Racconto di 90Peppe90
Era stata la cagata più soddisfacente che Lewis si
faceva da un anno a quella parte.
Dannazione, a dirla tutta, era stata la cagata più
soddisfacente di tutta la sua vita.
Tirò un sospiro di sollievo, si passò una mano tra i
radi capelli brizzolati e si risistemò gli occhiali in cima al naso, pigiando i
polpastrelli sulle lenti. Respirava ansando, a un ritmo elevato, ingollando
l’aria a grossi bocconi. Nonostante il puzzo di feci, diamine, era l’aria più
buona che avesse mai respirato. L’assaporò.
Il telefono vibrò. Lewis lo recuperò dal bidè
accanto e lesse il messaggio. Era Jenna. Ma
quanto ci metti?, gli chiedeva; la domanda era corredata da una emoji
ammiccante. Parole ed emoticon erano la didascalia in calce alla foto della
robusta tetta di Jenna. Il capezzolo turgido era strizzato dalle dita della
mano sinistra.
Il timer scadde, e fotografia e messaggio sparirono
in uno sbuffo.
Arrivo arrivo, digitò Lewis, che già avvertiva il pene drizzarsi
fino a sfiorare il bordo interno della tazza. Jenna era un vero animale,
dannazione. Lo faceva impazzire.
Fu sul punto di mandarle la foto del cazzo, di
ricordarle l’effetto che gli faceva, ma poi, trascorsi venti secondi, anche il
suo messaggio svanì dalla chat Telegram. Poco male. Giusto il tempo di godersi
quel crescente rilassamento generale in seguito alla cagata…
Plo-plop.
Una parte della merda, inizialmente rimasta
appiccicata sulla superficie di ceramica, doveva essere scivolata a raggiungere
il resto della sfornata. Fu un suono confortevole. Se il sollievo avesse avuto
un suono, sarebbe sicuramente stato quello lì: la sua cacca che affondava
nell’acquetta in fondo al cesso.
«Dio…», gemette, un lieve sorriso affiorato in
volto, a un punto di mezzo tra la beatitudine e l’estasi. «Roba da pazzi, la vita»,
commentò, in un sussurro – e, per lui, non era una novità quella di dar voce ai
propri pensieri, tra sé e sé, nell’intimità del gabinetto: soprattutto nel
corso degli ultimi due anni, il bagno era stato il suo santuario, la sua sfera
d’inviolabilità, sebbene fosse stato anche croce e non solo delizia. «Ho quella
porca, di sopra, nell’altra stanza, pronta a sbranarmi… e però sono molto più
contento di aver cagato.»
Signorsì. Per un anno buono, andare al bagno, per
Lewis Cawald, non era stato solo sinonimo di staccare la spina, di rifugiarsi
in un atomo di esistenza in cui essere sé stesso, in cui dismettere quella
maschera affranta e contrita, ma anche motivo di sofferenza, che indossava in
pubblico. La stitichezza lo aveva tenuto in ostaggio, il suo stomaco non ne
voleva sapere, di collaborare, e a volte doveva sforzarsi tanto da farsi
scoppiare le vene del collo e farsi uscire tre ernie dalla schiena. Per
cacciare fuori, alla fine dei conti, tre palline di Nesquik…
Ma ora, oh sì, ora…
Plop…
Un ultimo pezzetto doveva essersi staccato dal
gabinetto. Lemme lemme, finalmente, anche lui si era convinto a immergersi
insieme ai suoi amichetti. Ora si sarebbero rilassati, belli tranquilli, a
galleggiare pacatamente, prima che Lewis li avesse mandati giù per le spettacolari
ripide del Fognapark.
Si deterse il sudore appiccicoso dalla fronte.
Faceva un caldo della miseria. Niente di nuovo, per Allport, specie considerano
che era metà giugno. E il peggio doveva ancora venire. Ma andava bene così.
L’intestino di Lewis pareva essersi rimesso a posto, e perciò lui avrebbe
benissimo potuto sopportare pure il caldo dell’Inferno, ora come ora. Niente
più poteva preoccuparlo. Il mondo stava tornando a girare nel modo giusto.
