Racconto di 90Peppe90
Insomma, siamo adulti. Dovremmo aver ben chiaro in mente che è un personaggio frutto della fantasia popolare. Oggigiorno, poi, neanche i bambini sembrano riuscire a crederci più di tanto. È ai regali, che credono i bambini. La notte di Natale è quel magico momento in cui si scartano tanti regali. Quel magico momento in cui la vita t’illude che i tuoi desideri possano davvero avverarsi. Da piccolo, non sai ancora che la maggior parte delle sorprese che l’esistenza umana tiene in serbo per te contiene al suo interno, una volta scartata, tonnellate di merda fumante.
Da piccolo non lo sai, nossignore; e nemmeno t’interessa. Non t’importa davvero indagare per capire se Babbo Natale esista realmente o meno. Magari ne hai la curiosità, sei attratto dall’idea di incontrare quel prodigioso vegliardo panzone, di osservarlo all’opera; di porgli qualche domanda, già che ci sei.
Ma, a conti fatti, non è questo che t’interessa.
Basta che ci siano quei pacchetti colorati e infiocchettati, sotto l’albero. Basta che ci sia qualcosa su cui avventarti, qualcosa da squarciare e aprire, qualcosa che ti dia la conferma: la vita ti premia, ti dà quel che vuoi, tu devi solo saperlo desiderare abbastanza forte e attendere.
Fosse così facile. Fosse così.
Io, per quel che mi riguarda, non ho mai creduto a Babbo Natale. Neanche da bambino. E non perché fossi scaltro, scettico o dotato di chissà quale intelligenza. Sono l’ultimo degli scemi, anzi. O il primo. Non saprei. Bambino normalissimo, ragazzo normalissimo, adulto normalissimo.
Ma la faccenda di Babbo Natale non l’ho mai digerita.
Tanto per cominciare, non abbiamo mai abitato in una casa col camino. Sempre appartamenti di qualche metro quadro, in schiere di palazzi tutti uguali tra loro. Pur ammettendo che il vecchio lappone parcheggiasse la sua slitta sul tetto del condominio, da dove poteva entrare? Dalle finestre? Data la sua mole, non credo. Dalla porta principale? Figurarsi: mamma e papà si premuravano di chiuderla sempre a chiave a doppia mandata con tanto di chiavistello. Non era credibile, ma neppure un briciolo, che il Babbo s’intrufolasse in casa come il più ignobile dei topi d’appartamento.
E vogliamo parlare della mia scarsa attitudine al sonno? Non che soffrissi d’insonnia – questo, fortunatamente, neanche adesso che di anni ne ho quarantasei. Il mio sonno è sempre stato leggero, però, come se i miei sensi, più di spegnersi (okay, so che tecnicamente non si spengono a nessuno), si limitassero ad acquietarsi. Stavo con gli occhi socchiusi, pronti a balzare in avanti al minimo elemento di disturbo esterno. Esperto quanto vuoi – data la sua carriera secolare – ma nessuno, men che meno un omaccione abbigliato in modo tanto pesante, avrebbe potuto fare quel che si attribuisce a Babbo Natale senza produrre neanche un piccolo rumore.
I passi, il respiro, il frugare nel sacco. L’arrivo della slitta e gli zoccoli delle renne. Lo scivolare attraverso la fantomatica canna fumaria. Tutte azioni, queste, che avrebbero generato sicuramente un minimo suono. Quanto basta da farmi svegliare. Cosa mai successa.
C’era da credere, inoltre, che un ultracentenario obeso residente in una sperduta landa ghiacciata dell’Europa settentrionale riuscisse a leggere, senza alcun problema, letterine cariche di desideri scritti in migliaia di idiomi differenti? Su, andiamo.
La magia non spiegava niente. La magia era roba da fumetti e cartoni animati, da fiabe e favole che, per altro, a me annoiavano terribilmente. La questione era più propriamente pratica. Detta in termini spiccioli: la realtà non ammetteva l’esistenza di un individuo quale Babbo Natale. Oppure c’era da credere che questi facesse visita a tutti i bambini del mondo, eccezion fatta per il sottoscritto. Ma va, neanche per scherzo. Non ero mica un ragazzo tanto monello da meritare un simile affronto.
E poi, comunque, i regali arrivavano. E raramente deludevano.
