Il segreto dell'oro

 


Racconto di Giuseppe Vitale

GrifabioCavaglini, noto ai più come Mastro Grifabius, riconobbe l’identità della persona alla porta già al solo sentire lo sferragliare della pesante chiave dentro la vecchia serratura. Non che ci volesse particolare intuito, abilità o specifiche conoscenze paranormali, per riuscirci: esisteva un’unica chiave per la serratura di quella porta, e una singola persona la deteneva; inoltre, erano appena in due gli individui edotti della presenza di Grifabius all’interno di quell’edificio. L’altra – quella non in possesso della chiave – poteva recarsi nelle stanze sotterranee dell’alchimista italiano esclusivamente dietro espresso ordine del detentore della chiave, nelle ore buie, e a patto di bussare secondo una consecutio di colpi scandita in un determinato ordine.
«Buonasera, cardinale», salutò Grifabius, senza neanche voltarsi verso l’ospite. «È in anticipo. Di nuovo.»
Il cardinale Toscanus, padrone di quel miserrimo castello diroccato in quella povera, arretrata, selvaggia landa a nord-est del continente, nonché proprietario degli esigui appezzamenti che si estendevano là fuori, avanzò nella stanza stipata di libri, pergamene, attrezzi e alambicchi, solamente dopo aver richiuso la porta nascosta alla fine della scalinata che collegava le segrete agli spazi di superficie del palazzo.
Grifabius se lo figurava perfettamente davanti agli occhi della mente: alto e scarno, pallore cadaverico a eccezione delle narici alla base del naso adunco cosparse di capillari spezzati, una mappa di sentieri rossi nel terreno arido del volto, avviluppato nelle sue tonache ruvide e grezzamente abbellite di ricami argentei che facevano il paio con i rozzi anellacci di poco valore che gli ingioiellavano le dita scheletriche. Dita che prediligevano stringersi intorno a calici di vino, monili grossolani e carnidi giovane età, come lo erano quelle del suo imberbe attendente, ossia l’altra anima viva a conoscenza del residente occulto.
«La nostra collaborazione continua a rivelarsi infruttuosa?»
«Ogni frutto necessita delle proprie tempistiche per poter giungere a maturazione, cardinale.»
«Ammiro la tua pazienza, alchimista.»
«Ma non la condividete», ribatté, solerte, Grifabius: l’impazienza del chierico, che era andata montando gradualmente nei mesi, promanava anche dal suo eloquio intaccato da spire di nervosismo che non riusciva a schermare del tutto. «Motivo per cui, immagino, le vostre visite si stanno facendo più frequenti, di recente.»
«Sei mesi», scandì Toscanus. «Più di centottanta giorni.»
Sì, sono abbastanza capace di far di conto, ironizzò, sarcastico, l’alchimista, seguitando a stazionare davanti ai grossi tomi spalancati sul tavolo da lavoro, tra le fiale fumiganti e le varie paia di occhialetti circolari, voltato spalle al chierico. «Il nostro patto parlava di un anno, vostra eccellenza», gli rammentò. «Ci resta ancora la metà del tempo pattuito. Altri centottanta giorni almeno.»
«“Patto”, alchimista?», rintuzzò il cardinale Toscanus, il cui caratteristico sguardo febbricitante manifestava brame di possesso e ricchezze alquanto ardui da rintracciare, in quella parte di mondo dove era stato inviato dalla Santa Sede più di cinque anni addietro. «Trovo che sia un termine eccessivamente forte. Fuori luogo, aggiungerei.»
Grifabius si allertò. Sentì i muscoli del trapezio irrigidirsi. Andò avanti a scorrere le pagine dei libri – volumi proibiti, perlopiù messi all’indice, eppure appartenenti alla Chiesa e messigli a disposizione dallo stesso Toscanus – seguendone le righe con la vista, ma smise di leggere davvero. Non gli piacque il tono assunto dal suo interlocutore. Non gli piacque affatto. All’impazienza s’era aggiunto un altro ingrediente. Una punta di fare accusatorio.
«Un accordo, alchimista, questo sì – te lo concedo.»
«La sostanza cambia poco.»
«Mutamento delle sostanze – questa è la tua materia, certamente. Ma lascia che ti illustri. Il patto implica un’alleanza», spiegò Toscanus, tagliando gli spazi tra una parola e l’altra; lui, dal canto suo, andò involontariamente a destinare uno sguardo sul disegno appeso sulla parete sopra il tavolo di lavoro. «Quella, per esempio, che prevede la garanzia della vita eterna in cambio della fede e che Nostro Signore ha stretto con noi miseri umani. Ma io e te, alchimista, non siamo alleati.»
«E cosa siamo, allora, reverendo?» Sapeva che Toscanus non apprezzava particolarmente che ci si appellasse a lui con quell’epiteto, al quale preferiva quello di “vostra eccellenza”. Ma c’era un mucchio di cose che Toscanus non apprezzava, o addirittura disprezzava. I pagani, per esempio, come erano considerati gli stessi alchimisti.
«Nemici naturali», fu la risposta algida – e affrettata – del cardinale. «Due realtà agli antipodi, quanto di più diverso possa esistere nel creato, che hanno definito un accordo», proseguì, per poi perfezionare: «Unatregua
Una “tregua” di dodici mesi, caro il mio bastardo intonacato, e non di sei, precisò Grifabius nella sua mente, spostandosi verso l’angolo sulla destra, dove finse di riflettere sul dipinto che stava realizzando in quei giorni, agganciato su un cavalletto. Ritraeva un angelo blu, sebbene secondo regole prospettiche e componenti topologiche, eidetiche, cromatiche completamente estranee alle correnti pittoriche del tempo. Al punto che, probabilmente, nessuno spettatore avrebbe potuto collegare il soggetto nella tela a un angelo. Di sicuro, però, quello stesso spettatore avrebbe trovato più sensato questa composizione alla rappresentazione inchiodata alla parete.
«Un patto, reverendo», disse l’alchimista, «può essere stretto anche col Diavolo.»
«È questo che sei?» Dal tono assunto dalla voce dell’ecclesiastico, Grifabius desunse che questi stesse sorridendo – anche se, ad onor del vero, il cardinale Toscanus non era capace di sorridere strictusensu; più che altro, si trattava di un tendere gli angoli della bocca scoprendo una chiostra di denti minuti e claudicanti. «Il Diavolo?»
«Ogni uomo ha i suoi diavoli, reverendo padre.» Sapeva pure che “reverendo padre” era una formula che Toscanus, di origini mitteleuropee ben evidenziate dal suo accento duro, disdegnava ancor di più del semplice “reverendo”. «E non trova pace fino a quando non li esorcizza… o se ne fa possedere.»
Le corde vocali di Toscanus vibrarono una nota di secco dileggio, sferzante. «La consueta loquela arcana di voi alchimisti», osservò con impeto. «Tuttavia, trovo il senso di queste tue parole sufficientemente eloquente. Tanto basta, come confessione.»
«Confessione?», ripeté Grifabius, girandosi di scatto, per assicurarsi di aver udito bene.
Il cardinale Toscanus non gli rispose. Invece, alzando il volume della voce in modo perentorio, ordinò: «Entrate!»
La porta si spalancò, aperta – per la prima volta in quegli ultimi sei mesi – da persone che non erano il padrone del palazzo o l’unico altro individuo autorizzato. Due guardie armate di sciabola. Una terza che presidiava la soglia. Nessuna via d’uscita, per Mastro Grifabius.
Solamente lame e fruste.