Il telefono vibrò di nuovo. Non lo usava con una
simile frequenza da… da quando si erano accordati. Da quando lui e Jenna si
erano messi d’accordo. Lewis aveva messo le cose in chiaro sin da subito. Se
c’era da farlo, se davvero erano animati dalla volontà di andare fino in fondo,
ci volevano pazienza e disciplina. Pazienza e disciplina ferree. Il telefono avrebbero dovuto dimenticarselo. Se non per
scambiarsi comunicazioni che rientravano nel ruolo interpretato dalla maschera
indossata in quei lunghissimi diciotto mesi. Messaggi affranti e contriti.
Disperati. Allarmati.
La faccenda, ora, si era raffreddata. Lewis pensava
che, per quanto gli inquirenti potessero dichiarare pubblicamente l’esatto
opposto, la polizia aveva smesso di indagare. Non avevano niente, in pugno, e
mai ne avrebbero avuto. Seppure avessero anche solo potuto ipotizzare un legame
extraconiugale tra lui e Jenna, loro due non avevano mai fornito nessun indizio
al riguardo, niente di niente. Per un anno e mezzo, lui e Jenna non erano stati
altro che buoni amici, gli stessi buoni amici di sempre. Preoccupati,
distrutti, smarriti… ma nient’altro che buoni amici. E lo sapevano gli sbirri,
lo sapevano i giornalisti, lo sapevano i milioni di telespettatori allportiani
che avevano assistito allo show gentilmente offerto da quelle maschere
immortalate su riviste, social network e TV. Buoni amici, uniti nel dolore,
gravati dall’angoscia. D’altronde, Jenna era pur sempre la moglie del migliore
amico di Lewis, e Lewis era pur sempre il padrino dei due marmocchi…
Un sonoro peto schizzò fuori dalle chiappe di Lewis
Cawald. E, ancora una volta, l’uomo assiso sul water dovette ammettere di aver
goduto più per questo – per i prodotti di scarto evacuati dal suo corpo – che
per Jenna. Nonostante il nuovo messaggio, che a breve sarebbe evaporato nei
nebulosi server di Internet, in cui Jenna si sollecitava le labbra fradice
della vagina con uno dei sigari scadenti che suo marito aveva usato collezionare
per un breve periodo.
Un secondo peto, più discreto ma decisamente più
puzzolente del primo, si aggiunse alla composizione sinfonica. Lewis sorrise,
tronfio, e scalciò via i bermuda jeans. Scalciò via pure le mutande. Sarebbe
tornato da Jenna completamente nudo. E avrebbero scopato tanto forte che
probabilmente li avrebbe sentiti godere e grufolare anche il Pezzo di Merda.
E, siccome, come ben si sa, non c’è due senza tre,
ecco che Lewis ne sganciò un altro. Il nuovo arrivato risuonò garrulo e breve
nel silenzio del bagno. «Questo è per te, amico», mormorò. «Alla tua memoria.»
Lewis allungò la mano verso destra e strappò
distrattamente della carta igienica, mentre con la sinistra, impacciato,
rispondeva a Jenna: Me lo stai facendo
scoppiare ma andiamoci piano coi messaggi.
Dai Lew ormai basta, rispose subito lei, impetuosa. Vieni qui e fammelo scoppiare nel culo. Mi
interessa solo questo e nient’altro ok? Se davvero ci hanno in qualche modo sorvegliato
le conversazioni ora sicuro non lo fanno più ficcatelo in testa.
L’assunto di Jenna era plausibile. Anzi,
assolutamente ragionevole. Ma con quegli aggeggi non si poteva mai sapere. Erano
infidi. Lewis non avrebbe mai dimenticato com’era stato licenziato dall’azienda
per quella foto che aveva scattato e postato da ubriaco. L’aveva cancellata.
Aveva aperto il fottutissimo Facebook per cancellarla e lo aveva fatto. Eppure,
in qualche modo, quella foto era rimasta a galla…
Già, a galla. A galla come gli stronzi.
