L’insegna del locale era di un azzurro cupo ed elettrico, lampeggiava maligna, a ritmo con il rimbombo della musica proveniente da dentro, e rispondeva allo squallido nome di Whorehouse Blues.
Nathaniel Hoffman non avrebbe mai immaginato che, in vita sua, sarebbe entrato in un postaccio simile, tantomeno a un orario come quello. Ma erano state assai, negli ultimi tempi, le cose che gli erano accadute pur non avendo mai gravitato nell’orbita delle sue aspettative o della sua immaginazione. E poi, data la situazione, a quel punto pensava che non ci sarebbe stato niente al mondo che non avrebbe provato a fare pur di giungere a una parvenza di soluzione.
Se l’ultimo scampolo di speranza era rappresentato da quel posto, da quell’infima bettola ficcata in un infimo quartiere di quell’infima città, si ritrovò a riflettere Nat per l’ennesima volta, le cose dovevano essergli del tutto sfuggite di mano. Si erano messe parecchio male, per la verità, e ciò che lo tormentava sopra ogni altro pensiero era la sensazione di aver imperniato la sua intera esistenza intorno a una salda certezza che si era improvvisamente dimostrata insufficiente. Incapace di reggersi su sé stessa.
Fasulla, forse, per di più.
La musica lo investì in pieno, pareva in qualche modo essergli entrata sottopelle fino a scuoterlo dall’interno del suo essere, e una voce spersonalizzata cantava, sulle note di un’elettronica distorta, che sotto le stelle nere, queste vecchie, luride strade non provavano alcuna vergogna.
Nat trovò una qualche correlazione tra le parole della canzone e gli ambienti che circondavano il Whorehouse Blues, e si dolse per il fatto che, tuttavia, lo stesso poteva dirsi dello spazio interno del locale: tutto, dal bancone alle panche, e anche i tavolini e le pareti, era in un legno scuro e usurato, e da ogni cosa promanava sudiciume e trasandatezza, in una densa nube fitta di fumo e alcolici stordenti.
L’unico aspetto positivo, a volersi sforzare di trovarne uno, era la temperatura: un tepore piacevole, in verità pure un po’ eccessivo, smorzava il vento freddo che spazzava le strade là fuori. Tanto che Nat provò un fastidio pungente a causa del maglione a collo alto indossato sotto il doppiopetto, in un abbigliamento che contrastava malamente rispetto a tutto il jeans, la pelle e le borchie che si scorgevano ovunque lui andasse a posare lo sguardo.
La verità, piuttosto lampante, era che lui non c’entrava niente con posti e gente simili, e gli sguardi che catturava, tra le luci al neon dal ronzio sommerso nella musica vibrante, ne erano chiara testimonianza; occhi che lo squadravano, sopracciglia che lo valutavano, fronti che s’interrogavano e bocche che schernivano e ridacchiavano. In un certo senso, Nat doveva sembrare un infreddolito topolino di campagna capitato per sbaglio in una riunione di spietati gatti randagi di città, pronti ad affilarsi le unghie e leccarsi le vibrisse. Ma, fortunatamente, quelle erano solo persone e, per quanto moralmente discutibili, le persone non mangiavano altre persone. Non nell’effettivo senso dell’espressione, quantomeno, e comunque non nella generalità delle cose.
Quel che era peggio, Nat aveva da attraversare il Wharehouse Blues per l’intera larghezza della sua estensione, da lato a lato, seguendo le istruzioni a mezza voce che gli erano arrivate. Quegli sguardi – felini e predatori – ebbero modo di pedinare tutta la sua incerta passerella, magari pregustando un suo eventuale passo falso, e lui non diede loro la soddisfazione d’essere contraccambiati. Probabilmente, avrebbero scorto paura, nei suoi occhi, e l’avrebbero interpretata come segno di un piccolo e soddisfacente trionfo; ma Nat sapeva che la paura non era per loro. Erano persone, appunto, e nel mondo – e oltre di esso – c’erano cose che facevano ben più paura delle persone.
Ecco perché lui si trovava lì.
Ci fu uno scoppio di risate generali, sguaiate e bercianti, che si levarono praticamente da ogni direzione, sebbene in molti se ne fossero rimasti a fare quel che stavano facendo prima ancora che arrivasse il topino campestre, quando da un lato arrivò un baritonale latrato che Nat identificò immediatamente come rivolto a lui.
Il banconista gli aveva urlato cosa ci facesse lì e se non avesse sbagliato il buco di culo in cui avrebbe voluto ficcarsi quella sera e Nat, frattanto giunto a più di metà del percorso, era sobbalzato bruscamente per l’inaspettato richiamo gridato a gran voce.
Ebbe appena il tempo di voltarsi verso il barista, un tizio tarchiato tutto barba e tatuaggi con un’orrenda cicatrice sul collo e occhi polipeschi, che, prima ancora di avanzare un tentativo di risposta, una voce brutale e graffiante lo anticipò: «Sta’ zitto, Willie, e fatti i cazzi tuoi! Il topolino di campagna è qui per me!»
Il banconista, che doveva dunque chiamarsi Willie, si strinse nelle spalle e tornò ad asciugare i due boccali di birra che aveva lasciato da parte, maneggiando uno strofinaccio lurido e destinando un sorriso fioco e sbilenco, pur’anche sospettoso, in direzione di Nat. «Oh, be’, buono a sapersi…»
A quel punto, percependo d’un tratto l’immane peso della sua estraneità gravargli sulle spalle e piegargli il respiro, Nat allungò il passo e raggiunse la sua destinazione: il tavolo più distante, nell’angolo in fondo, dove le luci erano meno evidenti e le ombre si accalcavano sul figuro addossato alla sedia con una sigaretta accesa tra le labbra compresse.
Si sa, è spesso sbagliato e fuorviante giudicare qualcuno dalle apparenze, e l’equazione greca per cui il bello sta al bene quanto il brutto al male era una chiave di lettura completamente anacronistica e stereotipata. Eppure Nat si sentì striminzire il cuore quando posò per la prima volta la vista su Lurch l’Inglese: non c’era alcuna traccia di fascino o piacevolezza, nella figura seduta a quel tavolino; il fisico esile e smunto, il volto scavato e il pallore dai tratti grigiastri, il naso grossolano e i due grossi nei sulla guancia sinistra, i lunghi e logori capelli neri e le folte basette che si univano ai baffi importanti in un look simil-ottocentesco. Lo sguardo, poi, era fatto di due pozzi neri ricolmi di petrolio fluido e infido come sabbie mobili. Nat ebbe la fuggevole impressione di scorgere qualcosa d’altro, in quegli occhi, forse un riflesso o una velatura… ma poi si fece ricatturare dalla canzone.
Diceva che, sai, è meglio il diavolo che conosci già.