 
Grifabius aveva cambiato spesso dimora, in vita sua, senza mai trovare un posto che riuscisse a chiamare, e prima ancora a sentire, casa. Per la verità, non ne aveva mai cercata una, di casa. Non aveva mai sentito il bisogno di determinare un punto di riferimento più o meno fisso, che si trattasse di una casa o di affetti umani. La sua vita era stata una ricerca pressoché continua, sì, ma di ben altre necessità.
In virtù di questo, era stato contattato dal cardinale Toscanus; in virtù di questo, certo, e in virtù delle necessità dello stesso signore del castello che, nei precedenti sei mesi, aveva ospitato, in gran segreto, la presenza di Grifabius.
L’alchimista doveva ammettere di aver gradito la sua permanenza in quel di Kështak, grazie alla gran mole e varietà di strumenti, sostanze ed elementi, manuali; per viadel silenzio e della riservatezza; per la possibilità di esplorare, sebbene a piccole dosi e perlopiù in periodi serali o notturni, quei luoghi remoti, ancora distanti dalla industrializzazione cavalcante dei grandi centri europei, luoghi colmi di misteri ancora da scoprire e comprendere.
Ma quel periodo era scaduto anzitempo, ed ecco che Grifabius aveva nuovamente cambiato – seppure forzatamente – sistemazione. E poteva giurare di non averne mai avuta una tanto scomoda e infelice. Sin dalla sera dell’arresto e per i tre giorni seguenti, infatti, gli era toccato il supplizio dell’imitazione di Cristo.
Aveva dovuto dare un brusco addio alle candele delle sue camere, ai vapori e agli incensi, alle meditazioni e alle misurazioni, agli studi e agli approfondimenti, ai discernimenti e ai viaggi interiori, all’osservazione degli astri, alle passeggiate tra i boschi e alla lettura delle carte e delle interiora di colombo, ai suoi pennelli e alla sua tavolozza, all’immagine dalla geometria impossibile affissa allaparete, alla pace della solitudine interrotta unicamente dalle visite periodiche del traditore e, più saltuarie, del giovane Denis.
La sua nuova abitazione consisteva in un palo di legno lungo due metri, fissato in verticale sulla rupe nei pressi della quale sorgeva il modesto maniero di Kështak, e al quale lui era stato assicurato mani e piedi. A Grifabius, accusato pubblicamente di eresia la sera stessa dell’arresto, erano state praticate delle lunghe ma superficiali incisioni dietro le orecchie, ai polsi e dietro le ginocchia, e tra le dita di mani e piedi, così da consentire un deflusso lento, quasi inconsistente, di sangue; questo avrebbe attirato tutta una serie di animali, dai corvi agli insetti, passando per ratti e pantegane, che si sarebbero messi a beccare, rosicchiare, pungere.
La versione ufficiale di quella prassi inquisitoria prevedeva che l’accusato venisse appeso a una croce rovesciata, aumentando in tal modo l’afflusso di sangue alla testa e rendendo più corposa, sebbene comunque lenta e inesorabile, la fuoriuscita di sangue.Ma nei territori più periferici dello Jashtëpyll si badava all’essenziale pure in quei casi.
«Alla fine di questi tre giorni, sarai interrogato sui tuoi peccati e ti verrà concessa l’occasione di ritrattare le tue posizioni eretiche», aveva declamato il cardinale, nonché autorità locale, quando le guardie avevano finito di collocare Grifabius sul palo. «Se lo farai, vorrà dire che, come a Cristo occorsero tre giorni per resuscitare, lo stesso quantitativo di tempo sarà stato bastevole alla tua anima, e alla coscienza cristiana custodita in essa, per risvegliarsi. In caso contrario…»
Be’, sicuramente sarebbe stato ucciso in qualche modo, ma Grifabius aveva smesso di ascoltare. Era stato in grado di chiudersi in sé stesso, nella dimora più intima e confortevole che avesse mai sperimentato, là dove era solito recarsi per trovare l’ispirazione, alla ricerca di una risposta alla scellerata decisione operata dall’avido cardinale Toscanus e, se possibile, a una via d’uscita da quella situazione dolorosa. Il dolore, infatti, fu l’unica cosa che non riuscì a escludere dall’esperienza del suo corpo. Avvertiva il bruciore delle ferite aperte, l’indolenzimento degli arti e della schiena anchilosata, i becchi dei corvi che scavavano nella carne esposta, gli incisivi dei topi che, nottetempo, venivano a rosicchiargli caviglie e punta delle dita. Tutto il resto, invece, lo eliminò dal suo apparato ricettivo. Niente suoni, niente rumori, niente colori; non badò, dunque, agli improperi e alle preghiere sussurrati dalla sparuta folla che, ogni sera, partendo in processione dai villaggi alle pendici del castello, si riuniva nei pressi del pagano per trarne monito e insegnamento, per implorare all’Altissimo la salvazione della sua anima o per augurargli un’adeguata punizione giù all’Inferno.
Per quanto ripercorresse gli accadimenti del suo recente passato, tuttavia, non trovava responsi credibili; per quanto analizzasse il suo essere stato accusato, imprigionato ed esposto in pubblico, parimenti, non vedeva come potersi districare dai legacci che vincolavano il suo destino al palo eretto su quella rupe desolata.
 