Lewis si sporse appena in avanti, scostandosi di
lato e portando la carta igienica dietro, il membro duro e turgido, che
iniziava già a lubrificarsi e sbrodolare, e frattanto le dita arrancavano sul
display del telefono: Okay ma tanto sono
qui e adesso arrivo. Se non è necessario evitiamo messaggi e chiamate quando è
possibile dai. Ti amo. Arrivo.
Non aspettò la replica di Jenna; preferiva
sentirgliela spiccicare dalle sue stesse labbra. Da quelle labbra sulle quali
avrebbe appiccicato le sue. Quelle labbra che avrebbe succhiato, morso,
leccato, come aveva sempre desiderato fare, come aveva iniziato a fare prima
ancora che il Pezzo di Merda avesse iniziato a sospettare… prima ancora che il
Pezzo di Merda avesse accennato a volerne parlare con Norma. Lui, proprio lui,
il Pezzo di Merda in persona. Lui, che era sempre, perennemente impegnato in
ufficio, oberato di lavoro, a fare gli straordinari in azienda. Lui… che,
anziché affrontare la cosa e parlarne con Jenna, con quel gran bel pezzo di
donna che gli si era concessa, la lasciava a marcire in casa mentre andava a svolazzare
intorno a quella anonima puttanella che si celava sotto i nomi in codice
“lavoro”, “straordinari” e “turni di notte”…
Plo-plop.
«Uh, devo averne fatta mezza tonnellata, Gesù
Cristo!»
Lewis, anziché gettare la carta igienica usata
dritta nel cestino, se la parò davanti agli occhi e la contemplò con sommo
compiacimento. Al pari di una vittima della sindrome di Stendhal dinnanzi a
un’opera d’arte moderna. Sì, proprio un’opera d’arte moderna, un ritratto merda
su cellulosa. «Tale e quale, amico mio, tale e quale», commentò, ringalluzzito
all’idea che finalmente quel dannato anno e mezzo era passato e che la polizia
di Allport avesse ben altre gatte da pelare – ché tanto, in quella cazzo di
città, la gente che spariva era prassi quotidiana. «Non sarò mai stato bravo
come te in niente. Ma dobbiamo dirci la verità: questo tuo ritratto te l’ho
fatto proprio preciso a te.»
Lewis starnazzò una mezza risata, buttò la carta
sporca, e iniziò a far scorrere l’acqua dal rubinetto del bidet. Anche quel
suono fu piacevole: preannunciava che, a breve, Lewis avrebbe finito. Il suo
culo peloso sarebbe stato bello pulito e lui avrebbe potuto fiondarsi a
capofitto su Jenna. Non avrebbero chiuso occhio un solo istante, quella notte.
Non dopo tutto quel tempo. Non dopo tutta quella astinenza. Non dopo tutto
quello che avevano dovuto passare per coronare il loro legame.
«Ma il duro lavoro ripaga. Il duro lavoro ripaga
sempre. Il duro lavoro, ma quello vero, eh. Non quello che usavi da copertura
mentre facevi le corna a Jenna», borbottò Lewis. Era in vena di sfogarsi. Di
sfogare tutta la tensione e l’ansia che era andato accumulando nel corso dell’ultimo
anno abbondante. Ora non solo poteva stare con Jenna, ma poteva pure cagare, e
farlo senza il benché minimo, maledettissimo sforzo. «Già, Pezzo di Merda. Dormo
con tua moglie e cago nel tuo cesso. Mi hai sentito? Dormo con tua moglie e
cago nel tuo cesso.» Chiuse il getto del bidet e si preparò a compiere il balzo
da una tazza all’altra. «E ci scommetto, che mi hai sentito, dato che qui sopra
ci sei crepato.»
Plop… Plo-plop… Swush!
Fu l’ultima cosa che Lewis Cawald sentì in vita sua.
«Uffa, mi sono rotta il cazzo…», sbuffò Jenna Davin.
Si infilò la maglia scolorita degli Allport
Whiteheads e si tirò su dal letto. Andò al comodino, prese il pacchetto di
sigarette e se ne accese una. Dopo la prima boccata, abbassò lo sguardo alle
piastrelle su cui poggiavano i suoi piedi nudi. Come se quello – fissare il pavimento
– potesse bastare a richiamare Lewis dal cesso. Tirò fuori il fumo in una
soffiata un po’ nervosa e un po’ impaziente.
