venerdì 26 agosto 2022

Hai visto la scritta sul muro? "...mene mene tekel u-parsin"

 

Dedicato allo scultore Leonardo Bistolfi


"Resta fermo Leonardo e guarda verso l'orizzonte!...
Bravo, tieni quella posizione e raccontami come ti è venuto in mente questo capolavoro pazzesco…"
Lo scultore Leonardo Bistolfi posava per l’amico pittore Giovanni portando il suo inseparabile Fez Rosso, pulito e animato di quel rosso fiammante che ben spiccava sui blocchi di marmo bianco che affollavanlo il suo laboratorio.
Giovanni gli fece indossare il suo abituale camice inzaccherato di gesso e di schegge di marmo.
Un magico Fez rosso,acquistato chissà in quale mercato del Nod Africa, o regalatogli chissà da chi.
Era un emblema di originalità creativa, ma anche di tensione, di nervosismo sfogato in un sostituto della creta, la bella creta morbida da lui tanto amata, e nella quale affondava le mani con voluttà, alla ricerca di un inizio, di uno spunto per una nuova forma, di un’idea...
"Caro Giovanni, me l'ha portato un sogno o un incubo, Morfeo o Fobetore? Non saprei dirtelo Giovanni, non saprei, davvero…
L'idea originale era di rappresentare con una figura simbolica la Morte, la Morte come la vediamo noi moderni; anche se non versiamo lacrime per le crudeli pene del fuoco dell'Inferno del Padre Eterno,siamo sempre disturbati ed inquietati dal pensiero inafferrabile dell’infinito sconosciuto. Nell'esprimere questa idea, quasi incoscientemente, e certamente senza premeditazione, la figura della Morte assumeva l'aspetto di una sfinge...e poi è venuto il sogno.
Allora, camminavo tutto solo in un deserto infuocato senza fine, quando sopra una duna è comparsa questa Sfinge che cominciò a parlarmi.
Seduta al centro su di un alto trono di marmo grigio a gradini e avvolta fino a terra da un largo mantello, questa donna dallo sguardo di leonessa volgeva lo sguardo verso un punto lontano ma indefinito. Le membra erano strette e contratte come prese da una morsa di gelo; le mani, ossute e rigide, si posavano come artigli sulle ginocchia. Al rigoglio floreale del lato destro, una cascata di papaveri, crisantemi e gigli che diffondevano il loro profumo sul deserto, si contrapponeva lo spazio vuoto e desolato del lato sinistro del suo corpo. Il pieno e il vuoto, la vita e la morte, dunque, intrecciati insieme, da sempre; e il fenomeno strano è che mentre emetteva la sua voce inquietante, canora, poetante, non sentivo più la sete, il caldo e la fatica:
"...mene mene tekel u-parsin"

(מנא ,מנא, תקל, ופרסין)

"Tutto ciò che resta di ciò che eravamo 
è ciò che siamo diventati
Una volta qua s'erigevano i vostri fornitissimi centri commerciali, ma adesso quei mercati di morte nella vita sono spariti, figli di Prometeo:
le folgori del Titano vi hanno fatto vivere, ma troppo hanno consumato la linfa della vita!
Troppo vi hanno accecato e ora il vostro tempo è scaduto..."

Poi, intorno a me cominciarono ad arrivare dai quattro punti cardinali migliaia di donne e uomini mascherati, che avanzavano nella sabbia con passo malfermo e strascicato, biascicando un'orrenda cantilena..."
"...mene mene tekel u-parsin"

(מנא ,מנא, תקל, ופרסין)


La Sfinge, terribile vergine dalle mascelle feroci e dagli artigli che fanno a brandelli, riprese a cantare: "Hai visto la scritta sul muro?
Hai visto quelle parole scritte con il sangue e con il fuoco?
Riesci a vedere i cavalieri nella tempesta e sull'onda di maremoto che sta per arrivare?
Riesci a vederli mentre spronano i cavalli dell'ira e della resa dei conti al galoppo?
Un’onda di cambiamenti sta arrivando
ed è tempo che la superbia di chi non è divino venga punita.
Il terremoto è in arrivo,
ma chi non vuole sentire non si accorgerà del tavolo della cucina che balla,
mentre il soffitto viene giù.
Hai visto la scritta sul muro?"
"...mene mene tekel u-parsin"

(מנא ,מנא, תקל, ופרסין)


Allora Giovanni, urlai in preda alla disperazione, e le chiesi come potevamo salvarci da quella catastrofe.
Lei s'inabissò nella sabbia e ne riemerse in un'altra forma: una giovane figura femminile che s'innalzava – letteralmente – dalla sabbia giallastra e in cui sembrava essere in parte intrappolata e trattenuta.Il volto aveva una leggera torsione verso sinistra, gli occhi chiusi, il sorriso appena accennato, i capelli che, come un’aura, si confondevano con il cielo e con la sabbia delle dune. Un volto di donna in atteggiamento sognante e fiero ma che rappresentava un'ideale di grazia e armonia, a cui il nitore e il candore delle vesti radiose esprimevano la lucentezza e la sericità di un giovane corpo senza tempo, sereno e bellissimo.
"Liberate l'amore, la bellezza e la conoscenza dalla materia, se volete sopravvivere alla furia dei cavalieri..."
Fu l'ultima volta che la Sfinge cantò, Giovanni.
Poi mi svegliai e cominciai l'opera.
Non so come, ma in qualche modo l’enigma della scritta sul muro è connesso con il mito della mostruosa Sfinge di Tebe.
La Sfinge, frutto dell’amore incestuoso del cane Orto per la madre Echidna, ha volto e petto di donna, corpo e zampe di leone e due grandi ali. Questa è propriamente l’Androsfinge. Perché, in quel ribollente mescolamento primordiale di esseri e nature che è la mitologia greca, esiste anche una Ieracosfinge, con la testa di falco, e una Criosfinge, con la testa di capra. Si aggira intorno a Tebe e brutalizza gli umani proponendo enigmi e straziando chi non sa rispondere, sino all’arrivo di Edipo.


