Non sono del tutto figlio dei miei tempi, devo ammetterlo, me lo dicono
in molti e io stesso ne sono ben conscio. È anche per tale motivo, immagino,
che mi ritrovo a scrivere queste righe a penna, nel bel mezzo del volo
Charlotte-Allport, piuttosto che digitarle su iPad o sul telefono.
D’altronde, è dagli anni delle scuole superiori che va così, è un vezzo
al quale mi sono abituato: scrivere a mano, con carta e inchiostro, mi aiuta a
fissare meglio i concetti, a rafforzare la memoria, a mettere in ordine i pensieri
e, in casi come questo, a scaricare la tensione.
Oggi è un giorno molto importante, sia individualmente, a livello
personale e professionale, che più in generale; a livello sociale, potrei dire. Da sei anni
faccio parte dell’AHRV, una giovane associazione umanitaria che si batte contro
l’indecoroso trattamento che le istituzioni statunitensi riservano ai detenuti,
più spesso di quanto ci si potrebbe attendere da un Paese civile e democratico.
È una piccola realtà, certo, ma molto attiva e dinamica. Abbiamo
affrontato diversi casi e, in alcune occasioni (purtroppo, ahinoi, meno di
quanto ci piaccia ammettere pubblicamente), siamo riusciti a migliorare le
condizioni di persone che, all’interno di carceri o istituti correttivi,
venivano trattate peggio di quei poveri animali relegati dentro gli allevamenti
intensivi.
Se c’è un istituto con il quale non siamo mai riusciti a entrare in
contatto, anche a causa di un atteggiamento decisamente disinteressato sia da
parte del potere politico sia da parte dell’opinione pubblica, questo è lo
Shisland Asylum di Allport, sempre particolarmente restio a condividere
informazioni o concedere incontri con i membri dell’associazione. Una
riservatezza che, al giorno d’oggi, è sempre più fuori luogo e, anzi, sospetta.
Se nel 2019 non sei disposto ad aprirti al pubblico, significa che hai qualcosa
da nascondere, necessariamente. Qualcosa di losco.
Alla fine, la grande opportunità è arrivata, e nel modo più inatteso: il
dottor Erik Starlin, lo psichiatra che si occupava di un internato – anche se
le fonti ufficiali preferiscono parlare di “residente” – dello Shisland, si è
visto costretto a un tanto prematuro quanto inatteso pensionamento per motivi
di salute, e quindi il direttore Ronson mi ha chiesto di prenderne il posto.
Una proposta giunta senza preavviso, a sottolineare l’importanza del paziente
da tenere in osservazione, e che perciò non ho potuto proprio rifiutare.
Ecco, dunque, che avrò finalmente modo di varcare l’ingresso del ritroso
Shisland Asylum. Ufficialmente nelle vesti di psichiatra, ufficiosamente in
quelle di membro della… be’, non esattamente. Non posso pensare che Ronson mi
abbia scelto senza prima esaminare e valutare con attenzione il mio curriculum
– nel quale figura la mia adesione all’AHRV –, quindi la sua decisione, seppure
lui non ne abbia fatto esplicito riferimento, potrebbe essere letta anche come
un primo passo verso di noi. Un primo accenno di apertura. Chi lo sa.
Non posso negare una certa emozione, accentuata dall’orgoglio e dalla
fiducia che amici e colleghi dell’associazione nutrono nei miei confronti, ho
una grande responsabilità a gravare su di me. Mi sento quasi elettrizzato. Una
sensazione che non provo da otto anni, cioè da quando mi è stato assegnato il
mio primo paziente, a Raleigh, una donna che aveva ammazzato i suoi due figli
nel sonno e aveva tentato di fare altrettanto con il marito.
Non devo però permettere all’emozione, e agli scopi dell’AHRV, di
prevalere sul reale motivo per il quale mi sto dirigendo a Allport. È di un
paziente che devo occuparmi, innanzitutto, il resto deve passare in secondo
piano. Il resto viene dopo. E il paziente in questione è qualcuno di ben
diverso da Mary Anne McCoughin, l’infanticida di Raleigh, perché si tratta di
un famigerato serial killer locale affetto da un’impressionante quantità di
parafilie: tale John Kinderfeld.
Ho trascorso la seconda parte del viaggio aereo e quella che, in treno,
mi ha portato alla stazione centrale, rileggendo i PDF dei referti e dei
resoconti su Kinderfeld che il direttore mi ha inviato in allegato via mail,
l’altro ieri, e ora che sono in attesa della partenza del pullman che mi
condurrà a destinazione (non ancora, però, quella definitiva), mi ritrovo
ancora più impaziente ed eccitato all’idea di conoscere Kinderfeld e
constatare, in prima persona, il modo in cui Ronson e gli infermieri dello
Shisland operano all’interno del manicomio criminale.
