mercoledì 30 ottobre 2013

Dall' ammasso della Vergine

DALL' AMMASSO DELLA VERGINE  Racconto di Massimo Bianco


Due ventenni passeggiavano mano nella mano alla ricerca di un luogo appartato, quando scorsero un vago brillio nel cielo.“Guarda quante stelle cadenti. Esprimi un desiderio, Filippo e si realizzerà.” Esclamò la ragazza, indicando la volta celeste.Filippo, un bel ragazzo alto e bruno, assai attraente col suo volto fanciullesco alla Brad Pitt, espresse con prontezza il desiderio. Trovava tuttavia strane quelle polveri luminescenti, avvolte da un alone azzurrognolo, che piovevano dal cielo sopra le loro teste, un po’ come fanno i fuochi pirotecnici quando si vanno spegnendo. Erano davvero stelle cadenti? Non ne era convinto. 
“Io l’ho espresso un desiderio, sai? E riguarda noi due.” Insisteva intanto lei, sorridendo.
“Ahi, qualcosa mi ha punto.” Si lamentò invece lui.
“Sarà stata una zanzara, fa vedere… ecco la bugna, infatti.” Disse la ragazza, indicandogli il collo.
Filippo se lo toccò. “Accidenti, è enorme e mi prude da matti. Doveva essere una zanzara gigante.”
Ad ogni modo, dopo un poco smise di dargli fastidio e non ci pensò più.

Nei giorni successivi Filippo fu colto da un appetito insaziabile. Benché a tavola avesse raddoppiato le porzioni abituali, mangiava di continuo, incapace di trattenersi, snack, cracker, dolcetti e schifezze di ogni genere e inevitabilmente ingrassava. O almeno così sembrava. Perché, in realtà, il suo peso rimaneva più o meno lo stesso: sugli ottanta chili per un metro e ottantotto di statura. Eppure era sempre più gonfio e massiccio e a occhio chiunque di chili gliene avrebbe affibbiati almeno cento.
Anche la sua compagna vedeva con preoccupazione aumentarne la stazza a dismisura e non era certo quello il desiderio espresso su loro due la notte delle stelle cadenti.
“Non capisco, io ti amo, ma non sopporto di vederti trasformato così. Cosa ti succede, insomma, si può sapere?” Gli chiese infine, sconfortata.
“Non lo so, Marianna, ma non sono davvero ingrassato, peso sempre come prima.”
“Ma cosa vuoi darmi a bere, non sono mica cieca! E poi non fai che mangiare, anche davanti a me.”
“Ho fame, sì, ho sempre fame e non riesco a smettere di mangiare, in questo hai ragione.”
“Ma non puoi continuare così. Sembri incinto, accidenti, stai diventando un orribile ciccione.”
“Lo so, mio dio” – Quasi urlò, sconvolto – “e non posso farci nulla, perché non sto accumulando peso, ti dico. Ti giuro che nell’ultimo mese non ho preso nemmeno un etto.”
E in effetti, come Marianna dovette riconoscere, su qualunque bilancia salisse il responso era sempre il medesimo: ottanta chili esatti e non un grammo di più. Ma perché allora si rimpinzava fino a scoppiare? Lui stesso si disperava del proprio atteggiamento, tuttavia era incapace di trattenersi e neppure un amico di famiglia psicologo, prontamente interpellato, seppe risolvere il problema. Tutti in casa erano ormai preda dell’angoscia, ma la sua radicata idiosincrasia per medici e medicine e una collaudata abitudine a fuggire le notizie infauste lo portavano a tergiversare.
Solo quando le sue misure aumentarono ancora, con i conseguenti primi problemi di salute, sempre senza che il peso effettivo corrispondesse alle apparenze, la paura montante ebbe la meglio sulle solite vili ritrosie e si decise per un check up completo. Fu ricoverato e sottoposto a ogni genere di esami, ma…
“Dalle nostre analisi non è risultato niente e la tua massa adiposa è invariata. Tutto il cibo che introduci a quanto pare viene assimilato e pesi sempre ottanta chili, con una variazione di appena qualche etto. Ti gonfi e basta, insomma.” Gli spiegò infine, malvolentieri, il primario del reparto.