«Allora, topastro delle zone rurali», lo apostrofò Lurch l’Inglese, con tono sprezzante e scafato, l’accento che denotava distintamente e marcatamente le sue origini geografiche. «Vuoi sederti o preferisci startene lì, impalato come un fottuto spaventapasseri, a farti prendere per il culo per il resto della nottata?»
«Perché…?», fece Nat, prendendo posto davanti all’uomo già seduto, in quell’angolo dove le ombre della mezzanotte prevalevano sulle luci del locale. «Perché mi chiama così?»
Lurch, tanto per cominciare, versò del liquore in uno dei due bicchierini sul tavolo. L’altro era già pieno a metà. Entrambi erano macchiati di grasso e impronte digitali untuose. L’etichetta della bottiglia era una Union Jack nel mezzo della quale campeggiava un teschio nero con la barba e una corona posta sul cranio, sormontato dalla dicitura “The King of Kings”, e Nat concluse, con una punta di sconcerto, che Lurch, da morto, avrebbe avuto le esatte sembianze di quel teschio.
L’Inglese spinse il bicchiere verso il nuovo arrivato, sul tavolo dalla superficie ruvida e segnata da cerchi di birra e varie incisioni, e Nat lo prese senza neanche pensarci più di tanto. «Chiamalo sesto senso, se vuoi, o quinto e mezzo, per citare un tipo di mia conoscenza», affermò, nei suoi modi rudi, Lurch; si tolse la sigaretta dalla bocca e la ricacciò tra le labbra solo dopo aver mandato giù il bicchiere, sicuramente non il primo della serata, di King of Kings. «Non è per qualcosa di simile che mi stavi cercando?»
«Sì», ammise Nat, seccamente, la gola riarsa. «Ma, per quanto ne so, possono a-verti informato prima che arrivassi.»
«Sicuro», commentò Lurch. «Figurati se un informatore si scomoderebbe per uno sgorbio di merda come te.»
Nat non seppe come reagire a quell’esternazione. Pensava che avrebbe dovuto sentirsi offeso. Ma non vi riuscì. «Se sei così bravo», si ritrovò invece a dire, «perché non me la dici tu stesso la ragione per cui mi trovo qui?»
Lurch rise, anche se in realtà parve più un mezzo abbaiare, e si versò un altro bicchiere di alcol. «Te lo concedo, topastro, hai le palle. Pure se tremi come una foglia rinsecchita sopravvissuta per caso all’autunno. Ma le palle non sono tutto, nella vita, sennò non saresti venuto da me. Dico bene?»
Be’, sì, Lurch l’Inglese diceva bene. O sarebbe stato forse più adeguato dire che, di palle, né Nat né chiunque altro potevano averne abbastanza per affrontare quel che lui aveva incrociato lungo il pezzo più recente del suo tracciato biografico. «Mi hanno detto che… insomma, che tu sai… che hai certe capacità.»
«Prendere a calci in culo i mostri? Puoi scommetterci le chiappe, amico, o le palle per le quali ti ho appena elogiato!», confermò Lurch. «Me l’ha insegnato mia madre, a prendere a calci in culo i mostri, quando m’ha buttato fuori di casa a quattordici anni.»
Inizialmente, Nat pensò che Lurch si riferisse al suo aspetto fisico, ma poi non ne fu così sicuro. Sospettò che, dietro, ci fosse una qualche allusione. Ma non aveva né il tempo né la voglia o l’intenzione di approfondire. E pareva che pure il suo interlocutore fosse del medesimo avviso. Allora Nat fu sul punto di parlare, ma qualcosa glielo impedì, perché si accorse di sentire tanto, troppo caldo, adesso. Si portò la mano al collo alto del maglione, lo allargò appena e poi la rimise al posto, attorno al bicchiere ancora pieno. Lo ingurgitò e constatò che si trattava di whiskey. Era forte. Gli strappò, in collaborazione con l’acre fumo che ingravidava l’aria del Whorehouse Blues, qualche colpo di tosse.
«Adesso che hai buttato giù un po’ di coraggio liquido, topastro, hai intenzione di vuotare il sacco?» L’Inglese gettò via il mozzicone di sigaretta e se ne accese subito un’altra. Alla fiamma dell’acciarino d’oro, massiccio e sgraziato, Nat notò lo scintillio appuntato al petto di Lurch. Indossava una collana, e il pendaglio, nel mezzo del petto villoso scoperto per via della camicia color senape sbottonata, era a foggia di croce celtica. Nat sentì qualcosa disfarsi, dentro di sé, all’altezza dello stomaco. Ma aveva davvero importanza, in tali circostanze, che oltre a un mezzo fuorilegge a capo di una banda di motociclisti, Lurch l’Inglese fosse anche una sottospecie di neonazista? Ed era davvero tanto disperata la situazione? Oh, sì, diamine se lo era. «La notte è appena iniziata», ricominciò il delinquente, la cui età poteva andare dai cinquanta ai settanta e in ogni caso attagliarsi poco al suo aspetto, e ingollò un altro bicchiere, «ma ha la tendenza a filare via veloce come un bel sogno.»
Nat si ritrovò desideroso di un secondo cicchetto di whiskey, bello forte e bello esplosivo, se non altro per sciogliere la lingua che s’era trasformata in un pezzo di roccia magmatica, secca e porosa, impossibile da articolare. Era assurdo che, nonostante tutto, gli venisse ancora tanto difficile pronunciare quella parola. Vuotare il sacco, per dirla alla Lurch, quando il sacco era ricolmo oltremisura d’orrori indicibili. Ma, in fin dei conti, si è umani e ci si abitua a ogni cosa: nulla, neppure il peggiore degli orrori, può mai realmente essere indicibile. E poi c’era quella vecchia storia che, se riesci a nominare le cose, ottieni potere su di esse. Giusto?
La gola parve chiudersi in sé stessa, ostruendosi, oppressa dal caldo infernale che cominciava a fare là dentro e prigioniera del maglione a collo alto, mentre i bottoni del doppiopetto parevano essere chiodi piantati a forza nel torace, comprimendo la gabbia toracica in una cella dalle sbarre arroventate. Tutto minacciava di collassare su di lui, impedendogli la ventilazione, asfissiandolo poco a poco. Sentiva gli occhi sporgersi dalle orbite e la vista distorcersi, come se stesse guardando Lurch attraverso una lente deformante, e poi, di colpo, tornò in superficie. Faceva ancora caldo, sì, ma il momento di panico era passato. Diventavano sempre più frequenti da quando…
«Cazzo, topastro, non ho mai visto qualcuno sconvolto fino a questo punto… se non me stesso quando mi rendo conto di aver finito le scorte di whiskey a casa», commentò Lurch; allungò il braccio e gli versò altre due dita di King of Kings. «Dai, su, bevi per ingigantire le palle.»