Formalmente, “Ospedale psichiatrico” sarebbe più corretto, è vero; una
definizione di certo più appropriata e adeguata, ma a Allport c’è poco spazio
per le formalità. Così come c’è poco spazio per molte altre cose (i diritti
umani, per dirne una), a giudicare dalle cronache, dalle statistiche sulla
criminalità e dal sentire comune, ma questo è un altro paio di maniche.
La stazione centrale è, grosso modo, come quella di qualsiasi altra
città che ho visitato in passato. Forse un po’ più sporca, un po’ più scialba,
un po’ più… retrò, se
così posso dire, una struttura vecchia e polverosa. Quantomeno, a livello di
senzatetto e mendicanti, il loro numero mi è parso nella norma. Ho lasciato
qualche spicciolo e un sorriso a tutti loro e… ecco, ora che lo scrivo, mi
rendo conto di cos’è che stona, in questa città: il sorriso.
I dipendenti dell’aeroporto, gli addetti ai vari stand di questa o
quell’altra compagnia telefonica o assicuratrice, il conducente del pullman, e
anche molte delle persone che ho incrociato strada facendo, guardandomi
intorno, sembrano tutti poco inclini al sorriso. Tutti corrucciati, seri,
sguardi induriti. Tutti così… chiusi. Non è una sorpresa, a questo punto, se per
anni lo Shisland ci ha negato…
No, inutile correre e giungere a conclusioni affrettate, devo solo
prendere questa energia che mi scorre dentro e impiegarla positivamente,
incanalarla nell’incontro con Kinderfeld e nel sopralluogo che, se le cose
vanno per il verso giusto, avrò modo di svolgere una volta dentro la struttura.
In alcuni momenti, stento ancora a credere che stia succedendo per davvero,
dopo tutti quegli anni di rifiuti. È proprio vero che spesso, nella vita, le
cose arrivano quando smetti di cercarle.
Il pullman parte con dieci minuti di ritardo e c’è molta strada da fare,
ma va bene lo stesso, sono le sette del mattino e l’appuntamento è fissato per
le undici. Riapro i file PDF relativi a Kinderfeld e, questa volta, anziché
riprodurre alcuni stralci audio delle sedute condotte dal dottor Starlin, gli
auricolari accarezzano i miei timpani con la voce, segnata dall’età,
dell’ultimo Bryan Adams.
È che serve un po’ di poesia per alleviare l’orrore di cui sono intrisi questi
file.
La destinazione non è il sanatorio quanto, invece, l’omonimo centro
abitato in periferia di Allport: Shisland, appunto, un piccolo borgo marittimo
che s’affaccia su un mare blu scuro e ben rischiarato dal sole che, anche se
siamo a fine gennaio, splende con grande convinzione. È una giornata calda ma
non è un caldo insopportabile. Occasionalmente, spira qualche alito di vento
che se non freddo è, per lo meno, molto fresco.
Come da indicazioni fornitemi via mail dal direttore Ronson, giunto alla
fermata di Shisland, e sceso dal pullman, ho aspettato una decina di minuti per
il bus che, da lì, mi ha portato alla penultima tappa del viaggio: il bed & breakfast nelle vicinanze
del mare presso il quale mi sistemerò fino a domani. Si chiama “La Casa del
Mare” ed è un posticino grazioso.
Sono ancora indeciso se sia il caso o meno, per via di una sola seduta a
settimana, di trasferirmi qui. Okay, non ho famiglia né figli, ma Charlotte è
un po’ come casa, ormai, con i miei amici e Leslie, la mia ragazza. Il mio
studio, il mio pub, le mie strade… gran parte dei miei ricordi risiede in
quella città. Sì, Charlotte è casa mia, è così.
La gente con cui condivido il breve tratto in autobus – non troppe
persone, ma piuttosto chiassose, dalla caratteristica parlata sboccata e larga
– quasi mi scoraggia, in tal senso, rischiando di convincermi del fatto che è
molto meglio rimanere in Carolina del Nord. Ma Stephanie, la proprietaria del
B&B, mi fa ricredere almeno parzialmente: uno scorcio di sorriso e di
cordialità – era ora! – che mi fa sentire il benvenuto, qui a Allport.
Dopo aver riposto le mie cose in camera ed essermi cambiato rapidamente
d’abito, e preso con me il materiale necessario e sufficiente, Stephanie mi fornisce,
con assoluto garbo e assoluta chiarezza, brevi e concise istruzioni per raggiungere
il porticciolo dove mi attende il motoscafo.
Shisland non è soltanto questo paesino di mare negli immediati paraggi
di Allport ma è anche il nome dell’isolotto – talvolta chiamato pure
Outerisland dagli abitanti del borgo – di modesta estensione, famoso,
principalmente, per il carcere femminile che, alla fine del diciannovesimo
secolo, è stato dismesso. Nella seconda metà del Novecento, dopo sette anni di
lavori, la struttura è stata riammodernata e riaperta, infine, come ospedale
psichiatrico giudiziario. Ho fatto i compiti a casa – o, per meglio dire, “in treno”
– alternando la pagina Wikipedia di Shisland ai PDF timbrati e firmati in calce
dal dottor Robert H. Ronson.