Che Babbo Natale esistesse o meno era relativo. I desideri venivano esauditi. Cos’altro contava?
Non ho mai fatto il guastafeste, nel caso ve lo steste chiedendo. Non ho mai vestito i panni del classico sapientone di turno che, dall’alto della sua manifesta superiorità intellettuale, va a rompere le uova nel paniere al prossimo spifferandogli che no, Babbo Natale non esiste, e se ci credi sei un grande idiota, probabilmente ancora impegnato a suggere il latte dalla tetta di tua mamma.
Che gli altri credessero a quel che volevano credere, o a quel che gli faceva comodo credere. “Vivi e lascia vivere” è un motto, abusato quanto vi pare, che mi contraddistingue sin dalla tenera età. Non so perché. Credo per la tranquillità di fondo con cui sono nato. Ho sempre vissuto sereno, standomene beatamente per le mie, e così come m’infastidiva – e infastidisce anche oggi – che gli altri venissero a importunarmi su questo o quell’altro argomento, mi avrebbe infastidito anche se a farlo fossi stato io.
Vivi e lascia vivere, perciò, sempre e comunque. Anche quando farlo significava, spesso, essere visto come il diverso, il noioso, l’antipatico. Eppure ho fatto la mia vita. Niente di eccezionale, per carità. Una normale dose di gioie, dolori e indifferenza. Qualche amicizia, un paio di rapporti infruttuosi, qualche innamoramento naufragato. Sacrifici, sforzi, imprevisti e opportunità. Una specie di partita a Monopoli, solo un po’ più monotona.
L’amore, poi, finalmente contraccambiato. Un punto d’approdo e un porto di partenza. Il matrimonio, la bambina, la vita in famiglia. Il lavoro, la casa, le prove e gli ostacoli; tutti quei pacchetti contenenti merda, la consapevolezza che la vita non è affatto come la vigilia di Natale, miseri scampoli di felicità arraffati qua e là.
L’amore, ancora l’amore, sempre l’amore. Quello che ti dà l’entusiasmo, la spinta, la follia di poter affrontare l’esistenza a viso aperto, pugni chiusi e un sorriso inscalfibile.
Ma l’amore è affine al Natale quando sei piccolo: t’illude.
La fiamma si affievolisce attraverso i giorni, le settimane, i mesi e gli anni. Quel che sembrava approdo e partenza al contempo è invece un punto, un punto e basta. Un punto fisso, come tanti altri. Un punto fisso, segnato sul nastro trasportatore della vita, che lo fa trasformare in una linea. Una linea come tante altre. Una linea piatta, continua, monocorde. Piattezza. Tedio. Assenza di sorprese e desideri irrealizzabili. La vita.
Con i suoi alti e bassi, sicuro; ma fondamentalmente una linea continua, pianeggiante e sottile.
E quando ti viene la voglia di curve, tutta questa linearità è frustrante.
È una fottuta maledizione.
Ma cosa ha a che fare questo con Babbo Natale?
Scommetto che ve lo state chiedendo. Potrei anche perderla, questa scommessa, però. Insomma, non sono un campione nel parlare, nell’aprirmi al prossimo, nel raccontare. Quindi, a ben vedere, è più verosimile che vi siate già stufati e abbiate interrotto la lettura di queste mie memorie.
Oh, be’, “memorie” risulta un tantino altisonante, me ne accorgo. Non sono che un umile, misero signor nessuno, una persona normale con una vita normale. L’avrete capito, no? Niente di che, niente di speciale. Tutto nella norma. Tutto nella stradannata norma.
Fino a un certo punto, però. Vedrete.
Il punto in questione è uno dei tanti punti. Uno di quei miliardi di punti messi in fila, infiniti, a formare la retta di cui prima.
Sto esagerando? Chiedo venia. Ma ognuno di noi ha la sua propria ossessione. Questa è… era… la mia.
È arrivato un preciso periodo della mia vita, lo stesso che penso venga per tutti, prima o dopo, in cui il mio tempo su questa Terra era tutto un camminare, correre, muovermi, fare cose, tante, troppe cose, senza un attimo di fiato. Il guaio è che mi ritrovavo sempre nello stesso punto. Sempre le stesse cose, sempre le stesse facce, sempre gli stessi posti. Sempre fermo, immobile, inabissato in un punto dai connotati di un pozzo nero, di un buco, di una voragine oscura e senza fondo.