Nat non pensava fosse la cosa più sensata da fare, considerando quella sottesa e costante sensazione di soffocamento, ma, d’altronde, cosa era rimasto di sensato in ciò che circondava la sua esistenza? Mandò giù in un’unica soluzione. Sentì il fuoco divampargli dentro, sprizzando contro il retro dei bulbi oculari, e la voce della canzone – possibile mai che fosse ancora la stessa di poc’anzi? Quanto cavolo durava? E perché si stava focalizzando su un dettaglio tanto irrilevante? – che, in tono ossessivo e asettico, supplicava qualcuno a farle l’anima a pezzi e sommergerla nel suo mare di oscurità. Una metafora calzante. Ancora una volta. Era proprio vero che la musica sa, di te, più di quanto tu stesso possa sapere. Nat deglutì una palla incendiata che gli bruciò tutta la gola e poi schioccò la lingua. «Possessione demoniaca», disse. «Ho bisogno… di un esorcismo.»
Quello che Nat Hoffman aveva faticato a dire ad alta voce, e che fino a qualche giorno addietro aveva pure faticato ad accettare nonostante il susseguirsi di atrocità delle quali era stato impotente testimone e inutile oppositore, non sembrò apportare alcuno scompenso a Lurch l’Inglese.
«Un esorcismo», ripeté quest’ultimo, lambiccandosi ancora con la sua bottiglia di whiskey, sferzando occhiate di spiccata superiorità al proprio interlocutore. «Tu, topastro, mi stai chiedendo di praticare un esorcismo.»
«Già», confermò Nat, ancora non interamente certo di quanto detto, sebbene il liquore avesse sciolto una parte di inibizioni mentali e verbali. «Mi risulta che l’americano non sia poi tanto diverso dall’inglese.»
La risata di Lurch fu come un grattare ringhioso. Offrì dell’altro King of Kings a Nat e, quando questi declinò, lui bevve direttamente dalla bottiglia. Mandava giù liscio come se si fosse trattato di acqua. «Dimmi, topastro, ti sembro forse un prete? Fino all’ultima volta che ho controllato, sai, non ho notato nessun collarino bianco né alcuna attrazione sessuale verso i bambini.»
Lo stentato sorriso di Nat parve provenire dalla lieve distensione dei muscoli facciali di un volto lontano miliardi di anni luce da quella fogna di locale nei recessi di Allport, Stato di Allport, Stati Uniti d’America. «Ho provato a rivolgermi alla chiesa», disse. «Non è servito.»
«Tipico!», esclamò Lurch, dando fondo a quel poco che restava del whiskey, senza curarsi minimamente di celare un dirompente disprezzo. «È questo che fa, la chiesa, topastro: sa sempre quale sia la cosa giusta da fare, si arroga il diritto di dettare il corretto ordine del mondo e delle cose e delle azioni umane, ma quando le faccende si fanno serie… delega tutto ad altri.» Scoppiò in un rutto rombante, gettò via la bottiglia e si calò sul naso gli occhiali da sole, completamente neri, che fino a quel momento aveva tenuto sulla testa. «L’esorcismo è roba da vecchio mondo. Da medioevo. L’età moderna, tutta scienza e modernità, non può permettersi la presenza di possessioni demoniache ed esorcismi. La chiesa ha dovuto ripiegare, o avrebbe rischiato di diventare più desueta di quanto già non sia e subire una delegittimazione pressoché totale, perciò ha preferito creare nuove streghe da attaccare – come l’aborto e il preservativo –, perché la religione è un’ideologia e ogni ideologia ha bisogno di streghe da bruciare, per poter sopravvivere, pure derubricando le questioni diaboliche all’ambito psichiatrico.»
«Evolviti o muori», commentò, lapidario, Nat; fu ancora come se a parlare fosse stato un individuo non identificato e collocato in tutt’altra dimensione spaziotemporale. In effetti, entrare al Worehouse Blues, e prima ancora addentrarsi nel quartiere che lo inglobava, era stato come varcare la soglia tra una dimensione e un’altra. Era stato come accedere a una pessima imitazione del peggiore degli inferni. «È un fatto di sopravvivenza.»
«Preferisco crepare piuttosto che sopravvivere ripudiando me stesso», sancì Lurch. «Mostro da vivo, topastro, e mostro da morto.» Piazzò le mani sul tavolo e si alzò. Le luci al neon scintillarono fredde sulle lenti nere. «Andiamo: mi parlerai di questa storia per strada.»
Nat aggrottò la fronte. «Accetti… l’incarico?»
«L’ho accettato nel momento stesso in cui hai poggiato il tuo culo sulla panca.» Lurch puntò l’indice in alto. «Aspettavo che la canzone finisse. La vita è troppo breve per ascoltare musica di merda. Quella poca roba buona che c’è al mondo, topastro, va goduta fino all’ultimo goccio.»
Nat tenne dietro a Lurch con fatica, mezzo intorpidito dal whiskey e dal caldo, e nel mentre si interrogava su quanto di buono fosse rimasto al mondo. A giudicare dal Whorehouse Blues, si disse, molto poco. A giudicare da Lurch, che prendeva quel nomignolo dal modo beccheggiante e mezzo zoppo che aveva di camminare, quasi nulla. A giudicare dalla storia dell’esorcismo…
Nathaniel Hoffman interruppe lì quel flusso di pensieri. Fuori, il vento freddo d’inverno lo schiaffeggiò con severità, e nondimeno lui provava ancora un inestin-guibile calore ardergli dentro. Si strinse nel doppiopetto e s’impose di non badarci.
La moto di Lurch l’Inglese era l’Harley Davidson più grossa e aggressiva che Nat avesse mai visto. Non che ne avesse viste molte, dal vivo e da così vicino, ma comunque rimase impressionato da quelle nere e possenti forme di metallo. Era davvero una belva, sotto ogni punto di vista, un leggendario animale selvaggio dalla pelle d’acciaio e l’anima di fuoco. A rinfocolarne l’aggressività, poi, contribuiva senz’altro l’emblema stampato sulle fiancate: il maestoso teschio di un mammut, con tanto di zanne ricurve, sormontato da una corona di rostri affilatissimi. Doveva trattarsi, concluse Nat, del simbolo che contraddistingueva i Motörazor, la banda di motociclisti fondata e capitanata da Lurch, molti membri della quale erano assidui avventori del Whorehouse Blues… e delle celle del penitenziario statale.
In ogni caso, i due optarono per andare sulla modesta utilitaria di Nat, parcheg-giata qualche metro più distante dal ritrovo di motociclisti. L’abitacolo era freddo come fuori, perché i riscaldamenti non funzionavano a dovere già da un pezzo, ma Nat non ci fece caso né Lurch ebbe alcunché da ridire; lo stesso dicasi per il disordine che regnava dentro la macchina, alla quale era stata data una sistemata selettiva prima di partire alla volta del Whorehouse Blues, ma che fortunatamente non destò alcun fastidio nel capo dei Motörazor.