Eccomi arrivato, alle dieci e dieci, presso il porticciolo del ridente
borgo: una fila di imbarcazioni di varia natura e colori che, ondeggiando
appena, riposano davanti alla riva scogliosa. Tra tutte le imbarcazioni, individuo
il motoscafo contrassegnato dal logo dello Shisland Asylum (e sotto, più
piccolo, da quello di Allport), e il sorridente poliziotto che mi saluta
invitandomi a salire a bordo.
Solo adesso mi rendo conto che non ho rivolto la minima attenzione alla
musica proveniente dagli auricolari; non l’ho fatto né durante il tragitto in
pullman, prima, e in autobus, dopo, né nel corso della breve camminata dalla
“Casa del Mare” al piccolo porto. E la causa non è da imputare all’emozione né,
tantomeno, alla possibilità di poter finalmente parlare al direttore Ronson.
Il punto è che la mia testa è infestata dagli spettri delle azioni
commesse da John Kinderfeld.
L’agente Flagg è un uomo di poche parole, ma non per questo ombroso o
scortese, e si è messo a tacere, sedutosi accanto al collega che sta alla
guida, solo dopo avermi accolto con un «Ha fatto un buon viaggio?» di
circostanza (anche se è sembrato, con i suoi grandi occhi vispi, molto
interessato alla mia risposta) e una blanda perquisizione per mezzo di un metal
detector portatile; dopodiché, le uniche parole sono venute dal suo collega,
l’agente Padick, che ha comunicato via radio la partenza e mi ha suggerito di
godermi il panorama.
Io mi sono accomodato e continuo, tuttora, a dare qualche occhiata
all’intorno seguendo così il consiglio del poliziotto: la costa allportiana che
si assottiglia dietro di noi, l’orizzonte davanti che sembra un tutt’uno
d’acqua e cielo, il mare calmo e sfavillante sul quale sorvolano gabbiani e
cormorani, l’isolotto di Shisland che diviene sempre più vicino, nitido, finché
posso cominciare a distinguere pure la struttura ospedaliero-detentiva che vi
si erge nel mezzo.
Se non paradisiaco, questo pezzo d’America ha un che di esotico, ed è
forse un ossimoro che tanto male sia confinato all’interno di tanta bellezza,
di una minuscola isola che potrebbe, altrimenti, fungere da ambitissima meta
turistica estiva. L’atmosfera, pure con il sonoro ronzio del motoscafo in
sottofondo, è tranquilla, rilassante, lieve. Ben distante dalla cappa di rudezza
che mi è parsa tipica di Allport. Ben distante dalla frenesia del tam-tam
routinario. Ben distante dai ritmi della vita quotidiana. Chissà…
Ma adesso devo mettere via penna e Moleskine, ormai siamo in dirittura
d’arrivo, a pochi minuti di distanza dal dottor Ronson e, soprattutto, dal
paziente che, a tutti gli effetti, determinerà l’inizio di un nuovo capitolo
nella mia vita professionale. E non solo, come ho già specificato, certamente.
John Kinderfeld.
Il dottor Joseph Konrad rimane
interdetto, pur sforzandosi di celare la propria perplessità, quando sulla
soglia dello Shisland Asylum non è il direttore Ronson a dargli il benvenuto
bensì l’uomo, alto e dinoccolato e largo di spalle, che si presenta con un
sorriso accogliente e un camice immacolato e svolazzante alla fresca brezza
dell’isolotto. Lo spaesamento del giovane ma affermato dottor Konrad si
amplifica, e anche qui lo psichiatra cerca di celare la propria sorpresa,
quando, nel tendere la mano destra in segno di saluto, gli viene data in cambio
la sinistra.
«Sa com’è…», spiega il medico
dello Shisland, come per scusarsi, mostrando il braccio destro che culmina,
all’altezza del polso, con un moncherino nascosto dalla lunga manica del camice
annodata all’estremità, in una specie di fagotto. «Incidenti sul lavoro.» Parla
al plurale perché, con ogni probabilità, fa riferimento anche alla benda nera –
come quella di un pirata delle fiabe – posta sull’occhio sinistro. «Cose che
capitano, e di cui bisogna tenere conto, quando si ha a che fare con… la nostra gente.»
«Ma certo», risponde Konrad,
inoculando nella sua voce quella sicurezza che, invece, gli manca del tutto; per
altro è la prima volta, in vita sua, che stringe la mano sinistra nel presentarsi
a qualcuno. «Sono…»
«Joseph Konrad, psichiatra
forense di Charlotte, Carolina del Nord», completa, in sua vece, il
torreggiante medico. «Io sono il dottor Walter Gray, vicedirettore dello
Shisland, piacere di conoscerla. Il direttore Ronson si scusa di non poter essere
qui.» Dà un’occhiata all’orologio da polso, ovviamente portato al braccio
sinistro, prima di aggiungere: «In ogni caso, sarà ben lieto di parlarle in
privato nel suo studio, alla fine della seduta con il paziente.»