È arrivato il momento dei “perché”. Il momento della ricerca. Quel periodo in cui ti fermi un attimo – tanto, per quanto tu faccia, rimani sempre fermo – a ponderare su di te, sulla tua vita, sul senso di quel che dici, che fai, che pensi.
Ti fermi e ti chiedi il perché. Ti fermi e analizzi. Ti fermi e cerchi di capire, cerchi e non capisci, ti sforzi e non riesci. Ti fermi e ti accorgi che non stai respirando; hai dimenticato a farlo e allora ti imponi di ricordare come si faccia. T’impegni. Ma non è sufficiente.
I perché rimangono tali. I punti interrogativi ti agganciano per il collo e ti strozzano, cappi da impiccagione ortografici. Ti affanni, anche da fermo, ma tutt’intorno è il nero abisso del punto che è un gorgo di tenebra. Nessuna luce. E più ci provi, meno ci riesci. Il senso non c’è. Solo un casuale, banale, mesto ripetersi di scene tutte uguali tra di loro.
Ti svegli, fai colazione, ti lavi, baci tua moglie e tua figlia, vai in fabbrica, pausa pranzo, ancora lavoro, quaranta chilometri e trecento bestemmie tra andata e ritorno, cenare, ripulire, dormire; un po’ d’amore, anzi ormai di sesso, per sfogo più che per voglia, per distrazione più che per desiderio; il sabato al cinema, la domenica in chiesa, quando capita dai genitori o dai suoceri; qualche giornata al mare in estate, l’insapore grigliata di Pasquetta, una soffiata alle candeline che si moltiplicano, la cena fuori per l’anniversario, sempre allo stesso tavolo dello stesso ristorante della stessa città…
E il Natale.
Il Natale, con l’albero che monti quando ti pare di averlo smantellato neanche due giorni fa.
Il Natale e le luminarie, che ormai in molti lasciano attaccate per tutto l’anno, ma spente, in attesa di rimetterle in funzione a metà novembre. Il Natale e il freddo che è cacciato un po’ più in là, anno dopo anno, l’autunno che pare un interminabile innesto protesico dell’estate. Il Natale e la lista dei regali, le idee che languono, l’allestimento del pranzo e i soliti giri di tombola.
Il Natale e la sua magia, che ti fa credere sia possibile realizzare i desideri.
Ma la magia non esiste, al pari dei desideri appagati.
C’è la realtà.
E una valanga di desideri scalpitanti, sgroppanti, repressi.
Bestiali, irrazionali, in catene.
Ed è così che si comportano i desideri: tali e quali a belve incatenate; lottano per divincolarsi.
Quando ci riescono, sbranano tutto ciò che incontrano.
Nessuno sta lì allo scopo di far materializzare ciò che desideri.
Né Babbo Natale, né Gesù, né il consumismo.
Siamo noi, solo noi, quaggiù, in mezzo a nostri consimili. E tutto quello che puoi fare è scendere a patti con questa verità e trovare una maniera per fartela andare bene. Mandare giù il rospo, il boccone amaro, e forzarti a dissimulare la smorfia di disgusto. Il giusto compromesso per non impazzire quando, fermandoti a rincorrere il senso come un criceto sulla ruota, ti accorgi di essere scivolato in una spirale discendente che finisce dritta nel punto interrogativo, nel monotono abisso dove neanche la più splendente decorazione natalizia può aiutarti a far luce.
Voglio dire, davvero: ci avete mai pensato? Ci affanniamo tanto dietro all’esistenza in cui siamo stati ficcati senza mai averne compreso il significato. Sì, possiamo appiccicargliene uno noi, che sia di ordine etico, religioso o scientifico. Ma è solo un significato. Non il significato. Quello, se c’è, è sfuggente.
Per cui, ci accontentiamo delle illusioni, come facevamo da piccini con innocente ingenuità davanti ai regali di Natale.
Ci rimpinziamo di illusioni e ci va bene così.
Il problema è che ce ne abbuffiamo tanto da prenderci una brutta intossicazione.
Ecco come tutto è iniziato, ed ecco che torniamo a Babbo Natale; tutto per colpa di un’intossicazione da illusioni. Quando tutte le tue pseudo-certezze di cui ti circondi per andare avanti perdono equilibrio e consistenza, si sfaldano e franano in millemila direzioni diverse. Lasciandoti solo. Confuso. Perduto. Ad annegare nel rigurgito delle tue stesse illusioni.
