mercoledì 7 agosto 2024

NINNA NANNA

Racconto di Rubrus

Abe Mantegna non poteva credere a quello che sentiva, tuttavia…
Tese l’orecchio – o meglio lo concentrò, distogliendo l’attenzione dallo smartphone, che si ostinava a non avere campo, sulla donna seduta al tavolo dall’altra parte del locale.
«Ninna nanna, ninna oh / questo bimbo a chi lo do / lo darò all’uomo nero / che lo tiene un anno intero».
Per la miseria, da quanto non sentiva quella filastrocca? Non pensava che la cantassero ancora.
Non avrebbero dovuto cantarla ancora.
Il bambino, però – Mario, aveva detto la madre poco prima, un nome che sembrava familiare e antico, come un’iscrizione dissepolta dalle sabbie – si era addormentato.
La donna si mise un dito sulle labbra, rivolgendosi al barista. Era un uomo alto e allampanato con occhi grandi e luminosi, come febbricitanti. Il Lucerna, lo aveva ribattezzato tra sé Abe, affibbiandogli lo stesso nome del bar – un lumicino lontano lontano perduto tra le ombre del bosco. Forse il locale aveva preso il nome dal proprietario (Abe avrebbe scommesso che barista e proprietario erano la stessa persona) o, meglio, dal soprannome del proprietario.
La donna si alzò tenendo il bambino tra le braccia e lo depose in una carrozzina lì accanto.
Abe l’aveva notata non appena era entrato nel locale, ma non avrebbe saputo dire perché avesse attirato la sua attenzione – era troppo occupato a imprecare e scrollarsi la pioggia di dosso. Ora però, era evidente: era una carrozzina, quella, non un passeggino. Non ne vedeva da un pezzo. Un oggetto anacronistico. Come il nome Mario. Come la ninna nanna.
«Dorme» disse la donna.
Il crepitio della pioggia sul tetto scemò. Non sarebbe durato – era già successo altre volte solo per riprendere più forte, ma Abe ebbe l’impressione che la tempesta avesse accolto l’invito della donna a fare silenzio. Allungò il collo, sbirciando dentro la carrozzina. Il bambino dormiva tranquillo, il lenzuolo candido sotto il mento, come una lettera spedita verso il mondo dei sogni.
«Quella canzoncina è magica» disse il Lucerna. Anche la voce era sottile, inadatta al mestiere di barista, pensò Abe, ma quel posto doveva essere vuoto quasi sempre, non solo nelle sere di pioggia.
«Non è una canzoncina» disse la donna.
«Credevo non la cantassero più» intervenne Abe. Avrei fatto meglio a stare zitto pensò, ma si sentiva ancora irritato. L’auto dal meccanico per la revisione, l’autobus costretto a cambiare percorso a causa di una frana in quell’estate che alternava colpi di calore a fortunali monsonici, la fermata sbagliata e la prossima corsa solo di lì a un’ora. Ce n’era abbastanza per far saltare i nervi a chiunque no?
«E perché?» chiese il Lucerna.
La donna si limitò a scoccargli un’occhiataccia.
«È una canzone vecchia» disse Abe, conciliante.
«E lei pensa che le cose vecchie non funzionino più?» insistette il Lucerna.
«Non è una canzoncina» ripeté la donna «e nemmeno una filastrocca» Aveva un viso spigoloso con zigomi pronunciati, con un che di felino.
Un tuono rimbombò, il bambino frignò e la donna prese a dondolare la carrozzina mormorando.
La melodia, anche se appena accennata, era perfettamente riconoscibile. "Lo darò all’uomo nero / che lo tiene un anno intero". Diavolo, ma a quale madre verrebbe in mente di dire una cosa simile a un bambino?.
«È uno psicologo infantile? O uno psichiatra?» chiese la donna.
Abe mostrò le palme in segno di resa «So solo quello che dicono».
Il Lucerna emise un risolino di scherno.
«So anch’io quello che dicono… ultimamente» fece la donna «Non sappiamo che cosa capiscano i bambini molto piccoli. Sappiamo che sentono la voce della madre sin da quando sono nell’utero, che la riconoscono… ma non sappiamo che cosa comprendano. Chissà, magari, proprio in questo momento, in qualche università, qualche professorone sta insegnando che, a parlare dell’uomo nero ai bambini molto piccoli, a parlare di mostri, si provocano chissà quali traumi. Oppure, addirittura, che si insegna loro ad essere razzisti».