Vedi Giovanni, quando sogniamo noi esseri umani siamo tutti come Edipo.
Quando Edipo nel suo vagabondaggio sente parlare di quel mostro che terrorizza la città di Tebe, prende la via della sfida e del pericolo. Disperazione e coraggio non gli mancano: va lui di persona a sfidare la Sfinge.
Il mostro, che almeno nella sua testa umana sente l’incanto della parola, ha appreso un indovinello dalle Muse: luminoso e nitido come tutti i pensieri delle nove figlie di Zeus: ma il suo corpo leonino e a quella viscida coda di serpente rendono tutto potenzialmente letale e pernicioso.
Il mito non ci dice che voce ha la Sfinge. Femminile, è probabile, ma anche profonda, o sibilante. Ecco l’enigma che propone a Edipo, arrivato ai suoi piedi con ancora addosso il cappello e in mano il bastone del viaggiatore:
C’è sulla terra un essere che va
senza cambiare mai nome e natura
su quattro, poi su due, poi su tre gambe
ed è più lento quante più ne ha.
Edipo trova la soluzione di colpo, come spesso accade quando l’intuizione arriva dove il ragionamento non arriverebbe mai.
«È l’uomo,» risponde «che da piccolo gattona incerto e lento su quattro appoggi, da uomo cammina fiero su due, da vecchio arranca su tre, essendo il terzo il suo bastone.»
La Sfinge, che dà per certo che nessuno svelerà mai il suo enigma, prova nella sua natura di mostro una rabbia così furiosa che si lascia cadere giù dalla sua postazione, precipita nell’abisso, si sfracella al suolo e muore.
Capisci Giovanni, Johann Joachim Winckelmann non ha capito nulla degli antichi greci e della loro arte.
Il mito greco è popolato da un’impressionante quantità di esseri mostruosi.
La chiave per scendere negli abissi popolati dai mostri è nascosta lontanissima dal calmo, luminoso equilibrio solare con cui vengono raffigurati anche plasticamente gli dei dell’Olimpo, in aperto contrasto con lo stesso gusto dei Greci per la bellezza e l’armonia delle forme, i mostri sono il contraltare degli eroi: che a loro volta ne sono i nemici, combattendo contro la loro natura che è sempre votata alla distruzione e alla violenza cieca.


Tutti i mostri ostentano eccessi e deformità. 
Possono essere giganti con un solo occhio o con cento occhi, animali con due o con tre o con migliaia di teste, ma più spesso sono incroci, ibridi, esseri che partecipano della natura umana e di quella animale: alcuni hanno il volto di donna e zampe e ali di uccello, altri hanno la testa di donna e le membra di leone, altri ancora hanno il busto di uomo e forme equine dalla vita in giù, un altro ha corpo di uomo sovrastato da una testa di toro.
I mostri, in questo loro caos di corpi diversi, in questo loro mescolare forme umane e forme animali, affondano le loro radici in un passato lontanissimo, primordiale, quando il confine tra gli esseri non era ancora fissato in maniera irreversibile, sono il ricordo rimosso, penalizzato condannato di quando l’uomo non era ancora del tutto uomo e lottava per affrancarsi dalla natura animale sapendo che non ci sarebbe mai riuscito del tutto, se non nella levigatezza implume, nell’armonia dei tratti, nella bellezza delle forme del suo corpo, e nella tendenza alla luce della sua anima.
I mostri in genere sono violenti, brutti alla vista, rozzi e deformi, abitati da una forza brutale, da istinti indomabili, incapaci di distinguere tra bene e male, dotati di qualità subdolamente incantatorie, di influssi malefici, di poteri che mutano la sostanza stessa della materia.
Noi non dobbiamo dimenticare, anche se sembra difficile da mandare giù, caro Giovanni, che nella nostra anima, nella parte più bassa e buia dove la memoria dei primordi è ancora viva, trovano terreno fertile i mostri, e che solo opere inesauribili di bonifica interiore possono arginarli e depotenziarli, togliere loro quello di cui si alimentano.
Sono collegati ai nostri disordini, alle nostre deformità, alle nostre incertezze sulle origini di noi stessi tra carne e spirito, in definitiva, ai nostri mostri interiori.
I mostri sono annidati dentro di noi. 
E c’è di peggio, chi non lo ammette potrà caderne preda più facilmente. 
Quanti uomini, anche dopo il più efferato delitto, vengono descritti come brave persone, normali dai vicini di casa. E non è escluso che lo fossero, senza alcun sospetto dei propri demoni. Dei propri incubi. Dei residui di mostruosità di un mondo ancora informe, senza regole, senza confini.
Per non avere paura dei mostri bisogna riconoscerli e sconfiggerli, dentro di sé, innanzi tutto.


Rembrandt-Belsazar (1636 circa) del pittore Rembrandt 







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