Un vomitevole naufragio in cui hai il disperato bisogno di aggrapparti a qualcosa.
La necessità di salvarti.
Il desiderio di sopravvivere.
Ma i desideri…
Natale 2017.
Senz’altro il culmine della nera accidia in cui si era tramutata la mia vita. Il momento più basso, il peggiore in assoluto, nel concatenarsi di momenti bassi che stavo collezionando. Non vivevo: respiravo. Non vivevo: procedevo per inerzia. Spinto da nessuna energia, attirato da alcun obiettivo, se non la mera abitudine. Un vago senso del dovere. Sospinto, naufrago alla deriva, dall’impetuosa, costante corrente di eventi copiati e incollati.
Avevo tentato di aggrapparmi a vari appigli. È questo che si fa quando senti di scivolare tra le pieghe della realtà, sprofondando in una spirale priva di fondo. Cerchi di aggrapparti a qualcosa. T’impegni a trovare una qualche motivazione, una spiegazione, che possa in qualche modo rivalorizzare le illusioni che ti hanno accompagnato sin lì. O che possa fornirtene delle altre. Tutte nuove e tutte da consumare.
Mi dicevo che avevo una moglie e una figlia, un lavoro da portare avanti, un papà anziano e mentalmente instabile da accudire; che avevo degli impegni e delle responsabilità, ma niente – assolutamente niente – di tutto ciò riusciva a confortarmi; niente e nessuno era in grado di accendere un barlume nel gorgo spalancato sulla superficie ontologica che ci ospita.
Poi, però, una scintilla si accese.
Una scintilla che si fece fiammella, fiamma, fuoco, falò, incendio…
Dapprima credetti fosse amore. Avevo guardato dentro me stesso, avevo percorso le mille strade, i mille vicoli, che si snodano come cunicoli intricati nella mente, o nell’anima, o non so in quale altro non-luogo annidato in noi esseri umani. Un tragitto introspettivo su cui camminavo, andando a ritroso, mentre mi radevo, pranzavo, sorridevo insipido, raccontavo la favola della buonanotte e vegliavo, insonne, lungo le inerti notti di fianco a mia moglie.
Andando a ritroso, dicevo: perché m’ero messo in testa che per tornare in me, per riemergere dal pozzo discendente, dovevo tornare indietro, alle origini, alle radici, a ciò che io ero veramente. Avevo vissuto una vita normale, sì, soddisfazioni, piaceri, gioie compresi. E quindi dovevo ricordare cosa m’avesse reso felice, in passato, cosa m’avesse fatto apprezzare la vita.
L’amore, conclusi, rivivendo coi ricordi i giorni in cui Erica non era ancora mia moglie, neanche la mia ragazza, ed entrambi eravamo due mezzi sconosciuti che si rincorrevano, un po’ per gioco e un po’ per desiderio, tra i corridoi dell’università e i vagoni del treno. Ricordai la magica sospensione che sperimentavo quando noi due stavamo insieme, il tempo andava via veloce, ma tutto il resto era nullo e insignificante. Nessun problema, nessuna preoccupazione, nessuna paura riusciva a toccarci, o toccarmi, nel nostro magico mondo d’amore. Magia e amore. Spesso vanno di pari passo. Talvolta coincidono.
Ripercorsi le cene fuori, i film al cinema e le partite sfrenate alla PlayStation a casa mia; le uscite di gruppo, le scampagnate e le gite fuoriporta, i karaoke in macchina, i puzzle mai terminati, il primo compleanno da coppia, e poi il primo Natale, lo scambio degli anelli, la proposta di matrimonio…
Ma, sopra tutto, a sovrastare qualsiasi altro piacevole ricordo, il nostro fare l’amore. Non c’erano frangenti in cui ci amassimo più che in quelle occasioni. Una perfetta unione, una profonda sintesi di me e lei, di noi due, dei nostri corpi e delle nostre interiorità, del nostro essere in tutto e per tutto, completi, interi, vivi.