«È un bambino», cominciò a raccontare Nat, subito dopo aver ingranato la prima, i fari a spazzare le strade luride della lurida Allport. «Si chiama Matthew. Mattie. Ha tredici anni. E le… stranezze… sono iniziate esattamente il giorno del suo compleanno, due mesi fa.»
«Stranezze», riprese Lurch; prima di andare in macchina, aveva tirato una botti-glia di King of Kings da uno dei due borsoni della sua Harley, e adesso la teneva per il collo. «Oggetti che si spostavano da soli? Parole sussurrate in una lingua sconosciuta? Insonnia e rigurgiti di ogni tipo di cibo?»
«Cose così», confermò Nat. «Anche quando i suoi genitori riuscivano a metterlo a letto, lui si svegliava sempre intorno alla mezzanotte, urlando suoni senza senso.» Sospirò. «Il giorno del suo compleanno ha inspiegabilmente dato una testata sulla sua torta, procurandosi lievi ustioni con le candele accese, e sul finire dei festeggiamenti si è ficcato uno di quei minuscoli petardi sferici dritto in bocca. Se non fosse intervenuto suo padre…»
«Immagino che, innanzitutto, i genitori del bambino si siano rivolti al medico di famiglia.» Nat annuì di fronte all’ipotesi avanzata dal motociclista, che era pure noto per le sue conoscenze nel campo dell’occultismo, e questo Nat l’aveva scoperto bazzicando un po’ nei bassifondi della Rete e di Allport. «Gli esami, però, non hanno dato nessun riscontro particolare.» Nat annuì ancora. «Poi le cose sono peggiorate e allora, a un certo punto, si sono rivolti alla chiesa.» Altro cenno affermativo. «E tu, topastro, cosa c’entri in tutto questo?»
«Sono lo zio di Mattie», rispose, subito, Nat. «Sua madre, Annie, è mia sorella. E io sono l’unico… che sappia… che abbia assistito a quanto è accaduto.»
«Dovete essere molto uniti. Molto intimi. Difficilmente le persone estendono si-mili fatti ad amici o familiari. Temono di essere presi per pazzi. Di venire tagliati fuori. Di essere esclusi ed emarginati.»
«Annie si è vista costretta a farlo», spiegò Nat. «Dopo che Mattie… Ecco, dopo che la cosa che si è impossessata di Mattie ha… ha ucciso suo padre. Gli ha morso la gola. Ha dei denti… Insomma, gli ha strappato via buona parte della gola, arrivando fino alla carotide. Gliel’ha stracciata. È arrivato in ospedale già morto. Ufficialmente, il suo decesso è stato classificato come l’aggressione di un randagio, e non mi chieda il come. Voglio dire, non è facilissimo che un cane randagio entri in casa, di punto in bianco, e ti azzanni alla gola. Fatto sta che è finito pure sui giornali. Un trafiletto, due o tre settimane fa.» Il semaforo all’incrocio mostrava il bollino arancione, e il whiskey ingerito spinse Nat a premere sull’acceleratore e passare prima che spuntasse il rosso, attirandosi qualche maledizione e diversi colpi di clacson e un bel vaffanculo in formato dito medio. «Annie non ce la faceva ad affrontare la cosa da sola. E così, dopo il funerale, mi ha chiamato in disparte e mi ha messo al corrente della vicenda. Non siamo una famiglia molto grande, né molto affiatata, a dire il vero, ma questo… questo è diverso. Appena l’ho visto…»
«Nessuno, al funerale, si è insospettito per l’assenza del ragazzo?»
«Sì, certo, ma Annie ha detto ai presenti che, in seguito alla morte del padre, Mattie non stava benissimo e quindi lei aveva preferito lasciarlo a riposare in camera sua», rispose Nat. «Stiamo riuscendo a mantenerlo segreto… ma non sappiamo quanto potrà durare. Alla lunga, i parenti e gli insegnanti si insospettiranno, per non parlare degli amici che chiamano quasi ogni giorno per sapere come sta Mattie.»
«Due mesi», commentò Lurch, pensieroso, battendo ritmicamente un dito sulla bottiglia; nel farlo, per via del grosso anello che indossava al medio, produceva dei rintocchi tintinnanti. «E ancora nessuno che si sia fatto avanti come si deve.»
«Credo lo facciano per delicatezza», butto lì Nat. «Ma… come dicevo, non so per quanto ancora possa andare avanti in questo modo. Se non i familiari… la scuola potrebbe mandare lo psicologo dell’istituto, se non contattare i servizi sociali, addirittura.»
«Non vi siete rivolti a qualche strizzacervelli?»
«Il medico di base ce ne ha indicato uno, dopo i vari esami inconcludenti, ma… quando Mattie ha ucciso suo padre… io e Annie abbiamo capito che doveva esserci qualcosa di più che un semplice problema mentale. Il parroco con cui abbiamo parlato… ha inoltrato la richiesta ai suoi superiori, ma, dopo una settimana, il riscontro è stato negativo. Per loro, tracciare il nome di Dio con la pipì contro il muro o mangiare pagine della Bibbia per poi vomitarle e azzannare a morte il proprio genitore, inneggiando a quest’ultima cosa come un tributo in onore di… Idralion… Tutto questo, dicevo, per la chiesa non può avere a che fare con la possessione demoniaca.»
«Fottuti codardi», imprecò Lurch, grattandosi la guancia, tra i grossi nei e la barba cisposa. «Confinati nelle loro illusioni di poter salvare il mondo a suon di preghiere e oboli.» Si era acceso un’altra sigaretta, senza neppure chiedere il permesso, e Nat aprì il suo finestrino per evitare di soffocare. Ma, nel profondo, sapeva che la causa non sarebbe stata del fumo. «Conosci Hellsing, topastro? È una cittadina inglese. Si trova nelle regioni nord-orientali, ed è lì che sono cresciuto. In passato, è stato un villaggio a lungo abbandonato, e sul quale si raccontavano storie tremende. Molte di queste storie, ossia le peggiori, erano vere. Allport è una città come Hellsing. Sono due di quei posti, sparsi su questo pianeta, dove vale il verso shakespeariano per cui l’inferno è vuoto e tutti i diavoli sono qui.» Lurch abbassò il finestrino per gettare il mozzicone fumante e se ne accese un’altra ancora senza esitazione alcuna. «Non puoi combattere il male parlando e mendicando. Devi combatterlo concretamente. Con le azioni. Con il corpo. Con lacrime, sangue e sudore.» Usò la mano libera per afferrare la croce celtica che gli pendeva sul torace. «Con la magia.»