“Francamente non capisco, dottore. Possibile che non abbiate trovato proprio niente? Eppure qualcosa dovrà pur causare questo mio appetito insaziabile e questo mio ingrossare.”
Il medico restò a guardarlo a lungo in silenzio, con aria meditativa.
“Beh, per la verità quando affermo che non abbiamo trovato niente, forse, ecco, sarebbe più esatto sostenere che abbiamo trovato UN niente.” Si decise infine a dire, con evidente imbarazzo.
“Eh? Ma cosa sta dicendo, dottore?”
Il medico sospirò, a disagio, poi prese la lastra e ne indicò un punto.
“Ecco, guarda. La vedi questa macchia scura? Abbiamo fatto mille congetture in proposito e come ricorderai abbiamo anche introdotto un paio di sonde per capire meglio, ma…mm, non c’è davvero nulla lì, è questo lo strano. In quel punto c’è un buco, un vero e proprio vuoto.”
“Vuol dire che un verme o qualcosa d’altro mi sta mangiando la carne dall’interno? Allora lo si potrà distruggere con delle radiazioni o asportarlo chirurgicamente, no?”
“Ma asportare cosa? Tu non mi stai ascoltando, ragazzo mio. Non c’è assolutamente niente nel tuo organismo che giustifichi un effetto del genere. Non si vedono neppure tracce di ferite. Guarda bene la macchia, vedi com’è regolare? È un buco perfettamente sferico di quattordici centimetri di diametro e si sta accrescendo, perché la prima volta che l’abbiamo misurato i centimetri erano solo dodici, ma non ti ha mangiato né carne né, per fortuna, organi interni. Si è limitato a spostarli, a farsi spazio, facendoli incredibilmente adattare alla nuova posizione con una minima compressione. Tuttavia questa sfera non contiene un bel nulla, anzi, è un nulla. Non ha neppure pareti, a dirla tutta. È proprio come se non ci fosse. Entrambe le sonde vi sono entrate senza incontrare ostacoli, hanno trovato lo spazio vuoto e in quel vuoto, subito dopo, beh, le abbiamo perdute.”
“Cosa intende dire?” Chiese il paziente, impallidendo.
"Sono sparite, letteralmente, puff! Sono entrate in quella macchia sferica e qualche istante dopo non c’erano più. Erano scomparse senza lasciare traccia, come se non fossero mai esistite.”
“Ma tutto ciò non ha senso.”
“Proprio così. Non ha senso e, infatti, non ce lo spieghiamo.”
“Cosa possiamo fare, allora?”
“Sinceramente non lo so. Abbiamo svolto tutti gli esami possibili e immaginabili e pure qualche tentativo di aggredire la sfera, ma sempre senza esito. Te lo ripeto, a parte quel vuoto inspiegabile, non c’è niente che non va.”
“Avete insomma deciso di rimandarmi a casa e chi si è visto si è visto? E cosa ne sarà di me?”
“No, non ti allarmare, non ti sto dicendo che ci siamo arresi, ma solo che io non sono più in grado di far nulla. Ho contattato i due migliori specialisti al mondo e li ho convinti a venire per un consulto. Arriveranno domani e confido che una soluzione la troveranno.”
Ma nei giorni successivi i celebri luminari lo studiarono e lo sottoposero ad altri esami, infine si grattarono metaforicamente la testa e se ne andarono con tante scuse. A quel punto il degente fu dimesso in sordina, come se i sanitari fossero seccati del disturbo da lui procuratogli e preferissero fingere che il problema non si fosse mai presentato.