«Maestro! Maestro!»
In qualche modo, l’isolamento di Grifabius venne permeato dal suono di una voce familiare. Soltanto una persona, in quella parte di mondo, si rivolgeva a lui con il solo titolo di “maestro”. Una persona che aveva dimostrato sincera ammirazione per lui, per le sue passioni, per il suo modo di vivere. Tutte cose dalle quali, tuttavia, Grifabius aveva cercato di proteggere quella stessa persona. Capiva il fascino che la Via Alchemica poteva esercitare su alcuni individui, al pari di come comprendeva il terrore che poteva suscitare in molti altri soggetti, ma Grifabius sapeva altresì che né gli uni né gli altri avevano davvero idea di cosa significasse intraprendere quella strada. Fatto di non secondaria importanza, poi, non aveva mai avuto la benché minima inclinazione a prendere un discepolo sotto la propria ala protettrice. Reputavaassai presuntuosi i maestri, di qualsiasi arte e materia essi fossero: una vita terrena era abbondantemente insufficiente per imparare, figurarsi quanto lo era per illudersi persino di insegnare qualcosa al prossimo.
L’italiano aprì gli occhi per la prima volta da quando era stato trasferito lassù. Faticò a tenerli aperti, nonostante fosse notte. Il pallore argentino della luna gli flagellò i bulbi oculari. Riuscì ugualmente a scorgere la minuta sagoma della persona che lo aveva raggiunto, anche se gli ci volle una manciata di minuti per sovrapporre le due figure duplicate, inizialmente sdoppiate.
Denis vestiva di lana rozza, nera, aveva lunghi capelli dello stesso colore e occhi chiari che spiccavano sulla sua carnagione nivea. Aveva undici anni, ma era alto quanto un ragazzino di quindici, polsi esili e lunghe dita affusolate, come dovevano piacere al cardinale. Era stato portato lì dalla Francia, da un paesello di contadini, insieme a un’altra manciata di bambini della sua età. La scelta era stata operata espressamente da Toscanus e, in termini ufficiali, Denis si trovava lì come assistente personale del cardinale.
Il giovinetto ricordava poco delle sue origini, della sua famiglia, o almeno così sosteneva. Grifabius riteneva, piuttosto, che il ragazzino si sforzasse di rimuovere il ricordo dei suoi cari perché incapace di perdonare ed elaborare il fatto che i genitori avevano deciso di separarsi dal mezzano dei sette figliin cambio di qualche indulgenza. O questa, comunque, era l’idea che si era fatto in base ai racconti del giovane.
Gli suonava falso anche l’orgoglio che Denis ostentava nel parlare del suo ruolo all’interno di quel castello sperduto in quell’area altrettanto sperduta del mondo. Grifabius non credeva affatto che Denis, operando alle dipendenze del cardinale, affiancandolo nellesemplici attività quotidiane presso le stanze del prelato o recandosi nei sotterranei a informarsi sui progressi delle ricerche di Grifabius, fosse convinto di stare assolvendo un compito gradito agli occhi di Dio. Non avrebbe mai manifestato, altrimenti, quella smania di evasione sotto forma di interesse, pressoché ammaliato, nei confronti della Via Alchemica. Non lo avrebbe incalzato con tutte quelle domande e ipotesi fantasiose.
«Ragazzino», lo salutò Grifabius, riscoprendosi perfettamente capace di articolare parola, la voce nitida nonostante le brucianti fitte provenienti dai tagli che gli erano stati aperti addosso. Non aveva mai chiamato Denis per nome, appellandosi a lui sempre e solo nei termini di “ragazzino”. Si guardò intorno: lo sperone di terra brulla sul quale era stato affisso era deserto. «Cosa ci fai qui? Il tempo della processione è passato da un pezzo. Se il reverendo dovesse cercarti…»
«Il cardinale Toscanus è l’ultima delle mie preoccupazioni», dichiarò Denis, con fare determinato, e quella solita luce adulta negli occhi – lo sguardo di chi, per quanto ancora di tenera età, abbia già vissuto le peggiori avversità della vita; lo sguardo di chi, proprio in ragione di ciò, pensa di saperne una più del suo interlocutore. «E credo che adesso sia anche l’ultima delle tue, di preoccupazioni, maestro.»
Un gufo bubolò da qualche parte, nella boscaglia che partiva nei dintorni, estendendosi a perdita d’occhio verso declivi aspri e desolati. La luna rifletteva una luce diamantina, abbacinante, che metteva a dura prova il senso visivo dell’alchimista. Le stelle parevano febbricitanti gocce di sudore che stillavano riflessi strinanti sulle ferite dell’imitazione di Cristo. Tornato in superficie, riemerso dagli abissi di sé stesso, Grifabius veniva ora investito in pieno dai patimenti delle incisioni sul suo corpo, aggravate dagli appetiti delle creature notturne che erano venute a fargli visita, e dalla spossatezza che aveva preso possesso del suo organismo a causa dell’importante perdita di sangue. Avrebbe potuto trasformare il dolore. D’altronde, tutto, in quell’universo, era soggetto al cambiamento. Ogni cosa mutava. Anche il dolore. Ma lui lo accettò. Lo sopportò. Tutto quel dolore gli sarebbe tornato utile.
«Su una cosa hai ragione, però», riprese il giovane, parlando la lingua locale mantenendo quella cadenza delicata, tipica del francese. «Non dovrei stare qui. Non dovrei parlare con te.»
«Eppure lo stai facendo», contrappuntò Grifabius, che aveva appreso la lingua del posto e la padroneggiava bene al pari di molte altre, al punto da poter celare qualsiasi dettaglio che potesse denunciare le sue origini geografiche. «Hai qualcosa da dirmi. Sospetto che sia così… da tempo. E adesso è giunto il momento. Dico bene?»
Denis – gli occhi e le orecchie di Toscanus, che sgattaiolavano di frequente fino a Grifabius, onde evitare che le discese del presule dessero troppo nell’occhio e insospettissero qualcuno al castello – annuì. L’ombra di un sorriso aleggiava sul volto dai tratti lievi nel chiaroscuro della notte stellata. Un sorriso che non comunicava sicumera o dileggio. Una flebile ma percettibile flessione delle labbra – le stesse labbra che tante volte erano state sfiorate dalle dita dinoccolate o leccate dalla lingua spugnosa o assaggiate dalla bocca umettata di Toscanus – che Grifabius aveva imparato a conoscere. Lo aveva visto affiorare, infatti, nelle varie occasioni passate in cui Denis era andato a trovarlo nelle segrete del palazzo, seguendo i suoi silenziosi studi ed esperimenti, osservandolo dipingere o calcolare le coordinate per la pietra filosofale o scandagliare le insondabili geometrie appese al muro, affiancandolo mentre vergava le parole trasmutanti o accoppiava rime in idiomi defunti, scambiandosi battute sull’esistenza di Dio e sul posto dell’uomo nell’immensità dell’esistenza.
«A dire il vero, avrei tantissimo di cui parlarti, maestro», gli svelò Denis, e il sorriso si accentuò appena; non perché il giovane se ne vergognasse, questo GrifabioCavaglini lo capiva bene, quanto perché, più che altro, si trattava di un gesto tanto spontaneo da riuscire nell’impresa di sfuggire all’impressionante gabbia di autocontrollo di cui quel ragazzino era dotato. «Ma il tempo stringe e la tua vita è agli sgoccioli. Tutto quello che posso dirti è una spiegazione, racchiusa in tre sole parole, e se mi trovo qui a riferirtele è per la forte ammirazione che nutro nei tuoi confronti.»
Ammirazione. Ecco la traduzione di quel sorriso. Durante quelle lunghe, sparute ore trascorse insieme, nei sotterranei di Kështak, Denis non si era affezionato all’uomo che chiamava “maestro”. Provava ammirazione per lui. O, come aveva già intuito Grifabius, per i sentieri misterici della Via. Una fascinazione che non solo l’alchimista aveva dedotto, ma che comprendeva alla perfezione. Nessuna novità, pertanto. Quanto al resto…
«Cosa hai da dirmi, ragazzino?»
L’alone del sorriso sul viso di Denis rimase immutato nel pronunciare la formula tanto temuta in lungo e in largo nell’intero continente: «L’Occhio vede.»
 