Riuscivo a rievocare, pressoché alla perfezione e sin nel minimo particolare, l’emozione, la sensazione del fuoco che ci ardeva dentro, che ci avvolgeva e ci accendeva in un falò di passioni e pulsioni e sentimenti affamati e affamanti. Gli odori, i sapori, le consistenze, le nostre bocche che si mangiavano, le mani che si stringevano, i respiri che si annodavano fino a sfiorare il cielo. Amarci, amarci in quel modo, con tutto ciò che eravamo, con tutto noi stessi, ci elevava. Ci trasportava allo zenit, nel punto in assoluto più alto e distante dagli abissali recessi della spirale. Da lassù, adagiati sulle celestiali nuvole del nostro volerci e averci e tenerci, nient’altro esisteva; solo noi – il resto era estromesso dal creato. Solo noi. Non si poteva neanche lontanamente immaginare il persistere di regioni tanto nere e depressive della condizione umana. Solo noi e il nostro cibarci, saziarci a vicenda, per poi tornare ad aver fame.
Ora eravamo due sassi. Due rocce scolpite per rammentare le forme di corpi umani, affossati in un materasso troppo grande, come se da una sponda all’altra del letto ci passasse di mezzo l’oceano Atlantico o la stessa fottuta Via Lattea.
Un tempo, una simile distanza sarebbe stata nulla, ricoperta alla velocità della luce. In meno di un istante ci saremmo trovati, toccati, miscelati nella pelle, nelle anime, nelle ossa, nel sangue, nel sudore. Un’unica entità di due parti indistinguibili. La fusione di due nuclei stellari dalla cui esplosione era nato altro amore, un carburante infinito, ed era nata nostra figlia.
Ma ora eravamo due sassi. Due sassi immobili in immote, morte orbite bloccate intorno a planetoidi deserti, invivibili. E tra di noi l’infinito. L’inferno dell’irraggiungibilità, dell’incomunicabilità, la fredda vacuità del nichilismo. Due sassi gelidi, che non riuscivano a suscitare una scintilla neanche in quelle rare circostanze di contatto, di meccanico sfregamento.
Era a quello, a quella passione originale e genuina, a quel nucleo di vividi e sinceri sentimenti che bisognava tornare. Era l’unica via per riscoprire me stesso, per riscoprire noi due, per ritrovare la piacevolezza del vivere, l’accettazione delle illusioni, la tollerabilità dell’essere.
Ma Erica non la pensava come me.
Lei non sentiva più niente.
Me lo disse chiaramente, tra lacrime silenziose, di fronte al mio ennesimo tentativo di riaccendere quel che eravamo stati. Fu esplicita, sincera. Non capii, disse che non capiva neanche lei, solo che non riusciva più a provare alcunché. Non lo comprendeva ma lo sapeva. C’era però da fingere e andare avanti, per il bene di Rebecca, e condurre una civile convivenza di cordialità, gentilezze e favori reciproci. Una separazione avrebbe spaccato la vita di tutti, e avrebbe reso un incubo quella di Becca. Ora come ora, perlomeno.
«Poi si vedrà.»
Quelle tre parole mi ricacciarono dritto dentro la spirale.
Più a fondo che mai tra le insondabili fauci del Tartaro.
«Poi si vedrà.»
Ma dov’è che eravamo arrivati?
Ah, già – al Natale del 2017.
È stato questo il periodo in cui, con quanta più passione e convinzione a mia disposizione, cercai di riavvicinarmi a Erica, di riaccendere quel che eravamo stati, di resuscitare dalle ceneri annerite la fiamma rigogliosa che ci aveva animati, che ci aveva fatto sentire così vivi, così veri, reali.
Faceva freddo, quel Natale. Forse più dentro di me che fuori, in città. Ma faceva freddo. Un freddo dannato. Quel genere di freddo che solamente quel genere di calore avrebbe potuto placare. Ma Erica aveva gelato le redivive fiammelle di passione e amore che avevo provato a rigenerare… e il gelo aveva preso il sopravvento.
Nonostante tutto, le apparenze andavano preservate. Avremmo fatto un bel regalo a Becca, avremmo preparato una bella cena per la vigilia, invitando mio papà, i miei suoceri e l’estesa rete parentale di Erica, e il giorno dopo saremmo andati alla solita trattoria. Nel mezzo, tante lucine, canzoni e giri di tombola. Qualche risata. Quanta finzione.