Sapeva dei problemini di Lew. Durante l’eterno
periodo delle indagini, delle interviste, degli appelli, dei pianti e di tutto
il resto di quella necessaria messinscena, non si erano visti né sentiti – o,
almeno, non da soli. Le aveva riferito della stitichezza in una di quelle occasioni
che, di quando in quando, erano riusciti a ritagliarsi insieme; per esempio quando
c’era da confrontarsi col detective in centrale o da rivolgere un’accorata
invocazione d’aiuto, nel corso di una delle conferenze stampa organizzate,
affinché chiunque avesse visto qualcuno corrispondente alle foto si facesse
avanti, lei e Lew erano riusciti a ritagliarsi qualche minuto isolati dal resto
del mondo. Con la scusa di una sigaretta, magari.
Jenna scrutò le braci ardenti di nicotina
all’estremità del morbido bastoncino bianco e arancio che reggeva tra indice e
medio. Le Walkers erano le preferite di Lewis. Lei ne aveva sentito il sapore
sin dalla prima volta che lo aveva baciato. Ne aveva sentito l’aroma, sparso
nella cucina di Norma, quella volta che – pazzo d’eccitazione – lui le aveva
alzato su la gonna, tirato giù gli slip e slinguazzato la passera mentre, al di
là della penisola, la piccola di Norma e Lewis osservava meravigliata la torta
scadente che stava lievitando in forno. E la prima volta che avevano fatto
l’amore, poi, l’aria dello stanzino era stata pregna dell’odore pungente di
Walkers.
Si vide riflessa sul vetro della finestra spalancata
che dava sul nulla cosmico che circondava la periferia di Allport, dove la
città iniziava a essere campagna, e la campagna si estendeva per una infinità
di ettari… ettari in cui trovare un cadavere seppellito era più difficile del
recuperare il proverbiale ago nel pagliaio. Figurarsi, tra l’altro, se gli
sbirri del dipartimento allportiano avevano tutto quell’interesse nel farlo. Se
l’APD avesse investito davvero le proprie risorse per ogni persona scomparsa in
quella fottuta città, l’amministrazione sarebbe stata perennemente in rosso,
costretta a elemosinare davanti alle chiese e alle fermate della metro. E uno
sbirro non corrotto… be’, ecco un’altra cosa difficile da trovare, a Allport,
forse anche più di un cadavere nelle campagne là fuori.
Se Jenna e Lewis avessero avuto abbastanza soldi da
offrire, probabilmente il caso non sarebbe neanche partito, e loro due non
avrebbero dovuto patire quella distanza forzata. Ma non potevano permetterselo.
Gli sbirri erano corrotti, sì, ma non a buon mercato.
Dio, se Lew non avesse perso il posto nell’azienda
dove aveva lavorato anche il Pezzo di Merda… allora, forse, sarebbe stata
tutt’altra storia. Certo, Jenna sospettava che spompinando il detective
assegnato alle ricerche avrebbe potuto ottenere qualcosa, magari avrebbe potuto
accorciare i tempi, ma non ne aveva avuto voglia. L’idea non l’aveva mai
allettata. Lei apparteneva a Lew e a Lew soltanto; e, viceversa, lui a lei.
Norma era solo una dannata parentesi… che, chissà, un giorno sarebbe in qualche
modo stata rimossa dall’equazione…
In compenso, comunque sia, a controbilanciare tutti
quei mesi lontana dal corpo di Lewis, Jenna riconosceva che stare sotto ai
riflettori non era stato poi così male. Le era stato utile anche per piazzare
qualche pulce nell’orecchio, per sollevare qualche dubbio sulla presunta
irreprensibilità dello scomparso, lasciando intendere che – se lui fosse
tornato – lei gli avrebbe ben volentieri perdonato quegli “scivoloni” di percorso.
Insomma, lui aveva pensato di metterli nella merda?