«Ma certo», si trova a ripetere
Konrad, ancora un po’ spaesato, mentre s’impone di ricomporsi. «Sarà un vero
piacere.»
«Benissimo», commenta Gray,
congedando gli agenti Flagg e Padick, i quali hanno scortato lo psichiatra in
auto lungo la stradina, sterrata e fiancheggiata dalle erbacce, che si estende
per i pochi chilometri che vanno dalla costa sabbiosa all’istituto. «Venga con
me, allora, mi segua: le mostrerò una parte della nostra struttura mentre
l’accompagno nella sala destinata alle visite.»
Konrad annuisce e segue il
vicedirettore Gray. Interiormente, il giovane psichiatra esulta perché avrà
modo di valutare le condizioni interne dello Shisland Asylum, i livelli
igienici e lo stato delle celle, prima e più facilmente di quanto avrebbe mai
immaginato. Al di là d’ogni più rosea aspettativa.
Ma, ancora una volta, si sforza
di celare il proprio entusiasmo.
L’impressione è quella di
entrare in un’enorme stanza insonorizzata. In un solo istante, giusto il tempo
che le porte automatiche si chiudano alle spalle di Konrad e Gray, i suoni
esterni – lo sciabordio delle onde, il salmastro vento oceanico, gli strilli degli
uccelli marini – si mozzano immediatamente nel silenzio più assoluto. D’un
tratto, come d’incanto, si passa da una ventilata e soleggiata località esotica
a una tiepida scatola asettica dove tutto, a parte rare eccezioni, è bianco.
Nell’ampia sala esagonale
d’ingresso, superate le due guardie armate poste ai lati del varco d’accesso, le
pareti sono ravvivate da quadri di artisti sconosciuti, dai toni accesi e i
soggetti perlopiù astratti, conglomerati di colori luminosi, e vi è una
panchina abbinata per ciascuna parete, ognuna delle quali è affiancata da vasi
di fiori vari.
«Alcuni residenti, nel corso
della detenzione, si riscoprono artisti. Pittori, il più delle volte, ma anche
musicisti. Li lasciamo liberi, nei limiti del possibile, di esprimere il
proprio estro artistico perché pensiamo che ciò possa favorire una convivenza
distesa. E una permanenza gradevole. Lei non trova?»
Konrad, seguendo Gray verso una
delle tre porte, quella di sinistra, si guarda intorno con una certa e
inaspettata soddisfazione. Forse è ancora presto per dirlo, ma raramente,
durante la sua carriera, ha visitato strutture di ricovero tanto pulite e in
ordine. Si riscopre, ancora una volta, a corto di parole. «Sì, senz’altro, non
lo metto in dubbio.»
Di là della porta c’è una rampa
di scale ma, anziché imboccare quest’ultima, Gray invita il nuovo arrivato ad
accomodarsi all’interno dell’ascensore contrassegnato dal cartello che recita:
“Riservato al personale”. Dentro, il vicedirettore pigia il pulsante “1” e
torna a rivolgersi a Konrad: «Dunque, ha avuto modo di prendere in visione le
carte inerenti al paziente? Il direttore Ronson le ha inviato, vista l’enorme
mole di materiale raccolto dal dottor Starlin, i moduli che ha ritenuto più significativi.»
«Sì», risponde Konrad, mentre le
porte scorrevoli dell’ascensore tornano a chiudersi. «Il dottor Starlin ha
svolto un ottimo lavoro, per altro.»
«E sono convinto che lei non
sarà da meno, dottor Konrad», ribatte il vicedirettore Gray, risistemandosi la
benda sull’occhio. «Ma, soprattutto, è il dottor Ronson a esserne sicuro.»
«Cercherò di non disattendere
queste aspettative.»
«Allora la metto alla prova»,
fa, amichevolmente, Gray. «Vuole?»
L’ascensore, silenziosissimo
come il resto della struttura, si ferma emettendo un breve e sommesso bip. «Perché no?»
«John Kinderfeld», dice Gray, la
mano sinistra che va a chiudersi intorno all’estremità monca del braccio
destro, le porte che si riaprono. «Mi parli brevemente di lui.»
Prima ancora di atterrare a Allport, è il momento di fare il punto della
situazione sul paziente che prenderò in cura, per mettere pure bene in chiaro
quanto questi sia totalmente diverso da Mary Anne McCoughin e da tutti gli altri soggetti di cui mi
sono occupato fino a questo momento.
John Kinderfeld è qualcosa a parte, qualcuno che fa storia a sé, e, se
avesse operato in qualsiasi altra città degli Stati Uniti all’infuori di
Allport, il suo nome sarebbe balzato alle cronache tanto quanto quello di
Richard Speck, John Wayne Gacy o Jeffrey Dahmer. Ma, essendo che di Allport si
parla puntualmente poco e male, tra l’altro in maniera generica – tanto è
normale che a Allport succedano “cose brutte” – penso che un buon ottanta o novanta percento
di americani non abbia la più pallida idea di chi sia John Kinderfeld. In tutta
sincerità, se non avessi ricevuto la mail dal direttore Ronson con annesse
relazioni in allegato, anch’io avrei continuato a ignorare l’esistenza del mio
nuovo paziente.