Stavolta il Lucerna non riuscì a trattenere una risata di scherno. Mario, nella carrozzina, si agitò di nuovo e, di nuovo, la donna prese a dondolare e mugolare. 
Un tuono risuonò, ma più lontano.
Forse era la volta buona. Forse il temporale si stava allontanando. E forse Abe poteva andarsene da lì. Un’ora non era poi così lunga da passare. Controllò lo smartphone. Un quarto d’ora soltanto. Era passato solo un quarto d’ora da che lui era entrato nel bar “Lucerna”. Ma dannazione, persino il tempo, là dentro era… anacronistico?
«È così che la pensa, lei? Niente mostri per i bambini?» domandò la donna.
Forse è così che succede. Niente turbe sessuali represse, niente archetipi o traumi infantili. Solo parole udite senza comprendere, prima ancora che il cervello prenda forma, e... oplà… ti ritrovi con qualche fobia. O la strana idea che sulla tua spalla destra si trovi un angioletto invisibile. O che nell’alto dei cieli, o nelle profondità della terra, o nell’angolo più buio della stanza, là dove, fino a un istante prima, avevi creduto ci fosse solo un mucchietto di panni… e a ogni generazione il ciclo si ripete e le parole vengono tramandate come…
«Giada le ha fatto una domanda» disse il Lucerna.
«Non lo so» si arrese Abe «Non è il mio mestiere». Ma so che avrei fatto meglio a stare zitto.
La donna (Giada) sorrise e, se pochi secondi prima aveva dato l’impressione di possedere un che di stregonesco, quell’impressione si era dissolta. «Lei non ha molta esperienza con i bambini, vero?» chiese.
No. Nessuna esperienza. Niente fratellini o sorelline e nemmeno cuginetti/e. 
E ovviamente niente figli. Quella di Abe Mantegna era stata un’esistenza solitaria. Come una piccola casa sperduta nel cuore del bosco, con un lumicino appeso all’uscio che appare e scompare tra le fronde mosse dal vento.
Giada non attese riposta. «Io sì. Sono maestra. E le svelo un segreto» si chinò in avanti e parlò a voce così bassa che se anche Mario, nella carrozzina, si fosse svegliato, non l’avrebbe sentita.
«I bambini sanno già che i mostri esistono. L’hanno sempre saputo».
Un ricordo si fece strada fino alla coscienza di Abe. «Una volta ho letto che le favole servono a raccontare ai bambini che i mostri possono essere sconfitti». Già. Chi l’aveva detto, Chesterton?
Se ci fosse stato campo avrebbe controllato, ma la residua attività elettromagnetica nell’aria rendeva la rete irraggiungibile. D’altra parte, forse proprio per questo il ricordo era riaffiorato.
La donna si appoggiò nuovamente allo schienale della sedia «Sì» disse «È questo che le favole raccontano, signor…?».
«Abele» disse Abe. Non usava mai il suo nome per intero. Non gli piaceva. Il collegamento col fratello scannato nei primi capitoli della Bibbia era troppo immediato, tuttavia… sì, tuttavia. Sei in un posto dove le regole sono un po’ diverse. Un posto anacronistico. Fu colto da un pensiero angosciante. Come un tuono che fa sobbalzare. O una figura più scura del buio intravista là dove non dovrebbe esserci niente. Cercò un orologio alle pareti e non lo trovò. «Che ore sono?» chiese « Devo prendere l’autobus che torna a valle, cambiare e salire su quello diretto a...» all’ultimo momento si trattenne. «Casa» disse semplicemente.
«Si è perso?» chiese il Lucerna.
«Più o meno» rispose Abe. Sì, per favore, parliamo degli orari degli autobus, del tempo che non è più come una volta o dei campionati europei di calcio, almeno non avrò la sensazione di essere finito in una favola dei fratelli Grimm. «Le piogge hanno fatto saltare alcune corse e cambiare i percorsi, ma sul web, niente è stato modificato, così, anziché quello diretto a casa mia, ho preso l’autobus che viene quassù. Adesso mi tocca scendere e riprendere la linea giusta».