«GrifabioCavaglini.»
La voce baritonale che declamò il nome dell’uomo esposto allo sguardo di tutti mise a tacere il brusio della folla. Anche i tordi che stazionavano sui rami al limitare del bosco tacquero. Quando l’ordine parla, il creato ascolta – o almeno ciò era quanto affermavano i chierici in quella parte d’Europa. Se non altro era una bella illusione con cui baloccarsi quando si viveva in luoghi sì remoti e selvaggi.
«Siamo qui riuniti, oggi, per processarti pubblicamente a causa dei tuoi peccati», riprese la voce, appartenente al cardinale Toscanus, alle spalle del quale si ergeva un dispiegamento di guardie armate e il parroco locale. «Peccati di cui abbiamo appurato la sussistenza, e dei quali adesso devi rendere conto e ragione dinnanzi ai buoni fratelli e sorelle che, ignari, hanno accolto una serpe in seno nel corso dell’ultimo anno del Signore.»
L’innocente gregge in questione rappresentava la scarna popolazione di Kështak, umile villaggio alle pendici dell’omonimo castello, dove l’accusato, undici mesi prima, aveva trovato sistemazione e riposo dalle sue lunghe peregrinazioni. Un gregge che lo aveva ben voluto, e che lui aveva imparato a conoscere, reputandolo alla stregua di una grande famiglia – con tutto il conseguente carico di affetto, solidarietà, stima ma anche incomprensioni, invidie e dissapori. Un gregge che d’innocente aveva ben poco. Come tutto il resto, d’altronde. L’innocenza era un concetto astratto, una parola che poteva andar bene per i sermoni religiosi e gli ingenui, ma che non trovava alcun riscontro nella realtà. La realtà aveva, al contrario, la tendenza a pervertire tutto ciò che, in potenza, poteva essere innocente.
«In nomine Patris, et Filii, et SpiritusSancti», intonò Toscanus nella sua perfetta dizione latina che trovò risposta nell’unica espressione latina conosciuta dal piccolo volgo del villaggio: «Amen
Grifabius, legato al palo del rogo, al di sopra del cumulo di legna ancora spenta, passava in rassegna, uno per uno, i volti dei presenti; si focalizzò soltanto sulle persone autoctone, ignorando volutamente il contingente armato che fungeva da guardia cardinalesca. Volti noti, volti amici, ora cupi, ora furiosi, ora timidi. Lui non incolpava nessuno di loro. I colpevoli, quelli veri, erano denotati dai paramenti, dalle armature e dalle spade, e sfoggiavano un ottimo latino. Non che gli altri fossero innocenti. Nessuno lo era.
«GrifabioCavaglini, in certi ambienti meglio conosciuto come “Mastro Grifabius”, le accuse nei tuoi confronti sono gravi e molteplici: paganesimo ed esoterismo, sostenimento di teorie antidogmatiche, libertinaggio, realizzazione di opere degenerate, traviamento della morale comune, sedizione e oscenità, vilipendio dell’iconografia sacra, ateismo.» Il ghigno tirato sul volto essiccato di Toscanus era forzato, vacuo. Così come quando lo aveva fatto prendere in custodia dalle sue guardie, neppure adesso Grifabius rintracciava la caratteristica aria di superiorità che il cardinale era solito ostentare nei confronti del prossimo, a cominciare dallo stesso alchimista.C’era un che di artificiale, di macchinico, che lo faceva rassomigliare a un automa, a un golem assemblato, plasmato sulle sembianze dell’alto chierico. Era come se si stesse attenendo a un copione che era obbligato a seguire ma che avrebbe volentieri saltato a piè pari. «Da Milano a Roma, da Venezia a Vienna, da Praga a Londra, da Monaco alla Capitale. Il tuo è un pellegrinaggio le cui tappe sono macchiate da questi e altri peccati. Su tutti, spiccano i rituali alchemico-satanici e i sabba neri, che hanno tuttavia trovato conclusione nel cuore dello Jashtëpyll: qui, figliole e figlioli», andò avanti il sermone accusatorio del cardinale, «le malie del Nemico sono state smascherate e sottoposte alla prova dell’imitazione di Cristo.»
Teste si chinavano, altre annuivano, alcune voci mormoravano: loro sapevano, e in ciascuna delle tre notti si erano recati in pellegrinaggio, chi a pregare per la salvazione, chi a supplicare la liberazione, chi a maledire, chi a piangere, chi a schernire. Tra quelle teste, tra quelle sagome, tra quei volti, Grifabius cercò, con scarsa convinzione, l’effige di Denis. Non la trovò.
«Adesso è il momento della verità», tuonò Toscanus nel terso, tiepido mezzogiorno di Kështak, il maggiore per estensione degli scarsi appezzamenti di terreno sotto il protettorato dell’ecclesiastico trasferito, senza troppi complimenti, ai margini della potestà papale. «GrifabioCavaglini, che sei arrivato ad asserire di essere tu stesso il Malvagio di cui noi ripudiamo persino di proferire il nome, usa la parola di cui Nostro Signore Gesù Cristo ci ha fatto dono distinguendoci così dal resto delle Sue creature e di’ a noi tutti, tuoi fratelli e tue sorelle qui riuniti: ti sei pentito e hai rinunciato al Male?»