John Kinderfeld è stato condannato per l’omicidio di tredici persone,
tutti uomini, d’età compresa tra i quattordici e i ventotto anni e con
caratteristiche fisiche molto simili tra loro – fisico non particolarmente
atletico, ma asciutto e longilineo, capelli e occhi castani, occhiali – e che
venivano, in un modo o nell’altro (alcuni, soprattutto i più giovani, tramite l’invito
a vedere il trenino elettrico di cui Kinderfeld andava tanto fiero), attirati
nel retrobottega della sua videoteca, dove finivano con l’essere storditi.
Nottetempo, dopo l’orario di chiusura, Kinderfeld caricava la vittima sul
sedile posteriore del suo Volskwagen e, ricorrendo alla salda e approfondita conoscenza
delle stradine periferiche di Allport, la traduceva in casa sua (una modesta
casetta ereditata dai nonni paterni); segnatamente, in quella che i media hanno
ribattezzato “Cantina degli Orrori”, laddove cioè prendeva luogo quella sequela
di atrocità culminanti con l’uccisione della vittima.
La cantina di Kinderfeld – alla quale si accedeva superando due porte,
entrambe chiuse a chiave, una posta in cima e una alla fine della rampa di
scale – era disseminata di giocattoli, giocattoli d’ogni tipo e per ambo i
sessi, tra i quali spiccava un trenino elettrico perennemente in funzione, che
girava e girava e girava sulle sue rotaie, un modello datato e di grande valore.
Era lì, in mezzo ai giocattoli per bambini e al prezioso trenino, che
Kinderfeld riusciva a raggiungere l’apice del piacere sessuale; solo dopo,
però, aver usato quegli stessi giocattoli per martoriare la vittima: pressoché
tutti atti di sodomia, che poi si allargavano al resto degli orifizi, praticati
per mezzo delle parti appuntite dei giocattoli (code di dinosauro, spade di
guerrieri, spigoli di astronavi e via discorrendo).
Il momento cruciale giungeva quando il treno, perennemente in funzione,
veniva spento. A questo punto, infatti, Kinderfeld andava a staccare un vagone
(il modellino in questione ne aveva un totale di trenta) che poi lui infilava,
a forza, all’interno dell’ano della vittima. Se questa non moriva, in seguito
all’emorragia interna e al lancinante dolore, Kinderfeld prelevava un altro
vagone con il quale provvedeva a soffocare la vittima introducendoglielo in
bocca, spaccando denti, lacerando gengive e altri tessuti interni. Infine, l’assassino
intratteneva rapporti sessuali completi con i cadaveri, mentre una videocamera,
accuratamente posizionata in precedenza, riprendeva il tutto attraverso la
serratura della porta.
Gli studi, le analisi e le sedute operate dal dottor Starlin hanno
riscontrato quella che dovrebbe essere la principale causa delle parafilie e
delle orrende azioni di cui John Kinderfeld si è macchiato, ponendo fine a ben
tredici vite: il nonno paterno del serial killer, Jack.
A causa di un padre morto in Vietnam quando il figlio aveva ancora un
anno, e di una madre depressa e alcolizzata che, dopo averlo abbandonato fuori della
casa dei suoceri, si è tolta la vita con un bicchiere d’acqua aromatizzato alla
stricnina, John Kinderfeld è cresciuto con i nonni.
Jack e Nora Kinderfeld erano persone molto benvolute e rispettate, nel
quartiere popolare di Allport in cui abitavano, e crebbero John come fosse loro
figlio. Entro le proprie disponibilità economiche, risicate ma non troppo,
cercarono di non far mancare niente al nipotino, né relativamente allo studio
né relativamente allo svago, e John non diede mai loro motivo di
preoccupazioni, comportandosi da bambino modello sia a casa che a scuola.
Jack Kinderfeld, però, aveva un’abitudine. Un’abitudine che John non
riusciva a spiegarsi. Talvolta, infatti, almeno un pomeriggio a settimana, Jack
si chiudeva a chiave in cantina (generalmente era proibito, in casa Kinderfeld,
chiudere le porte a chiave) intimando a John di non raggiungerlo. Il bambino
sapeva bene che in cantina, insieme a vecchie cianfrusaglie e a un piccolo
televisore, c’era il trenino elettrico del nonno, e perciò il giovane
Kinderfeld non si capacitava del perché il nonno, solitamente giocherellone,
non volesse giocare con il trenino insieme a lui.
Così, un pomeriggio di quelli, e mentre nonna Nora era in giro per
commissioni, John, che all’epoca aveva sette anni, decise di percorrere le
scale della cantina e sbirciare, attraverso la serratura, i giri del trenino
elettrico il cui ronzio si percepiva già lungo i gradini. La visione sconvolse
sensibilmente, anche se lui non ne fece mai parola con nessuno (finché non
subentrò il dottor Starlin), la vita di John: nonno Jack usava, infatti,
masturbarsi davanti a una VHS di cartoni animati nei quali animali antropomorfi
si sbizzarrivano nelle più svariate pratiche sessuali.