Un pomeriggio di qualche settimana dopo, Filippo provò l’incoercibile desiderio di uscire di casa. Nel frattempo il suo tronco era divenuto enorme, ma né gli arti né il bel volto avevano mutato aspetto e pesava ancora ottanta chili. Chiunque vedendolo lo avrebbe giudicato invalido, eppure non era ancora immobilizzato in un letto. Filippo prese dunque una corriera, lasciò la città, scese a una fermata in aperta campagna e s’incamminò. Non sapeva perché lo stesse facendo, ma non poteva trattenersi. Proprio come gli accadeva quando mangiava incontrollabilmente fino a scoppiare, anche in questo caso non riusciva a fermarsi: doveva camminare. Soffriva di nausea e fitte tra stomaco e petto e inoltre si sentiva scombussolato. Per giunta la sua deformità gli causava problemi di deambulazione. Ciononostante marciò ansimando per chilometri, sopportando stoicamente fatica e sofferenza, fino a raggiungere un’altura scoscesa dell’immediato entroterra, che s’innalzava, imponente e solitaria, un buon centinaio di metri al di sopra delle più elevate colline circostanti.
Su uno spiazzo senz’alberi in vetta al rilievo sorgevano i ruderi d’un castello medioevale: un paio di pericolanti mura perimetrali e il grande maschio centrale, ancora integro. Quella solida torre sfiorava i venticinque metri d’altezza e aveva un diametro di otto. Dalla sua cima si ammiravano, oltre la chiostra di colline, alcune vallate laterali e poi il mare lontano.
Il ragazzo scardinò con una spallata la vecchia e malandata porta lignea, entrò e s’inerpico sulla ripida scala a chiocciola. Infine eccolo lì, immobile sulla cima, ad aspettare. Ma aspettare cosa? Non aveva la minima idea del perché fosse salito su quel torrione. Sapeva solo di essere dovuto venire in quel luogo isolato a restare in attesa di un qualche ignoto evento.
Poco dopo Filippo scorse un foglio di giornale ormai ingiallito incastrato in un angolo, abbandonato da chissà quanto tempo. Non avendo nulla di meglio da fare lo raccolse e lo lesse. Era la pagina di un inserto scientifico, in cui si narrava di un verme parassita, il dicrocelium dendriticum.
Esso s’infila nel primo ganglio sottoesofageo d’una formica, l’equivalente del nostro cervello, impossessandosi dell’insetto e costringendolo ad agire non più per il bene proprio ma per quello del parassita stesso. Così l’imenottero s’arrampica su un filo d’erba, affondandoci le mandibole in attesa che una pecora lo bruchi e incontrando per bocca di questa la morte. Tutto ciò perché il parassita, per compiere il proprio ciclo vitale, ha la necessità di finire nello stomaco d’una pecora.
Filippo lasciò andare, smarrito, il foglio di giornale, in preda a un capogiro. Come già da giorni saltuariamente gli capitava, il malessere gli mandò la mente in confusione, riempiendola di forme e sensazioni confuse e incomprensibili. Trascorsi alcuni istanti quel caos primordiale si dissipò, riportandolo alle più immediate preoccupazioni. Anche lui, dunque, stava per morire? Calde lacrime presero a scorrergli lungo le guance. Non gli pareva giusto che accadesse una tragedia del genere proprio a lui che aveva l’intera vita davanti.
Tuttavia, la sua situazione gli pareva assai diversa da quella toccata in sorte alla formica. L’insetto era parassitato da un ben identificato essere vivente. Nel suo organismo invece albergava qualcosa d’incomprensibile. Non c’era nulla dentro di lui, o meglio, c’era un vuoto, un nulla. Eppure questo “nulla” era stato in grado di portarlo fino a quel posto alto e appartato.
Poi ebbe un nuovo capogiro e stavolta immagini e informazioni gli si riversarono nitide nella mente, come se una qualche entità fosse entrata in contatto diretto con lui. Dapprima gli apparve la Terra vista dallo spazio, ma poco per volta la visione andò allargandosi e, benché fino ad allora non avesse mai provato interesse alcuno per l’astronomia, tutto gli risultò chiaro.