Dopo tutto ciò che le aveva fatto – le assenze, le scuse, i ritardi, le notti
in ufficio, le trasferte –, tradendolo con chissà quale puttanella tra le tante
che gli erano andate indietro sin dalle superiori, aveva davvero pensato di
spifferare a Norma e a chissà chi altri l’intesa che c’era tra lei e Lewis?
Cazzo, Lew ne sarebbe uscito rovinato; sarebbe finito sul lastrico anche solo
per pagare le spese di separazione e gli alimenti a quella cagna rognosa che
aveva per moglie…
Quindi, fottiti, Pezzo di Merda: eccoti pan per focaccia.
Non solo gli avevano impedito di aprire bocca, ma
era stata lei stessa, Jenna in persona, assistita da qualche accenno abilmente
piazzato da Lewis qua e là, a spifferare qualcosa sulle scappatelle del Pezzo
di Merda.
Vide il riflesso della maglietta sul vetro della
finestra spalancata. Al centro, stinto e sbriciolato, campeggiava lo scudo
circolare nero e rosa su cui si stagliava il profilo dell’aquila di mare
testabianca; sotto, la dicitura
Il Pezzo di Merda non era mai stato un vero tifoso
né particolarmente amante dello sport (A
meno che – ovvio – non si consideri “sport” lo sbattersi qualche collega o una
giovane tirocinante nel sottoscala dell’azienda): comprare magliette di
squadre di football, basket e hockey era stata una delle sue fissazioni
temporanee, al pari dei sigari. Jenna non mancava di indossarne una dopo aver
fatto sesso con Lewis.
A proposito di Lewis…
Jenna schiacciò il mozzicone nel posacenere pieno
poggiato sul comò. Possibile mai che, adesso che potevano finalmente tornare ad
amarsi, per la prima volta dopo un anno e mezzo di sacrifici, dovessero
sottomettersi ai problemi intestinali di Lewis? Cazzo, lei aveva sperato, e
aveva anche creduto, che una volta archiviata la faccenda, Lewis si sarebbe del
tutto ripreso. E invece…
E invece è come se quel Pezzo di Merda ci costringesse a stare separati
anche ora che sta due metri sottoterra.
A quel punto, Jenna si girò di scatto. Le venne
istintivo e non seppe spiegarsene il motivo. Lo comprese solo fissando la porta
che dava sul corridoio: c’era da andare di sotto e sincerarsi delle condizioni
di Lewis. Inviare messaggi era inutile. Aveva temporaneamente smarrito la
libidine che l’aveva mossa a inoltrare quelle immagini, e poi Lewis si ostinava
a essere ancora guardingo, rispetto all’utilizzo del telefono.
In ogni caso, Jenna doveva scendere dabbasso. Non
poteva aspettare neanche un istante di più. Aveva già aspettato tanto. Troppo.
E quella era stata la parte più difficile: l’attesa. Uccidere – quello era
stato semplice. Si era trattato solo di sciogliere una compressa in un
bicchiere di vino. Trasportare e occultare la carcassa – anche quello era stata
una passeggiata di salute: uscire dal casolare nottetempo, spingersi tra le
ombre della boscaglia, scavare e ricoprire. Pulire la scena dell’ultimo respiro
del Pezzo di Merda – che, ingurgitato il bicchiere di vino, aveva avvertito
lancinanti fitte allo stomaco – quello era stato ancora più facile. Detersivo,
candeggina, spugna, lavasciuga… et voilà!,
il cesso era come nuovo, lindo e splendente. Uno specchio. D’altronde Jenna non
aveva fatto che quello, da quando lo aveva sposato? Ripulire i piatti e la
merda suoi e dei bimbi – che ora, per svagarsi dopo quel brutto periodo, erano
andati alla colonia estiva –, mentre lui andava a trombarsi questa o
quell’altra troietta.
«Lewis!», iniziò a chiamare Jenna Davin, imboccando
il corridoio, vestita solo della maglia slargata del suo scomparso marito.
«Come va, Lew?»
Ma Lewis Cawald non poteva rispondere.