Fu come se la folla avesse trattenuto il fiato all’unisono. Un silenzio carico di tesa speranza; una speranza a due teste: anelito alla salvezza, da un lato, e desiderio di colpevolezza, dall’altro. La povera gente dello Jashtëpyll si nutriva soltanto degli esigui frutti di quella terra e della fede somministrata loro da tonache in grado di leggere un libro rivolto a tutti ma, al tempo stesso, la cui lettura era appannaggio di pochi. Gli abitanti del villaggio avevano dunque bisogno di un segno sulla veridicità del libro. Quale che fosse la valenza di quel segno, se positiva o negativa circa le sorti di GrifabioCavaglini, poco o nulla importava.
«Hai mandato un ragazzino a chiamarmi – lo stesso con cui ti trastulli durante le lunghe, ossessive notti solitarie e fredde, quando il tormento di essere stato spedito in un luogo tanto misero e in totale antitesi con la tua smania di ricchezza trova il suo picco massimo», rispose invece Grifabius, spiazzando ognuno dei presenti accorsi al giudizio definitivo che pendeva sul suo capo, e trasse un sospiro di sorpresa dal capannello formatosi nell’arco della mattinata che i quattro uomini della guardia armata del cardinale avevano speso allestendo l’occorrente per il rogo. «E non sforzarti di urlare, reverendo padre, perché sarebbe fatica vana: la tua lingua è pietra, adesso, e lo resterà nei pochi minuti che ti restano da vivere.» Ai margini del suo campo visivo, Grifabius scorse due delle guardie di Toscanus mettere mano alla semplice elsa delle loro modeste spade. Il tentativo durò poco: tanto questi quanto gli altri due componenti della forza armata e la restante parte degli uomini, delle donne e dei bambini accorsi in piazza furono sgradevolmente attirati dai singulti incomprensibili del cardinale che, paonazzo e madido, gesticolava come un ossesso in direzione del condannato. «Hai stretto un patto con me perché, rassegnato all’allontanamento impostoti dalla Santa Sede per sfiducia nelle tue capacità, hai pensato che l’unico modo di soddisfare la tua sete di potere sarebbe stato quello di mettere sotto la tua ala un alchimista fornendogli tutti gli strumenti a tua disposizione per favorirlo nel raggiungimento della tappa ultima della Via Alchemica: la trasmutazione del metallo in oro.»
Le armature della guardia sferragliarono nell’indecisione: prestare soccorso al padrone o mettere a tacere l’infedele? Il popolino rumoreggiò. Qualche anziano svenne, qualche donna si segnò, qualche uomo inveì, qualche bambino ridacchiò.Nemmeno ora che la folla si era parzialmente diradata, gli riuscì di reperire tracce di Denis. Non se ne sorprese. L’Occhio aveva visto.
«Ma molti alchimisti hanno fatto proprio il segreto dell’oro parecchi lustri or sono, reverendo», rivelò Grifabius: e sentiva tutto il dolore provato nell’infinità degli ultimi giorni e delle ultime notti fluire attraverso di sé, fuori di sé, al pari del sangue che aveva perduto. Sì, lo aveva accettato, quel dolore; lo aveva sopportato. Gli sarebbe tornato utile. Lo stava trasformando in fiato, e il fiato in parole, e le parole in correnti d’aria, e le correnti d’aria in linee invisibili, bollenti, dirette in sensi ben precisi. Tutto mutava. «Vuoi conoscere il segreto, reverendo padre? Sono pronto a fornirtelo. Sono pronto a renderti più ricco di quanto tu sia mai stato. Sono pronto a renderti, nella morte, più ricco di quanto avresti mai potuto anche semplicemente sognare di essere in vita.»
Toscanus boccheggiava, artigliava il vuoto con le mani inanellate, agitava le braccia, gli occhi strabuzzati e sanguigni, suoni ridicoli a uscirgli dalla bocca. I soldati lo circondavano, farfugliando, annaspando. La folla si agitava. Alcuni scappavano, altri restavano. Le linee d’aria lanciate da Grifabius attraverso le parole trasmutanti pronunciate raggiunsero gli orifizi di Toscanus. Gli furono dentro.
«Il ferro nel sangue umano, reverendo padre – è questo il segreto dell’oro: l’unico elemento al mondo che può essere tramutato nel tuo amato metallo giallo è il ferro nel sangue umano», dichiarò l’alchimista. «Esattamente il quantitativo contenuto, a condizioni di normalità, in sei litri del sangue di uno stesso individuo», aggiunse, sorridendo sconsolatamente, nel riscontrare ancora una volta, in vita sua, la futilità delle ricchezze terrene che tanto gola facevano all’umanità. «Ossia in tutto il sangue all’interno del corpo di un singolo essere umano, e appena estratto, a quella unica temperatura: è necessario dissanguare un esemplare adulto per ottenere dell’oro.»
Toscanus cascò sulle fragili ginocchia, spezzandosele, urlando come una mandria di maiali sgozzati al macello. Impotenti, inorriditi, terrorizzati – i soldati e tutti gli altri presenti lo guardarono morire lentamente mentre dalle narici, dalle orecchie e dagli occhi, gli fuoriusciva oro fuso e bollente; oro liquido che colava denso e lento, tracciando lunghi solchi neri, suffumiganti, attraverso la pelle rinsecchita.
Fu una morte atroce.
Equivalente al dolore vissuto da Grifabius dal momento in cui era iniziata l’imitazione di Cristo – ma concentrato in un singolo istante.