«Ma è l’ultima corsa» disse il Lucerna.
«Se perde quella...» intervenne Giada.
«...si smarrisce» proseguì il barista.
«...e non è bello smarrirsi» concluse la donna.
Il bambino cominciò a piangere. La donna fece dondolare la carrozzina, ma non servì. Dopo un po’ riprese a mugolare, quindi a canticchiare. «Ninna nanna, ninna oh / questo bimbo a chi lo do / lo darò all’uomo nero / che lo tiene un anno intero...».
«Lei crede all’uomo nero?» chiese il Lucerna.
Prima che Abe potesse rispondere, Giada parlò. «Tutti ci credono. Tranne quelli che sanno».
I tuoni erano lontani, ormai, come un rotolare ligneo sulle nubi. Mario aveva smesso di piangere.
«Cosa dice quel canto, quello che non le piace? ”Se non dormi, ti do all’uomo nero”» proseguì la donna «Il seguito varia: la mamma, la nonna, Gesù bambino, il santo di turno perché, si sa, le favole devono finire bene… ma l’uomo nero c’è sempre». Lasciò il bambino, che si era rimesso a dormire, e continuò a voce bassa, come una gatta che fa le fusa o una strega che lancia un incantesimo. «Ma si può, seriamente, costringere se stessi ad addormentarsi? La mamma sta rivolgendo al bambino una richiesta impossibile… e lo sta minacciando se non ubbidirà... so che cosa sta pensando, signor Abele».
È così che educhi i tuoi alunni, signora maestra? A suon di minacce e storie spaventose?
Indovinato: è proprio questo che sto pensando e, se proprio vuoi, te lo dirò. E aggiungerò che è vecchiume da gettare. Te lo dirò perché io non credo nell’uomo nero. Non più. Soprattutto non voglio crederci.
«Ma i bambini scompaiono» proseguì la donna «In passato la mortalità infantile era altissima, 
ma anche oggi...».
«Teresa nel ‘95, Claudio nel 2001, Antonia nel 2008. Marcello nell’11, Serena nel ‘18… e sono quelli di cui mi ricordo» la interruppe il Lucerna.
«Ci sono i figli degli immigrati, quelli di cui non si tengono statistiche e che non finiscono in TV. E poi le morti in culla, quelle che non si sanno spiegare. 
E quelle che non si vogliono spiegare» proseguì lei.
Il Lucerna concluse: «Da queste parti è facile perdersi. Ma è meglio non succeda».
«Un simbolo della mortalità infantile» disse Abe. 
Si accorse di respirare pesantemente, come se, anziché prendere l’autobus, avesse fatto a piedi la strada che lo aveva portato fin lì. Un maledetto sentiero nel bosco. «È una spiegazione» Come anche che voi due siete matti da legare. Cercò con lo sguardo l’orologio che non c’era. Il Lucerna gli strizzò l’occhio «Tranquillo per l'autobus, amico: sarà puntuale. Anzi, gli piace arrivare in anticipo».
«I bambini scompaiono» ripeté la donna «E questo è un fatto, non un simbolo. Così, se proprio qualcuno deve sparire, è meglio che sia il figlio di qualcun altro e non il tuo. O, se proprio deve essere il tuo, perché una volta le famiglie erano numerose: sei figli, o otto, o dieci, è meglio che sia quello che dà dei problemi, che non ubbidisce». Si chinò sulla carrozzina e osservò il bambino dormire. Un sorriso dolce, amorevole, che lasciava scoperti piccoli denti bianchi e appuntiti. «Un incantesimo. Un’evocazione, ammesso e non concesso che sia necessario evocare qualcosa che è sempre presente e che ti osserva mentre dormi aspettando il momento per ghermirti. O che tu gli venga offerto in sacrificio».
Sì, è così che fa. L’ho visto per anni, da quando ne avevo cinque, ma forse anche prima. E l’ho visto per molto tempo dopo, almeno fino agli otto, quando ho avuto una sorta di convulsione cerebrale, o apnea notturna, o attacco epilettico, o chissà cosa e sono rimasto in coma per un anno. È così che fa. Ti tiene un anno intero. Una figura più scura del buio, là nell’angolo della stanza dove, fino a quel momento, credevi ci fosse un mucchio di panni arrotolati.