E più fingevo, peggio mi sentivo. Più si facevano distesi i miei modi, più i nervi si affilavano e tagliavano, dentro di me. Un’atroce sofferenza, una patetica messinscena, una lacerante antitesi tra l’affetto e la spensieratezza manifestati e la devastante forza attrattiva del buco nero che aveva inghiottito il mio essere.
Quante volte fui vicino a cacciare via tutti da casa, a scappare, ad abbandonare il ristorante, saltare in macchina e dare gas verso non so quale destinazione. Quante volte avrei voluto abbattere l’albero a colpi di sedia, dar fuoco ai regali, strappare le luminarie dalle insegne dei negozi; sventrare il peluche di Babbo Natale, calpestare il Presepe, prendere a calci la TV con quei suoi cazzo di film d’insopportabile e posticcia bontà d’animo. Spazzare via tutto e sparire. Altrove. Finanche nel nulla. Afferrarmi la faccia, strapparmi quell’insopportabile maschera epidermica di buone maniere, e far dilagare l’immane massa nera che vi si annidava, gorgogliante, dietro.
Non solo ero finito dentro un abisso; io stesso ero diventato l’abisso.
Quando capii di essere sul punto di impazzire, di mandare tutto al diavolo ed evadere dalla pantomima che avevo imbastito, la triste pagliacciata in cui avevo trasfigurato la mia vita, con la scusa di andare al bagno, uscii in balcone, dall’altro lato della casa, agli antipodi rispetto alla stanza da pranzo in cui tutti bevevano e gridavano numeri e Becca ballava forsennata insieme ai cuginetti.
Mi strappai il pullover di dosso e mi affacciai. L’aria era fredda, la pioggia esigua, il vento tormentava il tendone da sole. Io sudavo. Sentivo la camicia appiccicata al torace e alla schiena, sotto le ascelle, gli occhiali che scivolavano sul naso. Era tutto troppo. Tutto insopportabile. Una totale assenza di ogni cosa. Il trionfo del nulla.
E qual era la mia sola colpa? Desiderare un po’ d’amore. Un po’ di passione.
Volevo tornare a vivere.
Nient’altro che questo.
Volevo.
Lo volevo con tutto me stesso.
Babbo Natale non esiste. Su questo siamo tutti d’accordo, giusto?
Diamine, non esiste; non può esistere.
E allora chi venne a trovarmi, la notte della vigilia di Natale 2017? Chi sbucò fuori dall’angolo buio del balcone, mentre veniva giù una pioggerella spettrale e io mi stavo sbottonando la camicia incollata dal sudore? Chi emerse dal ventre della notte, la stessa in cui dovrebbe essere nato Cristo, la stessa in cui ci illudiamo di poterci realizzare, di poter essere felici, di poter ottenere pace, amore e salvezza?
Si palesò alle mie spalle e io ne percepii la presenza, ricollegandola immediatamente a quella stria luminosa che, pochi istanti prima, avevo visto tracciare una curva discendente nel cielo.
Ne sentivo addosso, sulle spalle, da cima a fondo, lo sguardo. In tutto il suo peso, la sua consistenza… il suo ardore.
È arrivata dal nulla. Tutta forme, tutta curve, l’incarnazione stessa del sesso più spinto e impulsivo. Quasi perlacea nel biancore della pelle immacolata. Senza un filo di trucco, eppure decisa nel tratto degli occhi, infuocata nel rosso delle labbra. L’abito rosso è pelle… umana, probabilmente, perché lo sguardo è quello di una fiera, una predatrice d’esseri viventi, d’esseri umani. Di uomini.
La pelle che indossa è scorticata, messa addosso in maniera tale da mettere in mostra il seno, da aderire sulle parentesi dei fianchi, da lasciar scoperte le lunghe gambe atletiche strette in calze a rete di filo spinato. Sono lame affilate gli altissimi tacchi delle scarpe nere. I capelli un caotico ammasso di ricci ramati. Le mani perfette, le dita che ti promettono carezze, graffi, e tutto quanto possa esserci nel labile e indefinito confine tra il piacere e il dolore – tutto ciò che appartiene al reame del godimento.
È tutta nera, come il desiderio più profondo, e bianca, come la perfezione più incontaminata, e rossa, come il desiderio più acceso, più furente, come il Natale, come la notte dei desideri per eccellenza.