Per qualsiasi uomo, compiere il periplo della superficie terrestre, circa quarantamila chilometri, sarebbe un viaggio lunghissimo, eppure la luce l’effettua in poco più di un decimo di secondo. La Terra dista quasi centocinquanta milioni di chilometri dal Sole, una distanza per noi enorme, ma equivalente a poco più di otto minuti luce. La luce proveniente dal Sole, cioè, impiega appena otto minuti per raggiungere la Terra. Il sistema solare sorge alla semi periferia della Via Lattea, un’enorme galassia a spirale ampia centomila anni luce e contenente almeno duecento miliardi di stelle. Viaggiandovi alla, per noi inimmaginabile, velocità della luce, impiegheremmo quindi centomila anni ad attraversarla tutta. A sua volta la Via Lattea è l’elemento principale, con Andromeda, del cosiddetto Gruppo Locale, costituito da una quarantina di galassie distribuite nel raggio di circa due milioni e mezzo d’anni luce da noi. Tuttavia lo stesso Gruppo Locale è soltanto un insignificante membro periferico del Super Ammasso Locale, una mastodontica conglomerazione formata da decine e decine di migliaia di galassie.
Filippo ora sapeva tutto ciò e provava la sensazione di attraversare quell’enorme distesa siderale, ampliando di momento in momento il suo raggio di osservazione e muovendosi nello stesso tempo anche indietro nel tempo, per immergersi sempre più in un remoto passato. Gli occhi della mente gli mostravano così incredibili immagini spaziali, risalenti a decine di milioni di anni prima. L’intero superammasso locale dell’epoca, con tutti i suoi innumerevoli sistemi stellari, roteava dinanzi a lui!
Poi la scena iniziò a restringersi. Si stava tuffando dentro l’immane costruzione cosmica e una alla volta le galassie più periferiche gli sfilavano ai lati, per poi sparire sempre più lontane alle sue spalle, mentre il nucleo si andava impercettibilmente allargando finché, dopo un indefinito periodo di tempo, esattamente nel mezzo cominciò a scorgere un anomalo vorticare.
Proprio al centro del Super Ammasso Locale, a circa cinquanta (50!) milioni d’anni luce da quel trascurabile bruscolino di polvere chiamato Terra, sorge il Virgo Cluster, l’Ammasso della Vergine, che del Super Ammasso Locale è cuore e componente maggiore. E il cuore del Virgo Cluster, proprio all’interno della galassia centrale, è un possente Buco nero, uno spaventoso abisso roteante mangia materia, in cui una massa equivalente a quella di parecchie decine di milioni di astri si concentra in un diametro non superiore a quello della distanza tra il Sole e la Terra. Questa Singolarità acquisisce così una tale, distruttiva, forza di gravità, che qualsiasi stella o pianeta gli si avvicina si annichila e vi cade dentro, accrescendone la massa e aumentandone di conseguenza la forza di gravità.

Filippo si rese conto di stare inesorabilmente avvicinandosi al Buco nero e, pur sapendo che le sensazioni provate non potevano essere reali, giacché lui si trovava sempre fermo in attesa in cima alla torre, provava l’angosciosa sensazione di caderci dentro, con l’inevitabile conseguenza di esserne disgregato. Assai prima però che si verificasse l’infausto evento, il vortice iniziò a migrare dal centro della visione.
Davanti a sé ora vedeva un piccolo agglomerato di stelle. Si stava avvicinando al corpo celeste più esterno del gruppo, le cui dimensioni apparenti poco per volta aumentavano. Si trattava di un tremolante sole arancione, intorno al quale orbitavano sette pianeti. Infine anch’esso si allontanò dalla sua visuale e uno dei pianeti s’ingrandì a sua volta, fino a occupare per intero il campo visivo. Filippo scorgeva movimenti sia in cielo sia sulla superficie planetaria, causati da abitanti ancora troppo lontani per risultare distinguibili ma di cui ne percepiva l’essenza vitale. E purtroppo il destino di quel lontanissimo mondo brulicante di organismi pluricellulari era segnato, perché ormai troppo prossimo all’enorme Buco nero supermassivo, dentro al quale sarebbe inesorabilmente precipitato entro trecentomila anni. Già molto prima di quell’epoca, tuttavia, le forze di marea provocate dall’oscuro vicino di casa lo avrebbero sgretolato insieme all’intero suo sistema stellare, annientando ogni forma di vita.