 
Grifabius rientrò un paio d’ore dopo che Toscanus ebbe esalato l’ultimo grido straziato.
Kështak era deserto: fuggendo dalla piazza del villaggio che languiva ai piedi del castello, le persone si erano disperse rifugiandosi presso le abitazioni nei paraggi oppure correndo in direzione sud, sospinte sia dal panico che dalla prospettiva di giungere al centro abitato più vicino fintantoché ci fosse ancora stato il sole. L’alchimista non lo riteneva probabile, ma non perse tempo a focalizzarsi sull’interrogativo. Aveva cose più urgenti da attenzionare.
Non fu sorpreso di cogliere Denis intento a ficcanasare tra gli incarti, le provette e gli involti contrassegnati da simboli che in pochi, al mondo, avevano la capacità di decriptare. Il ragazzino, al contrario, esternò uno stupore ammirato. Chiaramente, non si sarebbe mai aspettato di rivederlo, dopo il segreto che era andato a snocciolargli nottetempo in quelle tre semplici parole: «L’Occhio vede.»
«Puoi chiudere la bocca, ragazzino, o rischi che ci entri dentro un pugno di mosche», lo ammonì l’alchimista, muovendosi a rilento, le ferite che andavano richiudendosi in croste che bruciavano peggio di prima, il sangue secco e scuro appiccicato alla pelle, le infezioni che progredivano. «Prendi la sacca gettata in quell’angolo. È tempo di partire.»
Denis, educato a ubbidire sin da piccino – ai fratelli maggiori, ai genitori che lo avevano svenduto, ai mercanti d’esseri umani, al cardinale Toscanus… e non solo, come adesso Grifabius sapeva –, si mosse senza nemmeno pensarci né staccare gli occhi dallo studioso italiano.
«Maestro…» Lo disse quasi come per accertarsi che l’alchimista si trovasse davvero lì, in carne e ossa. Non c’era paura, comunque, nella sua voce. Giusto sorpresa. «Ma come… come hai fatto?»
«È stato facile», rispose Grifabius, sedendo sul giaciglio con la schiena addossata al muro, lo sguardo a indagare gli insondabili misteri del dipinto affisso più in alto di tutti gli altri. «Mi è bastato rivelare il segreto più bramato dal genere umano… o, perlomeno, da quella porzione di genere umano più affine al reverendissimoToscanus.»
Denis si fermò con la sacca di pelle tra le mani, le cinghie abbandonate sul pavimento. Traspariva incredulità, dalla sua espressione. «Il segreto dell’oro…», mormorò, ma Grifabius lo fermò indicando la borsa.
«Mettici dentro quelle scatole sotto sale, due di quei pacchetti che trovi sulla mensola a sinistra e le due piccole ampolle con quel liquido verde. Sta’ attento che siano tappate per bene. Infilale nelle tasche laterali.» 
Il ragazzino si comportò da quel che era: un attendente. Oh, be’, da quel che era per metà. Laddove, per l’altra metà… Prima di completare quel pensiero, Grifabius dedicò un’ipotesi mentale a quel che il ragazzino avrebbe potuto essere. In un’altra vita, in un altro mondo, in un altro universo. Ma non in quello, no. Non in quello. 
In quest’universo è condannato, si disse. Come tutti. «Prendi anche il pennello e le piume, il calamaio e quegli stracci di pergamena. Il pestello…» Tirò una smorfia per le ferite dietro le orecchie, e soprattutto per quelle ai piedi, che andavano infettandosi, probabilmente a causa della saliva dei topi. Avvertiva i polsi e le ginocchia pulsare infette. «Metti quella sfera opaca nella bisaccia e chiudila col cordoncino. E il bastone animato…» Si guardò intorno per un po’, ma ben presto decise di chiudere gli occhi e riaprirli sul dipinto in alto. Lo percorse in lungo e in largo, rintracciandone dimensioni, proporzioni e prospettive che, un attimo dopo, gli sfuggivano confondendosi in un indefinito non-luogo irricevibile alla psiche. Un mistero delizioso. L’esistenza ne conteneva un’enormità, oltre a esserne uno essa stessa. «Devo averlo lasciato da qualche parte. Cercalo. È quello con il manico a foggia di corvo.»
«Io ti ho detto il segreto, maestro», disse Denis, lasciando da parte la sacca e mettendosi alla ricerca del bastone, «e l’ho fatto perché ammiro la tua dedizione nella ricerca della verità… in un mondo dominato da chi sostiene di detenerla, la verità.» Già, concordò l’alchimista. I primi, tanto per cominciare, sono i genitori. Mamma e papà e il loro racconto del mondo. Poi ci sono i preti. E, nel tuo caso, anche l’Occhio di Dio. È una vita, per quanto ancora breve, che ti senti dire com’è fatto il mondo da chi sostiene di saperlo.«Adesso dimmi il tuo segreto, ti prego», lo incalzò Denis. «Quando… Eri già a conoscenza del segreto dell’oro? O lo hai appreso durante i tuoi studi, qui? Ma perché, se è così, non glielo hai mai…»
«Toscanus mi ha messo a disposizione risorse preziose che non si reperiscono tutti i giorni, là fuori in giro, per chi vive come me.» Grifabius sospirò. «Avevo bisogno di trattenermi quaggiù fino a quando ciò mi sarebbe tornato utile per procedere oltre, lungo la Via, verso la Verità.»
«E… la guardia del cardinale? Quei quattro sono armati.»
