana di Fuga da Alcatraz, praticamente, in salsa psicotica. Viene da chiedersi se pure qui non ci sia uno scambio di favori tra i piani alti e quel maniaco…
Anche se, ovviamente, i media hanno preferito convolare a nozze con la notizia e costruire una storia assolutamente assurda e sensazionalistica: l’evaso è un omicida affetto da schizofrenia e disturbi di personalità che sostiene di essere una sorta di mago, di stregone, il figlio o l’allievo nientemeno che dello stesso Satana, e quindi non può che esserci del preternaturale e del maligno nel fatto che un simile soggetto sia scappato dall’istituto detentivo.
Sia come sia, il sindaco Duncan ha più e più volte ribadito, su tutti i canali comunicativi possibili e immaginabili, che i festeggiamenti di Halloween non sarebbero stati annullati, che la situazione sarebbe stata risolta al più presto, e che un singolo «individuo emotivamente instabile» non avrebbe di certo limitato la nostra libertà né, tantomeno, fermato la nostra democrazia.
E io ricordo tutto questo soltanto adesso, immerso tra i mostri, brulicanti e ululanti tutt’intorno a me, perché l’intera faccenda era stata sepolta dai mille e più interrogativi sulla nostra scelta di vita, mia e di Cindy, sul nostro lavoro e sulle nostre bambine e sul senso che possa avere rimanere qui.
La testa pulsa, dolente, a causa dell’enorme messe d’immagini e preoccupazioni che si accavallano, avvicendandosi l’una dopo l’altra, poi aggrovigliandosi tutte assieme. Pensieri su pensieri, inquietudini su inquietudini, paranoie su paranoie: una babele d’angoscia. Ogni respiro porta con sé un sentore di ansia e mai, come oggi, m’è successo che una passeggiata dopo cena peggiorasse la situazione.
È una città marcia, nel corpo e nello spirito, una città malata di mente. È una città dove torme di quindicenni pestano a morte una vecchietta tutta sola semplicemente per filmare il divertimento e postarlo sui social; una città dove questi stessi quindicenni vengono lasciati in libertà, rimessi alla custodia di genitori capaci soltanto di accoppiarsi e campare con sussidi di disoccupazione, perché troppo giovani per capire che picchiare selvaggiamente una vecchietta sia sbagliato. È una città dove, saltuariamente, qualche capomafia viene consegnato alla giustizia in seguito a operazioni di polizia simili a sceneggiate teatrali; una città dove questi stessi capimafia, continuando tranquillamente a gestire gli affari dal carcere, vengono rilasciati nel giro di pochi anni per buona condotta o per via di malattie che renderebbero inumana la loro detenzione. È una città dove un assassino fuori di testa se ne va liberamente in giro e i media lo dipingono come un affascinante antieroe dotato di capacità paranormali e connotati demoniaci; una città dove gli esperti definiscono questo stesso assassino fuori di testa come un soggetto precario, insicuro, una persona un tempo perfettamente integrata nelle dinamiche sociali e interpersonali, adesso vittima oppressa da una società che non l’ha mai compresa e che, anzi, la respinge come un reietto quando, invece, avrebbe bisogno nient’altro che di ascolto e attenzione e comprensione…
Rialzo lo sguardo, sudo, e so che non è soltanto per il caldo che continuerà ad asfissiare la città almeno fino a dicembre, degnandosi poi di cominciare a tirarsi indietro a partire da metà gennaio, forse pure da febbraio.
Mi guardo intorno, e penso a Cindy e alle bambine, e ai problemi che mi affliggono, scalciando come stalloni imbizzarriti nell’affollata stalla della mia mente, e che mi hanno portato a dimenticare che giorno sia oggi, che cosa sia successo stamattina, che Allport è una città marcia, nel corpo e nello spirito, una città malata di mente.