Si udì un ruggito che mai avrebbe potuto essere scambiato per un tuono del temporale ormai dissolto, poi uno stridio di (freni) e un sibilo potente e sommesso, come di un (autobus che si ferma e portiere che si aprono) immane serpente.
«È arrivato» disse il Lucerna.
Abe lo scorse sulla soglia.
Non direttamente, no, ma, come sempre, con la coda dell’occhio.
Era arrivato l‘uomo nero.
Abe non gridò, non accese la luce, che era già accesa, non chiamò la mamma – che era sottoterra da anni e che forse, gli suggeriva un angolo maligno del suo cervello, non era una buona idea chiamare. Chiuse invece gli occhi in un ultimo, disperato atto di fede nel mondo razionale e recitò l’unico incantesimo che conoscesse: tu non esisti.
Quando li riaprì e li puntò là dove era apparso, l’uomo nero era ancora lì.
Abe non si rammaricò del fallimento della formula magica. Non aveva mai funzionato e questo tutti i genitori lo avevano saputo da quando i fuochi all’imbocco delle caverne si spegnevano e l’oscurità si faceva impenetrabile e fredda.
L’uomo nero avanzò e questa sì che era una novità. Forse con i bambini si limitava a osservare minaccioso; quando aveva a che fare con gli adulti era tutta un’altra faccenda. E poi Abe gli era stato promesso da tempo, probabilmente da quando gli era stato dato quel nome… sì... anacronistico.
Perciò, a differenza di quando era bambino e metteva la testa sotto le coperte, o rimaneva paralizzato a cercare di distinguere un’oscurità dall’altra, gli occhi spalancati come finestre senza vetro, Abe fuggì.
Corse verso una porta dietro il bancone del bar e che ignorava dove conducesse.
L'uomo nero lo inseguì.
Sembrava scivolare, come se sgusciasse tra le pieghe delle realtà.
Un istante ed era un’ombra sotto un tavolo, un battito di ciglia ed eccolo come macchia sul soffitto... poi raggiunse i piedi di Abe. E stavolta lui gridò, come se una belva gli avesse dilaniato le carni.
Ci fu una specie di turbinio, un vortice di ombre, luci e altro ancora, forse ciò che costituisce il novantacinque per cento dell’esistente e che ancora non riusciamo a comprendere – né forse mai vi riusciremo.
L’uomo nero torreggiò sopra Abe.
Era alto due metri, due metri e mezzo, le gambe un unico fuso oscuro, artigli adunchi al termine di lunghe braccia serpentiformi, la testa un bulbo ovale e famelico senza lineamenti e senza espressione.
Un momento ancora e fu impossibile distinguere l’uno dall’altro.
Un’ombra, o l’eco di un’ombra se le ombre potessero avere un’eco, ristette un attimo nell’aria, ma era possibile scorgerla solo se si guardava con la coda dell’occhio e, ben presto, non vi fu più neanche quella.
Il barista emise un lungo sospiro, come se fosse giunto al termine di una lunga giornata di lavoro, e il bambino si lamentò come se qualcosa gli facesse male o lo avesse spaventato. La donna fece dondolare la carrozzina, poi, visto che non smetteva, lo prese tra le braccia e iniziò a ninnarlo dolcemente, con amore.









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2 commenti:

  1. Se perdi la corsa in un territorio che non conosci, magari ti ritrovi a ripercorrere sentieri poco sicuri. Zone che credevi di avere rimosso dalla tua mente. A me quell’ uomo nero, con il suo novantacinque per cento di realtà che ignoriamo, mi ha fatto subito venire in mente la materia oscura, l’ignoto che forse è meglio disconoscere. Ottima storia, comunque. Ti ringrazio per avermi concesso di pubblicarla, Roberto.

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  2. Be' l'uomo nero, come molti altri esseri immaginari, si vede e non si vede, e la vista è il nostro principale mezzo di conoscenza, per quanto imperfetto. Peccato che, appunto non sappiamo quasi nulla della stragrande maggioranza di ciò che esiste -e non a caso definiamo "oscura" quella parte di realtà che ignoriamo.

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