E Jenna cominciò a sudare spiacevolmente quando
arrivò alla porta del bagno, al piano di sopra di quel casolare diroccato e
sfatto, all’estrema periferia di Allport, che era casa sua.
Si arrestò e si zittì. La mano non osò toccare la
maniglia, temendola rovente. Temendo che, aprendo, avrebbe rivissuto una scena
già vista. Solo che, al posto del Pezzo di Merda, ci sarebbe stato Lewis;
Lewis, l’uomo della sua vita, l’uomo che sapeva realmente farla sentire viva,
voluta, desiderata; Lewis, che avrebbe fatto di tutto per lei, che la bramava e
la possedeva con vigore e pienezza, sbavando, ansimando, gemendo per lei;
Lewis, che l’aveva tirata fuori da quell’incubo di apatia e disinteresse,
procurandole quella pasticca e facendosi trovare tra gli alberi di agrumi con
un paio di vanghe pronte all’uso; Lewis – riverso bocconi in avanti, il culo
all’aria e la faccia spaccata per terra e le interiora freddate da un bel
blocco intestinale.
Ma che cazzo vai pensando?, si ammonì Jenna. È soltanto stitichezza. Un fatto nervoso. Ma
adesso che non c’è più niente per cui essere nervosi…
E allora perché la sua mano, avvicinandosi alla
porta del bagno – non con l’intenzione di aprirla, però, bensì con quella di
bussare –, tremava come se in casa facessero improvvisamente venti gradi sotto
zero? Perché esitava? Perché non ripeteva il nome di Lewis? Perché non entrava?
Perché…?
Perché ho i piedi bagnati?
La sensazione tattile non era bastata; solo dopo
essersi posta mentalmente il quesito, infatti, Jenna capì che era il caso di
guardare giù, nel punto in cui i suoi piedi erano piantati su…
«Merda!»,
strillò, in un rantolo strozzato; al contempo, balzò all’indietro e sbatté la
schiena e la nuca contro la parete del corridoio.
“Brachicardia da paura”. Un tempo, da qualche parte,
forse in una serie o in un film, Jenna Davin aveva sentito quella espressione.
Era, ricordò il suo cervello imballato e partito per la tangente, una
condizione di paralisi che ghermiva il corpo in concomitanza a uno smodato
incremento di adrenalina indotto da una forte emozione di paura. Non sapeva se
si trattasse esattamente di questo, fatto sta che le sue gambe cedettero, e
lei, anziché urlare, girarsi e correre più in fretta che poteva, si afflosciò
sul pavimento, sfregando la schiena contro la parete.
Le dita dei suoi piedi non si erano solamente
bagnate. Si erano proprio sporcate. Dei
pezzettini di materiale marrone si erano appiccicati sui suoi piedi. Un fetido
flusso di quelli che sembravano escrementi fuoriusciva dalla fessura inferiore
della porta del bagno – plop, swush,
swush, swush… E continuava a scorrere… a scorrere… a scorrere…
Plo-plop… swush, swush, swush…
Finché, a metà strada tra il bagno e il muro
dirimpetto, il fluire si fermò. E quel puzzolente, rivoltante, semisolido
liquame marrone prese a sollevarsi.
Era come se, anziché continuare a scorrere in avanti, adesso stesse scorrendo verso l’alto. E, man mano che lo faceva,
assumeva spessore e consistenza.
Plop, plop, plo-plo-plo-plop.
Prima due forme tubolari, poi queste si univano in
un solo blocco, per poi suddividersi formando altre due escrescenze tubolari,
una per lato; e dopodiché… dopodiché, la merda continuò a muoversi e
modellarsi, continuò a spostarsi e definirsi, come lurida creta tra le mani di
un artista depravato e coprofilo. Un artista che aveva plasmato una merdosa
scultura ad altezza e proporzioni d’uomo… la fisionomia della quale era terribilmente familiare per Jenna Davin.
Una fisionomia che doveva trovarsi due metri sottoterra a fungere da banchetto
per i vermi.