Mi guardo intorno, nello sconclusionato e vasto carnevale di volti paurosi e distorti, cercando con tutto me stesso di rievocare alla mente non tanto il nome quanto, piuttosto, il volto del mostro tra i mostri, del mostro vero, uscito dal manicomio o dall’inferno, armato di un pugnale vero tra mille pugnali falsi, capace di spargere sangue vero che risulterebbe indistinguibile tra le chiazze di sangue finto…
Sudo, e cerco di ricordare, sudo e cerco di darmi una risposta valida: che ci faccio qui? Ne vale la pena? Cindy e le bambine… vogliamo davvero vivere qui? I figli adottivi di una simile città… non possono che crescere marci, nel corpo e nello spirito, malati di mente come lei, madre perversa e degenere.
Poi le sirene innalzano il loro canto alla cupa notte di Allport, due canti diversi, stridenti e lancinanti. Si avvicinano, tormentano ed esasperano le mie emicranie, il suono sembra provenire allo stesso tempo da tutte le direzioni e da nessuna in particolare. Mi dico che ho ragione: deve essere successo qualcosa – un assassinio, un furto, uno scippo, una rapina, uno stupro, una zuffa – e sono stato fortunato che non sia successo a me, siamo stati fortunati che non sia ancora successo niente a Cindy e alle bambine, ma per quanto dobbiamo ancora rischiare, ammesso che ne valga la pena?
Comincio a fantasticare su una possibile nuova vita altrove, con il mal di testa che si spinge dalla fronte alla nuca e si estende al volto intero, quando le sirene non si limitano a farsi sentire ma iniziano pure a farsi vedere: lampi rossi e blu che invadono le strade e illuminano la folla mostruosa accalcata e vociante…
È il suono e il colore delle sirene a farmi ricordare.
Anzi, più precisamente, a fargli ricordare: a lui, l’altro, uno degli altri.
O, forse, a tutti quanti, tutti insieme, o forse al solo che esista.
I freni stridono, la portiera si apre, le pistole vengono armate e la donna urla con fare deciso e persuasivo: «Dwight Fry, metti le mani in alto, sei in arresto per evasione e duplice omicidio!»
Mentre ricordo, mi volto, e sento che sto sogghignando: i muscoli della faccia sono irrigiditi in un sorriso ebete, apatico, tagliente come il coltellaccio che stringo, serrato tra i denti, da non so quante ore, causando il dolore alla testa.
Il manico non sa di plastica, sa di sangue, di sangue vero: so riconoscerlo, io, il sangue vero, so riconoscerlo nonostante non lo assapori da quattordici anni, quattordici anni di pareti bianche ed elettroshock, è un sapore ben diverso da quello del sangue finto… cazzo, sia fottuto il cielo, neanche so che cazzo di sapore abbia il sangue finto!
Il sogghigno permane, si distende fino al limite, perché la sbirra mi ha intimato di mettere le mani in alto e leggo l’orrore, il disgusto e l’incomprensione negli occhi suoi e dei suoi colleghi che mi tengono sotto tiro: non posso mettere le mani in alto perché sono ancora rinchiuso nella fottuta camicia di forza che mi imprigiona da quattordici anni di sbobba, barbiturici e solitudine. Sono anni che non dimenticherò mai, mai finché vivrò, mai finché rimarrò in superficie, prevalendo sugli altri che vivono qui dentro, anni che vedo riflessi nelle facce dei due paramedici che scendono dall’ambulanza ferma dietro le tre pattuglie di polizia. Anni che rivivo, tutti in un colpo solo, mentre la dottoressa McGrath, la psicologa che si occupa di me, si avvicina alla poliziotta e le dice di abbassare le armi, che non sono una bestia ma un essere umano, che probabilmente sono la persona più spaventata tra tutti i presenti.
So che la puttana vomita tutte queste stronzate solo a favore delle telecamere dei giornalisti che sono accorsi subito e dei telefonini che la folla di Halloween, che fa da cornice al nostro spettacolo, riprendono in diretta per Internet. So che la puttana, quando mi ributteranno dentro, riprenderà con le sue scosse e le sue cinghie e le sue fottute pillole amare peggio della merda. So che la puttana è un mostro, sotto il bell’aspetto e le belle parole, ma so anche che il vero mostro sono io e io soltanto.