«Lo erano», puntualizzò l’alchimista. Sospirò. Aprì ancora gli occhi. Si immerse nuovamente, per la milionesima volta, nei meandri del dipinto. Trovò la strada, si inoltrò nella direzione, verso il punto di fuga, in cui convergevano tutte le linee, tutti i tratti, tutte le forme, tutti i colori… No. Nemmeno questa volta. Di nuovo, tutto – e lui stesso – perdeva di senso. Di nuovo, quel dipinto rintuzzava il suo sospetto. Metteva in discussione la Via. Suggeriva la risposta alla domanda, tratteggiava la meta del viaggio. Di nuovo, lui si rifiutò. «Ma quando, infine, hanno sfoderato le spade… si sono ritrovati in mano uno sbuffo di vapore acqueo.»
Denis si trascinò dietro il pesante bastone dal manico a forma di corvo e dall’anima di ferro affilato. Il mondo era feroce, crudele, rapido e spietato. Mentre Grifabius aveva bisogno di tempo. La Via richiedeva tempo. Le tempistiche del mondo esteriore e quelle del mondo interiore divergevano, diametralmente opposte le une alle altre, incompatibili.
«Dove andrai, maestro?»
«Per il mondo», rispose lui. «Lungo la Via.»
«La Mano sarà qui, presto o tardi», annunciò il giovane. «Ho lasciato l’ammonimento al cardinale Toscanus…»
«Il giorno in cui poi è venuto a prelevarmi», dedusse Grifabius. «So come funziona: l’Occhio vede il membro della Chiesa che pecca, venendo meno ai suoi sacri doveri, e lo avverte.Lui, poi, ha del tempo – mai ben definito – per redimere i propri peccati alimentando l’unica speranza rimastagli – ossia quella di ottenere, quantomeno, grazia e perdono una volta che sarà stato soppresso.» Faticò a rimettersi in piedi. Le croste cristallizzavano in grumi nerastri. I piedi dolevano, piagati dai tagli e dalle bocche fameliche della notte, la testa girava. Nella sacca avrebbe avuto tutto il necessario per medicarsi a dovere, una volta via da lì, fuori portata. «L’Occhio vede, la Mano uccide. Dio, semmai, condona.»
«Sì, noi non possiamo privare nessuno del dono prezioso della vita», confermò Denis. «Ci limitiamo a osservare e riferire. I Cavalieri della Mano sono autorizzati e preventivamente perdonati per le vite dei peccatori che hanno il compito di recidere.»
Grifabius sorrise. Il suo sguardo sfiorò appena il dipinto. «Che follia.» Squadrò il ragazzino da capo a piedi. Da qualche parte, dentro di sé, avvertì il ricordo del rimorso per ciò che avrebbe potuto essere. In un’altra vita, in un altro mondo, in un altro universo. Ma non in questo. No, non in questo. «Niente indottrina meglio della follia.»
«La mia era una famiglia povera», disse Denis, «e io troppo esile per poter dare un aiuto significativo…»
«Non m’importa», lo interruppe Grifabius, facendosi consegnare il bastone da Denis e appoggiandovisi con gran parte del peso. «Sete, fame, avidità. È tutto qui. Spesso, è tutto qui. In ogni caso, portano a un’unica destinazione: la morte.»
«E la Via?», ribatté Denis, porgendogli anche la sacca, che però l’alchimista non accettò. «A cosa conduce, la Via?»
Grifabius non rispose. Si limitò a contemplare nuovamente il dipinto. Lo indicò con un cenno del capo. «Sali sul tavolo, prendi l’immagine dalla geometria impossibile, arrotolala e infilala nella sacca. Poi sparisci. Non c’è più alcun ramo secco clericale da eliminare, adesso. L’Occhio lo ha perso di vista. E la Mano potrebbe accecare l’Occhio che perde di vista.»
Denis alzò la testa, poi lo fissò, interdetto.
«Muoviti», gli intimò Grifabius. «Voglio essere via di qui prima che arrivino.»
«Ma, maestro…»
«Prendi quel maledetto dipinto», lo sferzò l’alchimista.
«Ma non c’è nessun dipinto!»
Grifabius levò di scatto la testa e direzionò lo sguardo verso il solito punto. Quello al quale si abbandonava nei momenti meno attivi delle sue giornate, subito dopo il risveglio e subito prima di dormire; il punto sulla parete, il punto della riflessione, della contemplazione, quella sdrucita superficie quadrata sulla quale un artista anonimo aveva tracciato punti, linee, rette, piani.
Il ragazzino lo stava improvvisamente prendendo in giro. Forse voleva semplicemente tergiversare, fargli perdere tempo, in modo tale che la Mano lo stanasse e lo uccidesse o, con maggiore probabilità, lo consegnasse all’Inquisizione. L’Occhio e la Mano si occupavano esclusivamente di vicende interne. I peccati “esterni” erano appannaggio di quei farseschi tribunali.
Fatto sta che l’immagine dalla geometria impossibile si trovava lì. Dov’era sempre stata da quando l’alchimista dimorava nelle segrete di Kështak. L’aveva attaccata lì sin dal primo giorno, dopo averla portata con sé per mesi, dal giorno in cui l’aveva trovata… l’aveva trovata… Già, dove l’aveva trovata, e quando? O era stata essa a trovare lui…?
Ignorò qualunque cosa stesse cianciando il ragazzino che aveva vegliato su di lui, lo aveva studiato, affascinato dalla determinazione e dal fervore con cui, rinunciando alla verità calata dall’alto e imposta al basso, lui si ostinava a studiare, a conoscere, a cercare.
Lasciò cadere il bastone e si inerpicò egli stesso sul tavolo da lavoro.
Allungò le mani verso il dipinto – gli occhi che si perdevano sullo sfondo e nei primi piani, lungo le linee e tra i punti, vagando tra i margini e il centro, ogni singola componente cromatica – e le dita, anziché afferrare il tessuto della tela, vi affondarono e lo attraversarono…
… e, insieme a esse, l’uomo noto come Mastro Grifabius.