«Magia?», chiese Nat.
«Sì, topastro, con la magia», ribadì l’occultista. «La magia è credere talmente tanto in qualcosa, persino in una menzogna, da farla diventare vera.»
«Fede», disse Nat. Mise la freccia e svoltò; ormai erano vicini alla destinazione. E anche lui, muovendo simili affermazioni, sentiva di essere quasi arrivato. Quasi giunto a un capolinea interiore che sprofondava in un baratro infinito. «Sembra tu stia parlando di fede.»
«È tutto riconducibile alla fede», sentenziò Lurch. «Le cose, intorno a noi, sono davvero ciò che sono? No. Sono ciò che noi crediamo che siano.» Stappò la bottiglia e prese un bel sorso. «La chiesa ha perso la fede in questo genere di cose. Un esorcismo non potrebbe funzionare. Non avrebbe potere. Non influirebbe sulla realtà perché la loro realtà è diventata tutt’altra.»
«Ma la religione non è magia», sbottò Nat. «È… religione.»
«Già, topastro, non lo è. La religione non è magia. Non più.»
«E tu? Hai quel di cui c’è bisogno? Hai la magia?»
Lurch si girò verso il conducente e gli sbuffò una fumata sul lato destro del volto. A Nat parve di sentire puzza di zolfo. «Certo che ce l’ho, topastro, ho la magia. Magia cattiva.»
«Hai detto “Idralion”?»
Avevano lasciato la macchina in doppia fila, dirimpetto al palazzo verso il quale si stavano dirigendo, uno di quei grossolani giganti grigiastri che assediavano i quartieri addossati tra la scorza intorno al centro storico e la fascia periferica della città. Un tempo, lì ci abitava la media borghesia, ma gli anni erano passati e adesso la fauna risultava più eterogenea e non completamente benestante.
Il vento soffiava forte, a intervalli irregolari, e Nat poteva sentire la netta contrapposizione tra la pelle gelata e le fiammate d’inferno che gli infuriavano dentro. Si girò verso Lurch mentre aspettavano che qualcuno rispondesse al citofono. «Sì», disse. «Ne parla spesso. Anche quando lo fa in altre lingue… perché sì, certo, a volte parla in un mucchio di lingue diverse…. questo nome, Idralion, torna sempre.» Non rispose nessuno, ma un impulso elettrico fece aprire il portone dal legno consunto e il pomolo d’ottone mezzo svitato, quasi pendente. «Perché?»
«È un’antica entità demoniaca», rispose Lurch, riavviandosi i capelli, che parevano un’oleosa cascata di catrame. «Viene nominato in testi ben più antichi della Torah.»
Nat varcò la soglia e si fermò a fissare l’occultista, ancora fuori dal condominio, fustigato dalle ululanti spire del vento. «Saperlo può esserci d’aiuto?»
Lurch gettò la cicca di sigaretta e la spense sotto il tacco del suo stivale texano a punta. «Non sai quanto.»
Annie sfiorava la quarantina, ma l’incubo nel quale era stata precipitata da due mesi a quella parte aveva fatto sfiorire il grosso della sua bellezza: il volto era pallido, quasi quanto quello di Lurch, e vistose borse grigie le cascavano sotto gli occhi. Qualche chilo in meno e, fotografata in bianco e nero, sarebbe stata una credibile testimonianza delle condizioni degli ebrei nei campi di concentramento.
Accolse i due ospiti dall’interno dell’ascensore, al pian terreno, e indietreggiò per invitarli a entrare. Il motociclista la salutò con un cenno del capo e lei si defilò verso il lato della pulsantiera, insieme a Nat, infine schiacciò un pulsante.
«Grazie… Nat», disse, evasiva nello sguardo, la voce ridotta a un filo di seta teso su un pozzo di fiamme roventi.
«Non devi», le assicurò lui. «Se tutto andrà bene, c’è soltanto una persona che dovremo ringraziare.»
«Neanche in quel caso», aggiunse Lurch, che si era già messo un’altra sigaretta in bocca, infischiandosene anche di Annie; quando le offrì un goccio di whiskey, poi, la donna rifiutò con un movimento del capo. «Non lo faccio per voi. Non lo faccio neanche per il ragazzo. E nemmeno per la pace nel mondo.» Guardò verso le porte dell’ascensore mentre il macchinario procedeva nella sua discesa. «Lo faccio perché prendere i mostri a calci in culo è l’unica cosa che mi sia stata insegnata. E praticare un esorcismo non è granché diverso dal prendere a calci in culo un mostro.» Nat lo aveva già sentito ridere, ma non lo aveva ancora visto sorridere. Successe in quel momento e si sentì cogliere da un brivido: era, più che un sorriso, un truce ghigno di bieco cinismo. «Solo un po’ meno divertente.»
Le porte dell’ascensore si aprirono, nel giro di una decina di secondi, dando su un ampio sotterraneo dalle pareti grezze e l’umidità densa come gelatina. Soffiava un gran freddo, laggiù, e l’aria entrava fin dentro le ossa, facendo scricchiolare tendini e legamenti, nella sua subdola morsa.
«Abbiamo dovuto tenerlo qua sotto, in cantina», illustrò Annie. «È… è uno spazio comune, diviso in scompartimenti, ma raramente i condomini scendono quaggiù.»
Il sotterraneo si dipanava in un lungo e largo corridoio, dal soffitto tanto basso che i capelli di una persona di normale statura lo sfioravano, e ai lati si trovavano dei cubicoli dalle porte d’acciaio che si alternavano tra il rosso e il blu. Sembravano dei piccoli container messi uno accanto all’altro. Ogni porta era contrassegnata da un numero e ognuno dei cubicoli doveva misurare circa cinque metri quadri.
I tacchi di Lurch gettavano secchi echi nella cantina, i respiri erano scanditi da nuvolette d’aria condensata, Nat sentiva il cuore pulsare a ritmi forsennati nelle o-recchie e un tamburo rullare contro le tempie.
Annie li condusse allo scomparto numero undici, estrasse un mazzolino di chiavi e ne infilò una nella toppa, girando prima ancora che Nat potesse dire qualcosa. Prima ancora che potesse raccogliere un po’ d’ossigeno nei polmoni e prepararsi alla scena. Nonostante tutto, nonostante quei quasi due mesi, non era pronto. Non lo era mai. Perché è vero che ci si abitua a tutto, in quanto umani, ma certi orrori sono fuori da qualsiasi portata di accettazione. Certe cose sono semplicemente irricevibili, inaccettabili, impossibili da assimilare. La mente si chiude e rinuncia ad accoglierle.