Io, Dwight Fry, uno dei tanti che rispondono a questo nome, o forse l’unico che s’illude di essere una parte del tutto, una delle parti che sono emerse dopo la frattura, quando l’aver cambiato vita e città non è servito a nulla, perché è arrivato un nuovo licenziamento, perché c’era un mutuo da pagare e la retta scolastica, i soldi da raccogliere per il college, i lavori di manutenzione domestica, perché la banca pressava e Cindy piangeva, le piccole mangiavano solo perché io e lei digiunavamo facendo loro credere che fosse nient’altro che un gioco, e l’ansia, la paura, la consapevolezza di non essere abbastanza, di non essere bravo a sufficienza per vivere, per assicurare a chi ami un tetto sulla testa e un letto in cui dormire, di non essere il padre che ogni figlio meriterebbe; i pensieri e le idee che diventano voci, le voci che sono consigli e suggerimenti, che sono speranze, ma la speranza s’infrange facilmente e la realtà è che sarebbe un tormento insostenibile trasferirsi di nuovo, provare a ricominciare ancora una volta, tutto daccapo; e la banca reclama, lo Stato reclama, lo strozzino reclama… e minaccia, più o meno velatamente, guardando Cindy e le bambine, il fatto che tu abbia da perdere molto più che soldi e molto più che la vita…
E le voci diventano ordini e gli ordini lacerano il tessuto stesso di cui sei fatto e Dwight Fry diventa qualcosa d’altro, diventa tanti, o forse diventa semplicemente ciò che è, ciò che è sempre stato, perché il tessuto lacerato potrebbe essere il velo di apparenza dietro cui si cela la verità, la realtà, ciò che è.
Dwight Fry ammazza lo strozzino, ricorda ancora il calore viscido del sangue sulle mani, ricorda ancora il rantolo strozzato e lo sguardo vetroso del rappresentante della banca che suona alla porta per comunicare il pignoramento, e quando Cindy urla per l’orrore, Dwight Fry capisce di aver fallito anche in questo, capisce di aver solamente peggiorato le cose, di aver esacerbato le sofferenze, e Dwight Fry sa che c’è un solo modo.
Quando la polizia ha fatto irruzione, Cindy non era niente di più che una bambola di carne su un letto di sangue, con il collo svitato… e le bambine le avrebbero somigliato se non fossero state tanto brave a giocare a nascondino, come ai bei vecchi tempi, come nella casa in Illinois.
Al processo, le voci erano diventate Satana, lui il figlio prediletto del Diavolo, e perciò a Dwight Fry era stata riconosciuta l’infermità mentale, sottolineata, poi, dall’ultima dichiarazione: «Tra quattordici anni tornerò a scatenare un po’ d’inferno su Allport.»
Nessuno gli aveva creduto, ovviamente, e, per quattordici anni, medici e infermieri avevano infierito sul suo corpo e sulla sua mente, confinandolo e lobotomizzandolo, riducendolo a una catalettica, vaga forma umana. Ma lui sapeva. Aveva creduto al fatto che sarebbe evaso, dopo quattordici anni, perché glielo avevano detto le voci. Lui sapeva, perché le voci gli dicevano cose che lui non poteva sapere, cose che succedevano altrove, al di là dei suoi sensi, oltre le pareti bianche, la porta blindata e i medicinali, oltre il mare.
Lui sapeva che tutte quelle “cure” non se le stava beccando lui, ma l’altro, quello che era stato un rispettabile membro della società civile finché la società civile non gli era franata addosso distruggendo tutto ciò che di civile poteva esserci in lui; l’altro, o uno degli altri, aveva assorbito tutte le iniezioni, le scariche elettromagnetiche, le compresse e gli intrugli; mentre lui, che poi sono io, una parte di me stesso, o forse l’unico me stesso che esista, io sapevo, io so, io sapevo che le bambine erano cresciute, sapevo dove stavano, sapevo l’indirizzo di residenza della loro famiglia adottiva e sapevo che dovevo finire ciò che avevo iniziato, che la piccola non s’era mai più del tutto ripresa dallo shock e che la grande fingeva normalità sotto una coltre di psicofarmaci, sapevo l’orrore e la paura e la sofferenza, e sapevo quale fosse l’unica via d’uscita, l’unica soluzione, l’unica vera cura.