Ma ci furono altri due eventi cruciali che contribuirono in maniera
decisiva a quella che, secondo il dottor Starlin, è stata la genesi del John
Kinderfeld serial killer: l’improvvisa scomparsa di nonna Nora, a causa di un
male diagnosticato quando era ormai troppo tardi; e quella mattina in cui John
cercò di spogliare Timmy, il cugino coetaneo, mentre giocavano nel cortile di
casa Kinderfeld.
Il contraccolpo psicologico per la perdita dell’amata nonna fu forte per
John ma devastante per Jack che, a partire da quel giorno, prese a cambiare
radicalmente. Angosciato dalla paura della morte e, di più, dalla paura di
morire come peccatore, Jack divenne ossessionato dalla religione e, ogni
giorno, si sottoponeva a sessioni di autoflagellazione nella sua cantina. John
ne venne a conoscenza perché, nonostante il trauma subito due anni prima,
qualcosa (probabilmente quell’inspiegabile inturgidimento che avvertiva alle
parti intime) lo spingeva a sbirciare ancora: treno elettrico in funzione, VHS
accesa, frustate sulla schiena mentre Jack, completamente nudo, s’inginocchiava
su manici di scopa.
Timmy, invece, era già da qualche anno l’ossessione di John. Pur non
essendo John omosessuale. A causa di una figura femminile assente – la madre
suicida, la nonna deceduta, le due compagne di scuola che lo rifiutavano – John
aveva preso a sviluppare un’attrazione, a tratti morbosa, nei confronti del
cugino che trascorreva quasi ogni week-end dai nonni: Timmy era esile, occhialuto,
capelli lunghi e occhi marroni, esattamente il tipo di vittime che John avrebbe
mietuto quasi vent’anni dopo.
Le visite di Timmy si erano diradate perché, a un certo punto, il
ragazzino aveva cominciato a manifestare atteggiamenti strani, contrariato
all’idea di tornare a casa dei nonni, e si erano interrotte del tutto dopo che
Jack scoprì John intento a baciare Timmy sulla bocca mentre gli infilava le
mani nei pantaloni.
Da quel giorno, le severe punizioni che Jack Kinderfeld si
autoinfliggeva, cominciarono a essere impartite anche su John: ecco che,
finalmente, il piccolo otteneva il permesso di entrare in cantina. Per qualche
motivo, il treno elettrico era sempre in funzione quando nonno Jack ordinava al
nipote di denudarsi, inginocchiarsi sui suoi stessi giocattoli, mentre lui gli
sferzava la schiena e le natiche con un cucchiaio di legno. E quando Jack, nudo
anch’egli, notò le erezioni di John, le sferzate diventarono tanto violente da
far sanguinare copiosamente il bambino. Jack gli diceva di non piangere e,
anzi, di essere felice perché quello non era sangue bensì era il Diavolo che
usciva dal suo corpo. “Evidentemente”, si legge nelle note di Starlin, “quelle
bastonate, anziché cacciarlo, hanno introdotto il Diavolo in John Kinderfeld”.
Quando John era giù in cantina con il nonno, la TV era spenta, e il
piccolo poteva vedere sé stesso, e le punizioni infertegli dal nonno, riflesso
nel nero occhio morto dell’apparecchio televisivo.
Questa è, per sommi capi, la genesi di John Kinderfeld.
Il dottor Konrad è dotato di
un’ottima memoria, caratteristica che gli ha consentito un efficace percorso di
studi culminante con la laurea conseguita nel 2009, favorita anche dal fatto di
aver appuntato tutto quanto con carta e penna, alla vecchia maniera, e non ha
quindi molti problemi a rispondere alla domanda del vicedirettore Gray.
Quest’ultimo, quando Konrad finisce di parlare, si mostra sinceramente
soddisfatto. Si risistema la benda sull’occhio destro e, adagiando le dita
sulla maniglia della porta, pone un’altra domanda: «Allora, prima di entrare,
che gliene pare?»
Chiaramente, il vicedirettore
dello Shisland si riferisce alla situazione del manicomio criminale, considerando
che, per raggiungere la stanza delle visite, hanno dovuto attraversare un lungo
corridoio ospitante venti celle. Anche qui, silenzio assoluto, o quasi. Da alcune
delle camere detentive, le cui porte sono provviste di una fessura per gli
occhi e di una targhetta identificativa riportante il nome del residente,
provengono vaghi mugolii e gemiti. Più che normale, per una simile struttura,
niente di preoccupante. Anzi, anche meno della media, stando all’esperienza
quasi decennale maturata da Konrad. «Ho delle impressioni molto positive.»
«Non l’avrebbe mai detto»,
s’insinua Gray, con un sorrisetto, «non è vero?»
«Non… cosa intende, con questo?»