La vista di quel bambino, per esempio, nudo e rinsecchito ai limiti dell’inedia. Quel bambino, tutto ossa e denti, gli occhietti infossati in occhiaie nere e i polsi scorticati per le manette di corda che lo assicuravano saldamente alla parete in fondo. Quel bambino dalla pelle grigiastra, color della cenere, il ventre gonfio e le costole che sbucavano fuori da squarci incrostati di sangue. Quel bambino, dalle labbra tumefatte e violacee, la respirazione affannosa come quella di un bulldog che abbia corso per intere ore e i ringhi sommessi, coordinati con la ventilazione, che sibilavano tra quei denti sporgenti e assurdamente seghettati.
«Ha passato un’intera notte a strisciarli contro il muro… come per arrotarli», disse Nat, più che altro per ricordarlo a sé stesso, nello sforzo di non credere a una tremenda mutazione demoniaca. «Annie e mio cognato… lo hanno ritrovato, al mattino, inerte e con un grumo di sangue al posto della bocca.»
Lurch l’Inglese avanzò nel fetore pestilenziale di feci e urine vecchie di settimane, sudore pungente e carne putrescente, irrancidita, probabilmente le ferite ai polsi che avevano preso a infettarsi e incancrenirsi. Le pareti laterali del box erano dello stesso acciaio della porta, mentre quella alla quale stava accasciato Mattie era fatta di cemento, ruvido e scrostato.
L’occultista picchiettò sulla porta con le nocche e, come di riflesso, il bambino si scagliò verso di lui a bocca spalancata e lanciando un latrato lacerante. Trattenuto dalle corde, tuttavia, non riuscì a raggiungerlo. Ciò non gli impedì di insistere nel protendersi, pure a fronte dei legacci che gli scavano nella pelle fragile, mangiandola via. «Già», chiosò, secco, Lurch. «Deve aver fatto parecchio male, eh, ragazzo?»
Mattie continuava a tendersi verso lo sconosciuto, producendo sonori schiocchi di mandibola, aprendo e chiudendo continuamente i denti come nella grottesca imitazione di una trappola per orsi. «Mai quanto ne farà a te, maiale!»
«Devi aver visto tanti film dell’orrore», gli disse Lurch. «Risvegli notturni, blasfemie varie e linguaggio scurrile», ricapitolò. «In quanto a fantasia, stai messo male, ammettiamolo.»
«Avvicinati e te lo faccio vedere io, un vero film dell’orrore, bastardo di un inglese!», lo apostrofò Mattie con quella voce che era sì di un bambino ma distorta in urla tanto atroci da spezzarla. «Taglia questa corda e io ti taglierò il cazzo e ti costringerò a mangiarlo!»
Appena fuori dal cubicolo, Annie si mise a singhiozzare, le infinite lacrime di una madre che, per quanto si sforzi, non riesce più a riconoscere il proprio figlio; non riesce più a trovarlo, per quanto si sforzi di cercarlo, e mai e poi mai vorrebbe arrendersi all’evidenza di averlo perduto per sempre. Nat le mise un braccio intorno alle spalle e se ne stette in silenzio. Aveva già parlato abbastanza, anche troppo, in presenza di Mattie, e ogni parola era stata vana, superflua, ritorta contro sé stesso e contro tutto ciò in cui aveva sempre creduto.
A quel punto, il bambino virò, di scatto, la testa verso Annie. Suggerì l’immagine di un serpente, il più subdolo e letale, che aveva adocchiato la sua prossima preda. «E poi io farò mangiare il mio a quella puttana di mia madre», sibilò; infine lampeggiò lo sguardo sanguigno su Nat. «Non prima di aver sgozzato quel porco del pretuncolo.»
D’un tratto, l’aria si fece pesante, un blocco di ghiaccio.
Lurch scagliò un’occhiataccia verso i due in piedi dietro di lui. Raggiunse Nat in tre passi e lo afferrò per lo spesso collo alto del maglione. Glielo tirò giù e rivelò, in tal modo, l’oggetto della vergogna: il collarino ecclesiastico. «Ecco cos’è che mi tenevi nascosto, topastro», gli disse. «Sei un fottuto prete.»
Da tergo, Mattie si sganasciò in feroci risate isteriche, un suono acuto che rim-bombò per l’intera area dei sotterranei, rimbalzando contro le mura di cemento e le pareti d’acciaio. Sembrava di stare in un manicomio sciamante di pazzoidi. «Non lo sapeva! Non gliel’hai detto! Ti sei messo a cercare qualcuno che potesse aiutarti senza però dirgli che sei un cazzo di prete!»
Nat deglutì e sentì Annie, irrigidita come un pezzo d’alluminio ondeggiante, ritta accanto a sé. «Mi hanno avvisato. Quando… quando i miei superiori hanno negato il permesso per l’esorcismo, ho provato a farlo da me, ma non sono stato in grado. E quando ho cercato… su Internet, e non solo, mi hanno detto che tu odi i preti. Sei un anticlericale. Se mi fossi qualificato in quanto sacerdote, al Whorehouse Blues, probabilmente mi avresti fatto scannare dai tuoi compari.»
«Puoi scommetterci tutte le tue fottute ostie che odio i chierici, topastro», gli grugnì dritto in faccia l’occultista. «Mia madre leggeva la Bibbia e si batteva il petto in chiesa ogni dannata domenica. E inneggiava il nome di Dio mentre, a quattordici anni, mi cacciava di casa perché non ero animato dalla sua stessa fede. L’avevo persa una settimana prima, quand’ero andato alla chiesa di Hellsing per portare a padre Cummings la crostata di ciliegie che mia mamma gli preparava ogni mattina, e lo avevo trovato sul cortile esterno a schiaffeggiare una bambina col suo rugoso cazzo moscio colante di sperma.» Stringeva ancora il colletto alto del maglione di Nat. «Trovai il coraggio di dirlo a mia madre solo dopo sette giorni. E lei, per tutta risposta, si è infuriata e mi ha ordinato di andare a confessare quelle bestemmie suggeritemi dal diavolo. Ma io, topastro, avrei preferito spararmi in testa piuttosto che inginocchiarmi al confessionale davanti a quel cancerogeno pezzo di merda.» In sottofondo, Mattie continuava nella sua risata inarrestabile, come se Lurch stesse raccontando la barzelletta più spassosa del mondo. Una vera chicca. Nat, dal canto suo, era atterrito dalla veemenza che scorgeva nella voce e nello sguardo del motociclista. Era un odio puro, pur ammettendo che l’odio possa essere puro, e viscerale. «Se Dio è saggio, le ho chiesto, perché resta fermo? Quando questi falsi profeti lo chiamano “amico”, perché se ne sta zitto? È cieco? Siamo abbandonati, alla fine dei conti?»
«Non… non è così semplice», riuscì a dire Nat; sudava freddo, grondava letteralmente sudore, le mani poggiate attorno all’avambraccio di Lurch parevano estremità altrui perché intirizzite dal freddo. «Lui… ci ha… ci ha fatto dono della libertà…»
«La verità, topastro, è che il suo volto è girato altrove», ringhiò Lurch l’Inglese. «Non ha mai avuto niente da dire. Dio non è mai stato al nostro fianco. Non c’è mai stato.»