Poi una fitta, tanto improvvisa quanto acuta, interruppe le visioni, riportandolo al presente e facendogli capire che il momento della verità stava giungendo. Ora Filippo aveva, infatti, la precisa, sensazione che il suo stomaco si stesse aprendo e che la sua carne si squarciasse. Si sentiva sopraffare dal dolore, un dolore indescrivibile. D’altronde chi mai prima d’allora si era sentito squarciare dall’interno? Poco dopo anche la pelle e gli abiti cominciarono a strapparsi, mettendone spaventosamente a nudo le interiora. Si guardò, raccapricciato, il tronco lacerato e vi scorse la tenebra. Da dentro di lui fuoriusciva un’incomprensibile, agghiacciante, vorticante oscurità, che sembrava provenire da profondità insondabili. Un immane pozzo nero senza fondo, un’incommensurabile voragine da cui risaliva lentamente qualcosa. Filippo urlava e urlava con quanto fiato aveva in gola e intanto quel qualcosa usciva dal suo interno. Erano dozzine e dozzine di assurdi esseri alati rossi, delle dimensioni di uccelli rapaci ma dall’aspetto incontrovertibilmente alieno. Troppi, perché fossero stati tutti contenuti nel suo organismo. Ma, e allora?
Intanto il vortice d’oscurità si espandeva sempre di più al di fuori di lui, raggiungendo una quarantina di metri di diametro. E da quella turbinante cavità continuavano a sgorgare esseri viventi. Prima di perdere conoscenza, Filippo fece in tempo a osservarne bene uno: tre paia d’ali, con quattro dita lunghe e sottili che spuntavano da ciascuna di quelle anteriori, fauci piene di acuminati denti color giallo oro, tre lunghe e curiose protuberanze in luogo del naso e dozzine di occhi fosforescenti sparsi sulla glabra superficie cutanea.
E subito prima che il passaggio senza fondo iniziasse a richiudersi, emerse un ultimo, inquietante, enorme e demoniaco essere tutt’occhi. La sua apertura alare doveva aggirarsi sui trenta metri, ma era così tozzo da non essere in grado di alzarsi in volo. Infatti, si limitò ad appollaiarsi sulla torre, spiaccicando sotto il suo immane peso lo sfortunato ragazzo e incrinando l’edificio stesso, che cominciò lentamente sia a piegarsi su di un lato sia a sprofondare sulle proprie fondamenta. Infine qualcosa dentro il monumentale invasore esplose, riducendolo a brandelli, e un’ampia sfera di baccelli luminescenti schizzò verso il cielo, superando in pochi istanti la velocità di fuga, diretta verso lo spazio siderale.
Ai bordi della radura, intanto, un solitario escursionista assisteva non visto alla scena, nascosto dietro al tronco di una sughera plurisecolare. Pochi minuti prima, mentre raggiungeva quel punto inerpicandosi lungo il sentiero, i dati e le visioni cosmiche si erano riverberati nella sua mente, assai attenuati ma comprensibili. Sapeva dunque tutto e ne era sconvolto.

Marianna, l’ex ragazza di Filippo, uscì di casa per recarsi come ogni mattina all’università. Giunse in stazione con qualche minuto d’anticipo e sì soffermò a leggere la locandina dei giornali locali. <<Avvistamenti alieni sui cieli cittadini.>> Titolava uno. << Misteriose allucinazioni collettive.>> Enunciava un altro.
Non sanno proprio più cosa inventare, pensò lei, scocciata. Sedutasi nel primo posto libero trovato in treno, scoprì però, con stupore, che a bordo non si parlava d’altro.
“Mio cugino ne ha visto uno e me lo ha descritto. Un essere spaventoso, demoniaco, giunto direttamente dal profondo dell’inferno.”
“È vero, anch’io ho visto qualcosa. Se ne stava appollaiato sul tetto di fronte a casa mia e divorava un gabbiano. Non sono riuscito a scorgerlo bene, ma non era un comune uccello, questo è certo.”
Quando mezz’ora dopo scese dal treno, l’entità misteriosa attendeva sul marciapiede. L’incredula Marianna la vide e urlò terrorizzata. Un orrendo mostro occhieggiante, un vero e proprio demone dell’inferno, si avventava su di lei in un turbinio d’ali e un agitare di proboscidi.