È tutto ciò che si possa desiderare, che io possa desiderare, e anche di più. La materializzazione, l’incarnazione del mio ideale di donna, la personificazione di quel che ho sempre sognato senza aver mai l’ardire di cercare e men che meno di trovare – i seni piccoli e pieni, i fianchi ampi, le gambe slanciate, i capelli scuri e gli occhi azzurri.
È puro desiderio, è la Madre dei Desideri, e non può essere che donna – e non perché io sia uomo: Natale, dannazione, sta per “natività” – ed è dalla donna, che nasciamo, che nasce ogni vita, e non dall’uomo. È per questo, essenzialmente, che Babbo Natale non può esistere. Lui non potrebbe generare niente. È una donna. È una madre. Mamma Natale. Non può essere altrimenti.
Ed eccola qui, davanti a me, la sera della vigilia natalizia del 2017… e del 2018, 2019, 2020, 2021…
È qui, davanti a me, anno dopo anno – in tutta la sua densità, in tutta la sua compiutezza, in tutto il suo essere tutto ciò che voglio e tutto ciò di cui abbisogno. Tutto ciò – ci scommetto – di cui ciascuno di noi avrebbe bisogno.
È qui e mi si offre. È qui e mi fa suo. È qui e si rende mia.
Un cenno e mi piego. Mi dà quel che voglio, quel che mi tiene a galla, mi dà carne in cui affondare i denti, le dita, la bocca; mi dà un corpo in cui sprofondare. E io le do tutto me stesso, ogni singolo centimetro quadrato di me, ogni respiro e ogni battito, ogni muscolo e ogni fibra, ogni goccia di sangue e di sudore e di seme e ogni oncia d’anima. Lei, soddisfacendolo, si nutre del mio desiderio. E io lo sazio. È un circolo virtuoso, voluttuoso, un meccanismo infallibile, senza soluzione di continuità. Un uroboro. È infinito.
Io ho desiderato, ho voluto, ho bramato… e lei è venuta.
La vita è il suo regalo.
Lei mi dà quella fiamma, la fiamma della vita, l’essenza stessa dell’esistenza.
E io traino la sua slitta, insieme ad altri come me, cavalcando e ululando, sotto le sue fruste e i suoi artigli, sotto i suoi denti che si fanno spazio nel mio collo, nei miei fianchi, nei miei lobi, sotto la sua lingua che mi comanda, che lenisce le mie ferite, che mi disseta.
Sono il suo padrone e sono il suo cane, vivo in ambo i casi, vivo e vegeto come non mai.
Vivo, reale, me stesso.
Ci accendiamo di passione, esplodiamo in volo, tracciamo scie di desiderio dietro alle quali, giù nel mondo degli uomini, le persone esprimono altri desideri.
Desideri: deflagrazioni di volontà che, detonando, prima o poi trovano compimento, anche contro ogni legge della probabilità e criterio di comprensione. Desideri…
Mentre brucio, andando in fiamme insieme a lei, divorandoci e rigenerandoci per poterci ancora nutrire vicendevolmente, disegnando strie astrali sulla volta notturna, essendo strie astrali sulla volta notturna, acquisisco una convinzione che assume sempre più concretezza e peso specifico: gli esseri umani, le stelle, l’universo…
Il desiderio dev’essere fondativo della vita stessa.
Il desiderio è la madre di tutto ciò che esiste.
Il desiderio è la vita.
E brucia, mette tutto a ferro e fuoco, fiammeggiante.
Rosso.
Come il Natale.
Come Madre Natale.
Racconto di 90Peppe90 (2022)
illustrazione iniziale di Fabio Cavagliano
Allora, genio... A parte il fatto che mi sono totalmente ritrovato nei pensieri/monologo del protagonista (specie ultimamente), in un modo che mi ha procurato anche una certa inquietudine (altre volte, devo confessare, mi ha colpito nei tuoi scritti questo nostro “gemellaggio” d’idee), sono rimasto sorpreso dalla sua forza espressiva e semplicità. Il classico tema del triste natale, sì, fatto di solitudine e disagio interiore, ma con il tuo tipico switch finale che trasmuta tutta questa ribellione in qualcosa di meravigliosamente abominevole e oltreumano. Una pirotecnica, lacerante fusione con gli dei rappresentati dai nostri istinti primevi. Il desiderio di unirsi o far parte di qualcosa, per quanto apparentemente assurdo e doloroso… e, magari, destinato a finire.
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