«Ma io sì!», ruggì Mattie, dalle retrovie, tendendo al massimo le corde che lo ancoravano al muro. «Io sono qui, tutto per voi, a tormentarvi nelle carni e nelle anime!»
Lurch svitò il tappo della bottiglia e lanciò del whiskey addosso al bambino. «Tu sei solo una cancrena purulenta che dev’essere disinfettata dalla faccia del pianeta», minimizzò con disgusto. «Se non c’è nessun dio, non c’è neppure nessun diavolo, ragazzo. L’inferno è vuoto perché non esiste nemmeno, e gli unici demoni sono i mali commessi dagli uomini.»
«Ma…», fece, incerto, Nat. «E Idralion? Tu…»
«Non esiste nessun cazzo di Idralion», tagliò corto Lurch. «Ti ho retto il gioco finché le cose non si fossero fatte più chiare.»
«Cosa diamine c’è, di chiaro, in questo casino?», sbottò Nat; accanto a lui, inginocchiata da parte, Annie continuava a singhiozzare con la testa stretta tra le mani. Fu lungamente tentato d’imitarla. «Dio…»
«Il fatto che esistiamo solo noi, topastro, non vuol dire che possiamo esistere soltanto in questa dimensione terrena», disse Lurch. «Siamo qualcosa di più che unicamente corpo. Siamo mente, anima, spirito, mettila come vuoi. Ma qualcosa in più c’è. Qualcosa che permane quando la materia si disgrega. E questo qualcosa, di tanto in tanto, rimane aggrappata a questa nostra dimensione. Non vuole andarsene…», si voltò verso Mattie, «… e allora si insidia nella pelle di qualcuno, magari spacciandosi per un qualche demonio, ma in realtà è poco meno di un essere umano incorporeo. La forma cambia ma la sostanza resta.»
«Io sono Idralion!», insisté, coriaceo, Mattie. «Io sono Moltitudine di Diavoli e Flagello dell’Umanità!»
Lurch gli gettò dell’altro liquore in faccia. «Tu non sei niente. Una manciata d’aria cattiva rimasta troppo a lungo in una stanza. Bisogna solo che si apra un po’ la finestra.»
Mattie riprese a ridere sguaiatamente. «Oh, sì, testa di cazzo! Tira fuori le tue formule esoteriche e i tuoi sortilegi! Vediamo quanto te la cavi! Vediamo che cazzo fai!» Da fuori, giunsero dei rumori, un coro di cigolii. Vecchi cardini mezzi arrugginiti. Porte che si aprivano gemendo. Quelle degli altri quindici box situati nelle viscere del palazzo. Annie gettava occhiate spiritate lungo il corridoio. Nat sentì il sangue raggelarsi nelle vene. «Io sono Idralion, bastardo d’uno stregone da quattro soldi bucati, e per ogni testa che mozzi ne spunteranno altre due!»
«Oh, cazzo», imprecò Lurch; dopodiché, scoppiò a ridere, indecoroso e sinceramente divertito. «Oh, cazzo, topastro», fece a Nat, che in giro, nel quartiere, era conosciuto perlopiù come padre Hoffman o padre Nat. «In che cazzo di casino ci hai ficcati. Proprio un bel casino del cazzo.»
Padre Nat, fermo sulla soglia dello scompartimento sotterraneo destinato alla famiglia del piccolo Matthews, faceva vagare lo sguardo, errante e tremebondo, dal viso terrorizzato di Annie alla faccia deformata di Mattie al grugno sogghignante di Lurch. Quella situazione rischiava di avere una conclusione insensata e abominevole come tutto il resto della storia: le mostruosità commesse dal bambino, il brutale omicidio del padre, il surreale funerale e i vani tentativi di esorcismo, durante i quali le preghiere erano risuonate, alle orecchie dello stesso sacerdote, un cumulo di vacue formule tramandate per tradizione e prive di qualsivoglia contenuto. L’esistenza, gettando la maschera della religiosità, si rivelava per quel che era: un ammasso informe, talora mostruoso, di eventi casuali. Più per abitudine che per volontà, Nat si ritrovò a eseguire il segno della croce, prima di sporgere la testa fuori dal cubicolo.
Lurch gli poggiò una mano sulla spalla. «‘Fanculo un qualsiasi dio e ‘fanculo il Diavolo e ‘fanculo anche la chiesa», gli disse. «Noi siamo responsabili delle nostre azioni. Non abbiamo bisogno di nasconderci dietro qualcosa. Quel che abbiamo fatto, l’abbiamo fatto noi, di qualunque cosa si tratti.»
Nat lo fissò inespressivo. «Io… non capisco. Che cosa sta succedendo?»
«L’amico che è strisciato nelle sembianze del ragazzo», rispose Lurch, indicando Mattie con il pollice, mentre in corridoio si allungavano orrende ombre antropomorfe. «Deve essere un’anima particolarmente tormentata. Il mio quasi sesto senso mi dice che può essere qualcuno morto al manicomio criminale di Allport, ci scommetterei le chiappe mie e tue, magari un qualche assassino sociopatico. Dev’essere stato affetto da un particolare disturbo multiplo della personalità…»
«E quando ne viene soppressa una», completò Nat, come se tutto stesse acquisendo un certo senso, di punto in bianco, per quanto allucinante esso fosse, «altre due prendono il suo posto.»
«Già», ultimò Lurch, prendendosi una sorsata di whiskey, per poi sostituirsi la sigaretta all’angolo della bocca. «Abbiamo un bel po’ di esorcismi e calci in culo da somministrare, stanotte, topastro.» Afferrò il massiccio pendente che indossava al collo smagrito e lo tirò in avanti. «Nazismo questo gran cazzo, roditore di chiesa, quel malato mentale coi baffetti si appropriò indebitamente di questo simbolo e lo svilì di ogni significato e delle sue nobili origini… ma adesso sta’ a guardare quale può essere il potere sprigionato da una vera fede. Sta’ a vedere la magia.»
Mattie continuava a ridere, Annie a piangere disperatamente, e Nat trovò il coraggio, o l’incoscienza, di guardare in corridoio. Capì perché, in quei sessanta giorni, nessuno dei parenti di quella sventurata famiglia si fosse presentato per sincerarsi personalmente delle condizioni del piccolo: erano tutti quanti sottomessi al giogo dello schizofrenico defunto che, affetto da una grave forma di disturbo dissociativo dell’identità, si era dato un nome da demone. Idralion.