I ministri degli interni e della difesa erano in videoconferenza con esperti di vari campi. Erano già le 21,30 e nessuno aveva osato disturbare il presidente, ospite di una festa. Troppo inverosimili, infatti, parevano gli eventi denunciati. Dapprima, anzi, le autorità non avevano dato credito né a quegli assurdi avvistamenti di diavoli o alieni provenienti da un’unica zona del paese né alle correlate notizie di misteriose uccisioni, ma nelle ultime ore, nonostante fossero ancora relativamente sporadici, si stavano talmente moltiplicando ed espandendo da non poter più essere ignorati.
In proposito i due membri del governo si trovavano in disaccordo. L’unica immagine disponibile dei presunti invasori era così sfocata da risultare di fatto inutile e l’uno continuava a ritenere l’allarme infondato e le morti dovute a bande criminali o a belve fuggite dallo zoo, l’altro invece, benché assai dubbioso, ipotizzava l’aggressione di uno stato nemico tramite una nuova arma segreta. Nel frattempo, però, un’emittente sudamericana aveva diffuso la notizia di casi analoghi verificatisi in Perù, e siccome su internet già impazzavano le più stralunate supposizioni, avevano deciso di convocare d’urgenza la riunione e ascoltare tutti i pareri.
Il ministro degli interni espose i pochi fatti di cui era a conoscenza. Quindi il comandante della polizia, presente di persona insieme al capo di stato maggiore dell’esercito, assicurò che i suoi uomini si sarebbero impegnati al massimo per venire a capo della questione.
A questo punto prese la parola l’alta, magra e anziana decana degli astronomi, la cui autorevolezza non era mai stata messa in discussione.
“Un racconto ha attirato la mia attenzione, signori, permettendomi di ricavarne un’affascinante teoria di astrofisica. Mi è stato riferito telefonicamente da fonte fededegna, testimone oculare degli eventi. Questi ultimi andrebbero ricondotti a un pianeta, che per comodità chiamerò Kappa Uno, distante da noi ben cinquanta milioni di anni luce ma assai prossimo a un buco nero.”
L’uomo, spiegò la scienziata, non ha conoscenze precise sui black holes. Benché teorizzati da eminenti fisici e successivamente confermati da osservazioni astronomiche indirette, non è ancora stato possibile osservarli e studiarli direttamente. Ignoriamo dunque quali effetti produca la loro presenza laddove essa sia indicata ancora soltanto da insignificanti, impercettibili perturbazioni nelle orbite delle stelle e dei pianeti.
Ebbene, uno degli effetti collaterali rappresenterebbe la salvezza dalla sua forza distruttiva. Grazie alla vicinanza del buco nero, infatti, le forme di vita sviluppatesi più di recente su Kappa Uno godevano di un’incredibile, inusitata caratteristica. Nella stragrande maggioranza dei casi risultava appena embrionale, ma in almeno una giovanissima specie si era assai sviluppata. Si trattava della capacità naturale di ripiegare lo spazio per aprire dei wormholes, alias tunnel spaziali, cioè delle sorti di ponti, scorciatoie, in grado di collegare due punti dello spazio lontani anche centinaia o, chissà, milioni di anni luce, proprio come i nostri ragni hanno la capacità di fabbricare ragnatele. Lo facevano per giunta utilizzando materia normale, similmente a come, anni fa, ne ha dimostrato la possibilità teorica il fisico russo Sergej Krasnikov. Una volta raggiunto il pieno sviluppo, i due microbuchi neri che, collegandosi,  formavano i tunnel cominciavano a evaporare, sopravvivendo solo pochi altri minuti, quanto bastava tuttavia ai loro creatori per attraversare intere galassie.