«Parliamoci chiaro, dottor
Konrad, da professionista a professionista», ribatte il vicedirettore, che adesso
guarda il collega con occhi che si direbbero divertiti. «Allport non è proprio
il massimo, in quanto città, viene dipinta come la patria della criminalità.
Una sorta di Vaso di Pandora in formato urbano. E Shisland non è da meno. Ha
notato che, per reati di una certa gravità, negli Stati in cui la pena di morte
è stata abolita, la condanna non è un semplice ergastolo… bensì l’ergastolo presso lo Shisland Asylum?»
«Sì, l’ho notato, e le assicuro
di non essere l’unico ad averlo fatto. Ma…» Konrad percorre ancora una volta,
adesso solo con lo sguardo, il lungo corridoio che si estende dietro di loro. «Insomma,
non certo perché qui si consumino chissà quali scempi nei confronti dei
detenuti, come invece si è talora portati a credere.» Riporta lo sguardo sul
vicedirettore e, poi, fa un cenno in direzione della porta. «Ma darò un parere
complessivo dopo aver avuto modo di parlare in prima persona con il mio
paziente.»
«Mi sembra più che giusto»,
commentò il dottor Gray, abbassando la maniglia con la mano sinistra, e
cominciando a dischiudere la porta. «Prego, si accomodi.»
L’orrore, quello vero, quello
concreto e non confinato alle relazioni stilate dal dottor Starlin, arriva
quando Joseph Konrad mette piede all’interno della sala delle visite. L’orrore,
quello vero, quello concreto e non confinato alle relazioni stilate dal dottor
Starlin, detona fragorosamente quando la porta si chiude, con un tonfo sordo,
alle spalle di Konrad e Gray e quando, alle orecchie del primo, giunge il
rumore di un tessuto che viene strappato.
Konrad vorrebbe voltarsi, perché
il rumore è venuto da tergo, ma il suo sguardo orripilato è letteralmente
inchiodato alla scena della stanza per le visite. Come, inchiodate, lo sono le
figure umane affisse alle pareti. Gli esseri
umani affissi alle pareti. Come quadri. Come opere d’arte. Non più astratte,
però, ma oscenamente concrete.
Alcuni residenti, nel corso della detenzione, si riscoprono artisti.
Li lasciamo liberi, nei limiti del possibile, di esprimere il proprio
estro artistico perché pensiamo che ciò possa favorire una convivenza distesa.
Sono tanti, e forse alcuni sono
ancora vivi (certi occhi, in mezzo a tutto quel vermiglio, si volgono
penosamente verso la soglia), per la maggior parte uomini ma pure diverse
donne. Decine e decine di esseri umani, alcuni in divisa e altri in camice (uno
di loro, crede di riconoscere Konrad, sembra proprio il dottor Starlin), con
lunghi chiodi infilati a mani, piedi, gambe e braccia, appesi a tutt’e quattro
le pareti della stanza, corposi rivoli di sangue a colare fino al pavimento.
Sembra un macello, un mercato di carne umana, messa in mostra per insani
acquirenti.
Con una vernice rossa, o con
altro sangue, è stato disegnato qualcosa sulle pareti: due linee orizzontali parallele,
una che passa sulle teste e l’altra che passa sui piedi dei corpi appesi. In
qualche modo, Konrad capisce, o crede di capire. È un binario. Le strisce
parallele sono le rotaie e i corpi umani sono le traversine.
E il trenino?
«Cosa dici, dottore? Non
facevano bene a trattarci peggio delle bestie? Non era sacrosanto che ci
maltrattassero? O, anche davanti a questo scempio, pensi che meritiamo dei
trattamenti umani? Pensi siamo degni di rivendicare una qualche forma di
diritto? Pensi valga la pena di battersi per noi?»
Come se le parole di Walter Gray
fossero un incantesimo, Konrad riesce infine a staccare gli occhi dal binario
umano, dirigendo infine lo sguardo sul vicedirettore dello Shisland. Vicedirettore
dello Shisland che adesso non ha più la benda sull’occhio; un occhio color
nocciola perfettamente funzionante, che sta al suo posto, e una minuscola e
vecchia cicatrice poco sopra lo zigomo. Vicedirettore dello Shisland che adesso
ha anche la mano destra, fuoriuscita dal nodo strappato alla manica, e che
sogghigna. Il dottor Walter Gray che, senza benda e con ambo le mani, se avesse
l’amorfa massa di capelli color paglia come in foto e non indossasse abiti da
medico, Konrad non avrebbe esitato neppure mezza volta a identificare
correttamente: John Kinderfeld.
«Come… cosa…? Come hai fatto?
Io… l’agente Flagg!»
«Robert Flagg, Randall Padick,
Walter Gray… i pazzi hanno preso il controllo del manicomio, dottore, mentre i
cosiddetti sani di mente sono morti, morenti o in cella, che te ne pare?»