«Sai, Jenna?», disse l’orrida figura – un terribile
squarcio si apriva in orizzontale a formare un sorriso sdentato e deforme – che
teneva, tra le mani melmose, gli occhiali di Lewis: a una lieve stretta delle
dita, e a dimostrazione della solidità e compattezza che quel cumulo di sterco
aveva assunto, gli occhiali si spaccarono. «Sono salito dal fondo del cesso, proprio
lì dov’ero morto, e mi sono rivestito delle feci di Lewis per poter tornare a
muovermi e agire su questo mondo», proseguì il vomitevole abominio, quell’inumano
golem di guano umano, tendendo le nerborute e ripugnanti mani marroni verso il
collo nudo della donna, colando ed emanando umori scuri. «E perciò tu e Lewis
avevate ragione da vendere: sono proprio
un Pezzo di Merda!»
Articolo
tratto dal portale online dell’Allport
Chronicles:
Caso Gretskin: la macabra fine della moglie e del migliore amico
dell’uomo scomparso sembra accreditare l’ipotesi di omicidio per tradimento.
Raccapricciante la scena che le donne e gli uomini dell’Allport Police
Department si sono trovati di fronte in casa Gretskin, a Citrus Hectars,
all’estrema periferia di Allport.
Jenna Davin e Lewis Cawald, 37 e 41 anni, sono stati trovati senza vita
al secondo piano dell’abitazione. La
scoperta dei cadaveri, barbaramente brutalizzati, è avvenuta in seguito alla
segnalazione che i genitori della Davin, non avendo più notizie della figlia da
tre giorni ed essendo sprovvisti delle chiavi del casolare che lei aveva diviso
per i quattro anni di matrimonio con Nelson Gretskin, hanno fatto alla polizia.
Il corpo inanime di Lewis Cawald, migliore amico di Gretskin – del quale
si sono perse le tracce ormai da diciassette mesi –, è stato rinvenuto nel
bagno; nudo e steso prono sul pavimento, l’uomo è morto per le emorragie
riportate in seguito all’introduzione forzata all’interno dell’orifizio posteriore
delle sue stesse feci.
«La scena», ha dichiarato la detective Belsham, «era letteralmente un
pantano di sangue e merda: mi ha fatto pensare a un qualche girone infernale
dantesco.»
I primi resti a essere stati trovati, però, sono stati quelli di Jenna
Davin – scompostamente seduta nel corridoio, esattamente di fronte alla porta
del gabinetto, soffocata tramite l’immissione violenta degli escrementi dello
stesso Cawald.
Si è conclusa in queste circostanze, atroci e scellerate, la vita della
donna e dell’uomo che sono stati assiduamente sotto i riflettori lungo l’intero
dipanarsi delle infruttuose indagini.
Indagini che, tuttavia, adesso sembrano aver trovato un inatteso colpo
di coda. Tutto, infatti, sulla scena del crimine, lascia intendere che Davin e
Cawald avessero una relazione segreta all’infuori dei rispettivi matrimoni:
anche la donna – eccezion fatta per una t-shirt maschile dei Whiteheads – era
completamente nuda, il letto matrimoniale è stato trovato disfatto e le parti
intime dei morti, che dopo la morte sono stati ricoperti di escrementi,
indicavano chiaramente – stando alle prime indiscrezioni – la consumazione di
un recente rapporto sessuale.
Ai nostri microfoni, Isaac Koontz, avvocato di Gretskin, ha asserito:
«Questo va a confermare quanto ho da sempre sostenuto: c’era del marcio tra la
signora Davin e il signor Cawald, ed era nella loro direzione che le indagini
avrebbero dovuto indirizzarsi, perché era plausibile – e lo è ora più che mai –
che entrambi, temendo di essere scoperti nella fragranza del tradimento,
avessero architettato di sbarazzarsi del signor Gretskin.»
Per la verità, Koontz ha spesso lasciato intendere questa sua posizione,
senza comunque mai esplicitarla chiaramente, corroborando le maliziose ipotesi
di una ristretta e circoscritta parte dell’opinione pubblica allportiana.
Secondo alcuni, difatti, Nelson Gretskin aveva subodorato o scoperto il
tradimento messo in atto da due delle persone più importanti della sua vita e,
per metterlo a tacere, Jenna Davin e Lewis Cawald lo avrebbero fatto sparire –
probabilmente uccidendolo e nascondendone la salma.