Kappa Uno, infatti, era scomparso oramai da eoni, ma alcuni suoi abitanti l’avevano abbandonato in tempo e si andavano lentamente ma inesorabilmente espandendo, sciamando nell’intero Superammasso Locale, dove divoravano o schiavizzano ogni forma di vita autoctona. L’immensa conglomerazione di galassie era ormai abitata da un’unica specie dominante: la loro. Non molto intelligenti ma estremamente adattabili, gli alieni del fu Kappa Uno erano organizzati come un alveare, in cui ogni singolo membro della specie rivestiva un compito ben specifico. La regina cresceva a dismisura, amorevolmente nutrita dalle operaie, e al momento di figliare esplodeva letteralmente, sparando nello spazio i baccelli contenenti le larve in stasi. Lanciati ad altissima velocità, questi erano in grado di abbandonare il pianeta ospite e di viaggiare per forza d’inerzia attraverso l’universo.
La trasvolata poteva durare anche milioni di anni e spesso li portava ad arenarsi in luoghi senza vita, ma quando casualmente trovavano l’ambiente giusto, i baccelli si aprivano, permettendo alle larve in essi contenute di iniziare il proprio sviluppo. Nella stragrande maggioranza dei casi queste ultime perivano, ma se anche una sola faceva in tempo a parassitare un essere vivente, era fatta. La larva prendeva il controllo del suo sistema nervoso centrale e formava al suo interno un microscopico wormhole, in italiano, alla lettera, “buco di tarlo” nome che non avrebbe potuto essere più azzeccato, dentro al quale si sviluppava senza poter essere rilevata dagli strumenti, esterna com’era al normale continuum spazio temporale.
Il tunnel spaziale si accresceva insieme al suo abitante finché quest’ultimo, giunto a maturazione, non spaccava l’involucro che lo conteneva, cioè l’essere vivente ospite, facendone fuoriuscire il tunnel stesso, libero ormai di raggiungere celermente il pieno sviluppo. Il tunnel collegava il luogo in cui si trovava il cucciolo con quello di provenienza, permettendo ad alieni adulti, tra cui una regina gravida, di entrarvi e di attraversare in un attimo lo spazio cosmico fino a giungere alla porta di uscita, da dove invadevano il pianeta e lanciavano a grappoli migliaia di baccelli nello spazio, alla ricerca di nuovi mondi da colonizzare…
Il ministro degli interni seguiva le spiegazioni dell’astronoma. Quello della difesa invece aveva gli occhi socchiusi e forse stava addirittura dormendo. Non che il collega potesse dargli torto. In effetti gli pareva tutto un cumulo di sciocchezze. Stava per richiamare l’attenzione, quando il segnale video s’interruppe bruscamente. Un tecnico intervenne subito ma non poté ripristinare il collegamento, perché la linea telefonica era cortocircuitata, perdendo anche il segnale ADSL.
“Sentito che roba? Per me quella si è rincoglionita.” Esclamò, sprezzante, il ministro dell’interno.
Il collega non fece però in tempo a rispondere, perché la luce elettrica saltò, lasciando la stanza al buio. Un attimo dopo il vetro della finestra andò in frantumi e qualcosa irruppe nel vasto salone, puntando in volo sui presenti in un fosforescente occhieggiare, tra disperate grida di aiuto.

A cinquecento chilometri di distanza, l’astronoma restò a fissare lo schermo da cui erano appena scomparse le facce dei ministri. Quando era stata interrotta stava per dire che, secondo la sua fonte, fino a quel giorno solo la loro piccola, insignificante famigliola di galassie periferiche era sfuggita all’attenzione degli alieni, ma la pacchia era finita: gli antichi abitanti di Kappa Uno erano giunti sulla Terra.
Mezzo minuto dopo sparì anche l’immagine di un rinomato biochimico, residente in una città a circa centocinquanta chilometri dalla capitale. Dopo una breve attesa, l’avvisarono che per quella sera non sarebbe più stato possibile ripristinare le connessioni e che non riuscivano a entrare in comunicazione col ministero in nessun’altra maniera. Si accomiatò allora dagli ultimi due scienziati collegati, rinviando le ulteriori discussioni al giorno successivo.
Mentre lasciava, meditabonda, gli uffici della facoltà di fisica, provava una straniante sensazione d’impotenza e un’immensa tristezza. Giunta in strada si avviò a passi rapidi verso casa. Le era sorto l’urgente desiderio di trascorrere le ultime ore in compagnia del marito, dei figli e dei nipotini.


Massimo Bianco

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