Kinderfeld avanza di un passo, e Konrad, che di certo non è basso, lo sente
terribilmente torreggiare su di sé; è come se Kinderfeld gettasse un’ombra, rovente
e malvagia, sul giovane e rampante psichiatra di Charlotte. «Qual è la tua
diagnosi, dottore?»
«Non è possibile…», riesce a
dire, boccheggiante, Konrad. «Tu… tu…»
«Io, dottore, ma non John
Kinderfeld.» Davanti agli occhi spalancati e increduli di Joseph Konrad, il
ghigno sul volto del “dottor Gray” si allarga, tagliente come un rasoio
affilatissimo; un ghigno che contagia gli occhi, marroni e folli, le pupille
minuscole e prive di senno. «Semmai lo sono stato, non più, non lo sono più.»
Un altro passo in avanti, e
Konrad, senza volerlo, crolla sulle ginocchia. Gli occhi di Kinderfeld, da
lassù, dardeggiano inumani. Occhi che, fino a pochi minuti fa, erano
assolutamente normali. Ma è proprio questo, in fondo, ciò che rende i serial
killer letali e difficili da stanare: all’infuori dei momenti in cui danno
sfogo alla loro componente omicida, possono sembrare persone del tutto normali,
assolutamente equilibrate e sane di mente. «Il direttore Ronson, lui… lui mi
ha… com’è possibile? Come hai… fatto…? Perché?»
«È questo che mi fa
imbestialire, di voi strizzacervelli, dottore», rivela Kinderfeld, poggiando
l’enorme mano destra sulla spalla di Konrad, quasi come volesse consolarlo. «La
vostra disperata ricerca del “perché”. I vostri patetici tentativi di
comprenderci. A volte persino di giustificarci. Di considerarci esseri umani. Io
non sono come gli altri, dottore, non sono Ted Bundy. Non sono il più insensibile figlio di puttana che tu
abbia mai visto.» La mano sinistra si adagiò sull’altra spalla dello
psichiatra genuflesso. «Io sono il Diavolo, dottor Konrad, e il Male perpetrato
dal Diavolo è tanto inspiegabile quanto incomprensibile.»
Joseph Konrad, scosso da
violenti e incontrollati sussulti di pianto, il volto tramutato in una distorta
maschera di terrore e supplica, trema come una foglia rinsecchita mossa dal
gelido vento invernale. E, mentre le mani di Kinderfeld prendono ad
accarezzarlo, a passargli sulla testa e sulle spalle e sul dorso delle mani,
Konrad rivede sé stesso: fisico snello, capelli castani, occhi marroni,
occhiali da miope… possibile mai che, preso dall’eccitazione per il caso assegnatogli
e per l’insperata possibilità di avere un colloquio con il direttore dello
Shisland Asylum, in quanto esponente dell’AHRV, non si sia accorto che il profilo
delle tipiche vittime di Kinderfeld… corrisponde al suo? «Ti beccheranno, John,
lo sai. Non potrà… non potrà durare. Ti hanno già beccato una volta, figurati
adesso che… che hai… che sei al comando di un intero manicomio…»
«E chi mai si sognerebbe di
togliere un male dal Vaso di Pandora, dottore, dopo averlo scoperchiato?» Le
mani di Kinderfeld afferrano Konrad per la collottola e lo sollevano di forza,
come se questi non pesasse nulla, come se fosse davvero una foglia rinsecchita;
e smossa non dal vento bensì da una tempesta, da un tornado, da un uragano:
l’uragano Kinderfeld. «È tempo di accendere il trenino, dottore, che te ne
pare?»
-FINE-
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Lasciando da parte ogni valutazione sul testo che, come al solito, ha una struttura e un ritmo ineccepibili, la cosa che mi colpisce di più di questi tuoi profili psicopatologici è la consapevolezza. O meglio, la loro capacità di contenere e poi erompere in modo credibile. Come avevo già notato nell'altro tuo capolavoro "Pappagalli", del resto, dove sei riuscito ad ottenere lo stesso effetto sorpresa.
RispondiEliminaContando che poi tutto ciò ti riesce fluidamente e in poche righe, cosa posso aggiungere?! Sei davvero un mostro.
RispondiEliminaApprezzo il racconto per la sua prosa tranquilla, razionale, senza troppi compiacimenti granguignoleschi che, ovviamente, rende, per contrasto, più efficace il finale. Quanto al contenuto, direi che il racconto esprime la presa d’atto della fondamentale inesplicabilità del male, non tanto sotto il profilo eziologico quanto sotto il profilo esistenziale.
Quello che cerco da fare, al momento in cui un mio racconto "erompe" nel colpo di scena, è far sì che il tutto regga sia a livello di credibilità che di coerenza con il resto del racconto. Il racconto, se basato solo sul finale, rischia di collassare su se stesso e divenire insignificante.
RispondiEliminaA giudicare dai vostri apprezzati commenti, quindi, direi che sono riuscito nell'intento.
Ringrazio entrambi, cari amici, e nello specifico rinnovo la mia gratitudine al mitico Fabio per lo spazio concessomi e la splendida illustrazione appositamente realizzata.