«Questo non dimostra un bel niente», ha ribattuto per le rime Brian Lee,
legale di Cawald, manifestando una furia composta. «E il mio collega dovrebbe
soppesare per bene le parole, prima di scagliare illazioni che vanno a
infangare la memoria della moglie del suo assistito.» L’avvocato ha poi
aggiunto: «Per quanto ne sappiamo, la relazione tra Lewis e la signora Davin è
potuta sbocciare anche in seguito alla sparizione del signor Gretskin,
suggellata dal pesante fardello della perdita che li accomunava: e non c’è
niente di male, in questo, né esiste una legge che punisca come reato questo
genere di relazioni.»
Nessuna dichiarazione, invece, dalla madre di Gretskin. Mentre chiedono
giustizia, a gran voce, i genitori delle vittime: «È una cosa terribile e
innaturale, quella che è stata fatta ai nostri figli, una fine infame. Ed è di
loro, di questo duplice omicidio, che dovrebbe parlarsi, anziché concentrarsi
ancora su Nelson Gretskin.»
Va loro incontro la dichiarazione della detective Caroline Belsham,
responsabile del caso, che – immaginiamo – ci terrà compagnia, quantomeno, per
il resto dell’estate: «Faremo chiarezza su questa vicenda, che puzza almeno
quanto la scena del crimine, e assicureremo alla giustizia i responsabili di
un’azione tanto turpe e deplorevole.»
I responsabili, già. L’opinione pubblica è tornata a scaldarsi
sull’argomento Gretskin, dopo un paio di mesi di stanca, che ha fatto seguito
alla sospensione delle ricerche. Internet e i social media pullulano già di
teorie, accuse e congetture, tra le quali figurano l’idea di un gioco erotico
finito male, l’esecuzione da parte di una qualche setta occulta, la punizione inflitta da un qualche “Figlio
di Allport” – come siamo soliti definire i serial killer generati a grandi
ritmi dalla nostra società – incaricato, magari, proprio da un Gretskin che si
è volontariamente dileguato, un anno e mezzo fa, al fine di organizzare questa
sua macabra vendetta. Per quel che siamo riusciti a raccogliere fin qui,
intanto, la polizia sta setacciando il sottobosco criminale e, nello specifico,
ambienti di cruciale rilevanza, rispetto alla particolare dinamica del duplice
omicidio, come l’esclusivo club a luci rosse Desaad e l’attiguo famigerato locale che risponde all’insegna di Slutgarden.
Fanno discutere, in conclusione, le parole che abbiamo casualmente
intercettato poco prima che l’avvocato Koontz chiudesse una telefonata sul suo
cellulare: «Era una storia di merda ed è giusto che nella merda sia finita.»
Ma noi, personalmente, dubitiamo che la storia sia davvero finita.
Anzi, ammettendo che Nelson Gretskin non sia semplicemente sparito, ma
sia piuttosto andato incontro a un destino ben più definitivo, adesso le anime
che reclamano verità e giustizia – relativamente a questa terribile storia –
ammontano a tre.
Forte. Non per tutti nel linguaggio, nei contenuti e nello stile ma ben scritto, da non riuscire a staccarsene durante la lettura. Un pulp/horror meritevole di far proseguire su AD la saga di Allport. L’assassinato che si riconfigura in quel modo, poi, è l’apoteosi del ributtante. A un certo punto mi sembrava quasi di “avvertirne” l’insostenibile presenza…
RispondiEliminaE poi dicono che i personaggi di film, romanzi e racconti non vanno mai al cesso...
RispondiEliminaContento ti sia piaciuto!
Un onore che le sporche gesta di Allport tornino a insozzare le multiformi realtà di AD.
Speravo proprio di renderlo abbastanza vomitevole - non perché fosse il mio obiettivo fondamentale ma perché coerente con quanto accade nel racconto -, e a quanto pare ci sono riuscito! Bene.
Abbracci tentacolari, Mastro Grifabius!