"il segreto dell'oro" (2024) di Giuseppe Vitale 

Uno dei miei racconti che l'Autore ha voluto omaggiare.

3 commenti:

  1. Brama di potere, controllo e ricchezza sono nel sangue; quello è il loro ferroso e freddo prezzo o la trasformazione più evidente nel mondo. In questa realtà.
    Ma c’è una via diversa, multidimensionale, una conoscenza che non può essere compresa e afferrata da chi ha una visione così bieca, egoistica, semplice e lineare dell’esistenza.
    Se Qualcosa di veramente oscuro ci osserva, e stando ben attento a eliminare quelli che escono dal suo tracciato, è perché oltre ad esso ci sono meraviglie che lo possono distruggere. Meraviglie così grandi che, a volte, anche i suoi discepoli, schiavi o “mani” ne rimangono affascinati.
    Mi è piaciuta tantissimo l’idea del dipinto sfruttato come portale che solo Grifabius riesce a vedere (con la sua visione alchemico “aumentata”), omaggio alla mia storia Lovecraftiana “l’immagine dalla geometria impossibile”. Ci hai messo proprio tutto l’amore e il talento di cui avevo bisogno. Grazie.

    RispondiElimina
  2. Capolavoro assoluto.
    Come il "Quid tum" di Leon Battista Alberti, simbolo per eccellenza di quel Rinascimento che è il luogo per eccellenza dell'arte alchemica.
    Leggendo questo racconto provo la stessa gioia di quanto trovo nel trattato alchemistico medievale di Bono da Ferrara gocce d'oro spirituale in forma di parole:
    «L’oro dell’Alchimia non è oro vero, ma un oro fantastico».
    Peppe è davvero, semplicemente fantastico.
    Se ne frega di fare il carino o il saccente per avere il suo bravo like social, se ne frega di scervellarsi per fornire il contesto, il compito e le istruzioni per fare domande al nuovo Moloch, l'intelligenza artificiale...
    Sa bene che per gli alchimisti, come narra Bonus da Ferrara:
    "«Gratis hai ricevuto, gratis darai». Che senso hanno per il mondo il diamante celato, un tesoro nascosto?
    A che serve una candela accesa se la tieni sotto il moggio? È l’innato egoismo del cuore umano a indurre tali persone a cercare un pio pretesto per tenere nascosto questo sapere all’umanità."
    L'Occhio vede, la Mano uccide. La lettera uccide, lo spirito rivifica.
    Il letteralismo è idolatria delle parole; l'alternativa all'idolatria è il mistero. E il letteralismo reifica, fa di ogni cosa cose, questi tavoli e queste sedie, merci. L’alternativa alla reificazione è la mistificazione.
    C'è un altro senso in cui bisogna affermare la mistificazione. Dobbiamo superare la concezione illuministica secondo cui nella vita della specie o dell'individuo avviene un passaggio definitivo dalle tenebre alla luce. La luce è sempre luce nelle tenebre; questo è ciò che riguarda la nostra Anima, la lotta quotidiana che dobbiamo -ognuno di noi- sostenere per salvarla dalla sua fragilità e dalla sua debolezza, e dalla furia cieca del potere.
    Né la luce può diventare una corrente, sempre accesa, nel linguaggio prosaico ordinario.
    La verità è sempre in forma poetica; non letterale ma simbolico; nascosto o velato; luce nelle tenebre. Sì, misterioso.
    Sì, in effetti, gli Idoli, Moloch, falliscono sempre: il grande Leviatano; o Moloch; scoperto essere non solo mortale ma anche morto, un idolo.
    Dal letteralismo al simbolismo; la lezione della mia vita; la lezione delle grandi menti di Peppe e di Magus Imagus Fabio.
    È necessario dire alla prossima generazione che la vera battaglia non è quella politica, ma quella di porre fine alla politica.
    Dalla politica alla metapolitica.
    Dalla politica alla poesia.
    La legislazione non è politica, né filosofia, ma poesia, narrazione. La poesia, l'arte, non è un riflesso epifenomenico di qualche altro ambito (politico, economico) che è la “cosa reale”; né una contemplazione immobile di qualcos'altro che sia l'“azione reale”; né una sublimazione di qualcos’altro che sia l’“atto” “reale”, carnale, materiale.

    RispondiElimina
  3. Poesia, arte, fantasia, lo spirito creatore è la vita stessa; il vero potere rivoluzionario per cambiare il mondo; e per cambiare il corpo umano. Cambiare il corpo umano...“ecco la Rosa, qui comincia a danzare”... per iniziare a ballare; chi può distinguere il ballerino dalla danza; è l'unità e l'unione impossibile di tutto.
    Dalla politica alla vita. E quindi rivoluzione come creazione; risurrezione; rinascita invece che progresso. Percepire in tutta la cultura umana la realtà nascosta del corpo umano. Si tratta di scoprire, come hanno fatto in modi diversi Jung e Hillman, la Santa Comunione nella vasta Chiesa energetica del Cosmo come base della comunità psichica personale e sociale e naturale; l'Eucaristia nell' al di là e nel qui e ora per sconfiggere il Moloch del letteralismo.
    Vai alla fine della strada e questo è ciò che troverai.
    E così il Dio non è il Dio Logos di Hegel, la Ragione astratta o disincarnata, ma la Forma Umana Divina. E il linguaggio non è il linguaggio della ragione ma dell'amore.
    La ragione è potere; argomenti potenti; politica di potere; Realpolitik; principio di realtà. Il ferro arruginito del sangue che si trasforma in denaro che puzza, che affama e uccide i bambini con i missili e le mani che si chiudono.
    L’amore arriva a mani vuote:«Gratis hai ricevuto, gratis darai»
    Pietro Bono da Ferrara insegna l'oro della "Rotatio", quando la bellezza della vita si mostra nell'ampolla dell'Oro Fantastico:
    "La rotatio, il moto della ruota, dice chiaro che nessuna posizione può rimanere fissa, nessuna enunciazione è una verità definitiva,
    non esiste alcun luogo finale da raggiungere. L’idea di sviluppo non ha senso quando nessun luogo è meglio o peggio, superiore o inferiore di un altro.
    Girando la ruota, ciò che era in alto adesso è in basso, ciò che era inferiore adesso è superiore e tornerà a essere inferiore. Ciò che sale, scende, ripetutamente: SOLVE ET COAGULA"
    Peppe e Fabio non hanno bisogno di like social o di rispostine da asilo nido dall'intelligenza artificiale.
    Fiero di essere loro ammiratore e amico.
    Grazie per tutto quello che mi donate.

    RispondiElimina

Commenti offensivi, volgari o inappropriati verranno rimossi.