Vedo la dottoressa McGrath che s’avvicina, vedo le luci accecanti delle sirene, la sbirra incerta, che mi odia, e gli occhi neri delle pistole e delle camere puntate su di me, su di noi, sull’intera scena; so che non è altro che una rappresentazione, una pantomima del grottesco, un pezzo di teatro dell’orrido. So che è tutta finzione e apparenza, che la verità è dentro e oltre, so che le voci sono reali e le buone intenzioni artefatte. So che tutto il mondo è male, che la città è marcia, nel corpo e nello spirito, è una città malata di mente, così come lo è il fottuto mondo di merda e ogni singolo figlio di puttana che lo abita, tutti noi, nessuno escluso, opachi atomi di male.
So tutto questo e so molto altro e questo mi permette di non fingere.
La dottoressa McGrath, la puttana di merda, è davanti a me e mi parla con parole sensate e calme e pacate e affettuose, quasi materne, ma so che nasconde le siringhe e i muscoli dei paramedici, so che nasconde le pasticche e gli elettrodi; so la verità dietro la finzione. So chi sono i mostri. Siamo tutti. Tutti noi. Solo che io non sono tanto ipocrita da tenerlo nascosto. Me l’hanno detto le voci; e le voci sono ordini e gli ordini sono personalità e le personalità sono identità e le identità sono io, Dwight Fry, e non c’è niente di più vero che me stesso. E so che la verità è spesso irricevibile, genera occhiate strane ed espressioni sospettose, risate irridenti e distoglimenti di sguardo, paura e sgomento, da esorcizzare con lo stigma della follia.
Ma io so, e sorrido, so e sorrido oltre ogni limite umano.
So che mi basta uno scatto del collo per usare il coltello e squarciare la gola della puttana, aprendole una nuova fica, proprio sotto al mento, in orizzontale, che mi spruzza in faccia il rosso prodotto dell’orgasmo che la spedisce da qualche altra parte, altrove, in un posto sicuramente migliore di questo.
L’altra puttana urla, intorno tutti urlano o trattengono il fiato, mostri che si mascherano da mostri per dissimulare la loro reale mostruosità. Le pistole urlano. Ma dimenticano ciò che io so: sono un mago, uno stregone, figlio e allievo nientemeno che dello stesso Satana. Mi basta una torsione del busto per svanire, lasciando davanti ai loro occhi nient’altro che la camicia di forza afflosciata, fumante per i fori d’ingresso e uscita dei proiettili.
Lo so, come sapevo in che modo evadere, aggirando l’isolamento, le guardie, le cinghie.
Ed ecco che evado ancora, da me stesso, dal mondo: svanisco. Svanisco, come sono svanito per quattordici anni, obliterato dalla memoria di tutti, da una società troppo impaurita dalla verità, troppo vigliacca per guardarmi in faccia, occhi negli occhi. Svanisco, da me stesso, dagli altri, da tutti, da tutto.
Svanisco, nella tempesta di fuoco, nella notte di Halloween.
È così che si conclude lo spettacolo, la rappresentazione, la pantomima.
È così che da uno, a molti, divengo niente.
È così che si conclude La ballata di Dwight Fry.
Nota dell’autore. Il titolo della storia è una citazione dell’omonima canzone di Alice Cooper, dall’album Love It to Death (1971), che è stata fonte d’ispirazione per il racconto; a sua volta, il nome del protagonista della canzone (e del racconto) è un omaggio al quasi omonimo Dwight Frye, attore conosciuto per le sue interpretazioni di personaggi mentalmente instabili come Fritz in Frankenstein (1931) e Renfield in Dracula (1931).
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