«Sì, dai, lurido merdone», lo invitò, in tono di sfida, il lacerante ringhio che fuoriusciva dalla bocca screpolata di Mattie; il ragazzino si voltò, dando loro le spalle, e si calò i pantaloni lerci mostrando il fondoschiena scarno e ossuto. «Prenditelo, se ci riesci, è tutto tuo! Vieni a prendertelo! Userai pure il piede, anziché il cazzetto, ma tra te e padre Cummings non c’è poi molta differenza!»
«Orecchie grandi e lingua lunga», lo apostrofò Lurch, digrignando i denti in un sorriso sbilenco, che pareva più una smorfia di morte. «Ma sai che c’è? Per una merda secca come te, coglione, non vale neppure la pena di sporcarmi gli stivali.»
Là dietro, padre Nat sobbalzò, e sentì Annie, accanto a sé, fare altrettanto e irrigidirsi per le ultime parole dell’occultista. Le ombre, intanto, continuavano ad avvicinarsi con inesorabile ed esasperante lentezza. E perché avrebbero dovuto fare diversamente? La morte non ha fretta. La morte può ghermire in qualsiasi momento. Conscia della sua inevitabilità, se la prende con calma, avanza senza affannarsi. «Santo cielo, che stai dicendo? Avevi detto… avevi detto che lo avresti fatto! Che lo avresti liberato! Hai accettato la proposta! Non… non puoi tirarti indietro!»
«Smetti di squittire, topastro», lo zittì Lurch. «O i calci in culo li do a te per ficcarti dentro un po’ di buonsenso.»
Detto questo, mentre la morte continuava a strisciare là fuori e Mattie – o chi per lui – si schiaffeggiava le natiche secche come prugne, ridendo con foga, Lurch l’Inglese tirò indietro il braccio e scagliò la bottiglia di King of Kings contro il ragazzino. Il vetro si spaccò all’istante, colpendo la parte sinistra della nuca di Mattie, e subito sangue e alcool presero a colare lungo tutto il gracile corpo martoriato posseduto dall’entità che si faceva chiamare Idralion.
Qualcosa, a quel punto, vinse la paura che raggelava padre Nat e lo sospinse a farsi avanti. Raggiunse Lurch e gli urlò: «Ma che diamine stai facendo! Basta! Devi liberarlo, non ammazzarlo, razza di mostro! Tu…»
Lurch parve ignorarlo e, piuttosto, si limitò a tirare fuori l’accendino e accostarselo alla nuova sigaretta schiacciata tra le labbra pallide. Quel che aveva ammazzato la voce nella gola di padre Nat erano state le mani del britannico. La sinistra, con la quale aveva tenuto stretto il medaglione al collo, mostrava ora, sul dorso, la stessa croce foggiata nel pendaglio. Pareva un tatuaggio impresso col fuoco. Fu con quella stessa mano che si accese la sigaretta. L’accendino, stavolta, emise una fiamma tanto intensa da risultare accecante. Per un attimo, le ombre che si allungavano laggiù, nei sotterranei del palazzo, sparirono. Un attimo dopo, però, si trovavano ancora lì, nei pressi di Annie, che non riusciva a smettere di piangere e tremare.
«Che cosa…», riuscì appena a dire padre Nat, riaprendo faticosamente gli occhi.
«Liberarlo, ammazzarlo…», disse infine Lurch l’Inglese; dardeggiò un’occhiata di nera e spietata brutalità verso il sacerdote dalla fede spezzata. «Tu credi davvero che ci sia differenza e che siano due alternative distinte e separate?»
D’un tratto, le intenzioni del motociclista risultarono lampanti tanto a padre Nat quanto a Annie, che restarono paralizzati dall’orrore e non furono in grado di fare niente che non fosse starsene fermi a osservare, increduli, quella scena infernale.
«Io ti sventro, rottinculo di un inglese, ti farò la stessa cosa che padre Cummings fece a quella fottuta bambina!», lo aggredì Mattie, fuori di sé, il corpo lucido di sudore, sangue e whiskey dall’assurda gradazione alcolica maggiore del settanta percento. «Io sono Idralion, e piscerò sulle carcasse dell’umanità, dopo averla sterminata fino all’ultima oncia di vita!»
«Modera i toni, cazzone», lo redarguì Lurch l’Inglese, sogghignante come un teschio, e padre Nat ebbe la certezza che fosse il teschio stampato sull’etichetta del King of Kings. «Guarda che fa male alla salute dare in escandescenze.»
L’occultista dimostrò la validità di quell’affermazione lanciando la sigaretta appena accesa sul ragazzino che una volta, e forse tuttora, da qualche parte dentro quel corpicino scheletrico, era stato Mattie. La fiammata scaturita dalla sigaretta fu improvvisa. Le fiamme, dapprincipio, tracciarono la forma di una croce celtica; dopodiché, divamparono in furenti lingue di fuoco, tramutandosi in un falò dall’odore dolciastro di carne abbrustolita e acre di cenere e nicotina.
Il corpo di Mattie si annerì, la pelle iniziò a disfarsi, sgretolandosi in colate collose e sbriciolandosi in polveri nere. I capelli svanirono, il naso si ridusse a una cavità senza fondo, gli occhi sporsero per un istante e poi si liquefecero e vennero pianti fuori dalle orbite vuote. Le corde, raggiunte dal fuoco, si sciolsero. Ma Mattie non andò da nessuna parte. Crollò sulle ginocchia, le braccia larghe e le mani protese, il fuoco che lo divorava riducendolo al calco annerito di una mummia. Non smise neanche per un istante di ridere a crepapelle. Fino all’ultimo, fino a che non venne divorato dalle fiamme, il suo giovane membro rimase oscenamente eretto, davanti agli occhi di un estraneo, di un prete e di sua madre, come eccitato dall’atroce sofferenza inflittagli dal fuoco. La risata continuò a risuonare anche quando, nel giro di un minuto o due, del ragazzino rimasero una chiostra di denti poggiata su un letto di ceneri fumanti. E non erano semplici risate; era un coro di risate. E provenivano da fuori… risate disordinate, ottuse, prive di significato.
Il chierico si astenne dal ricercarne uno, di significato, perché ritenne insensata la sola ricerca: quel che vide quella notte lo spinse a smettere di porsi simili domande. Che senso poteva esserci in un mondo in cui le ombre si animavano di vita propria, e il sole, rifulgendo della sua luce primordiale e atavica, assumeva le forme di una croce sovrapposta a un cerchio? Che senso c’era in un bambino, la più pura tra le creature del mondo, che diveniva improvvisamente un mostro omicida? Che significato poteva esserci nelle sue urla e nelle urla della donna che aveva condiviso con lui l’orrore di quei mesi e, in particolare, di quella notte? Che senso c’era in una vita che non finiva neppure con la morte?
Un tempo, avrebbe trovato confortevole la risposta a quella domanda, ma adesso lo scomunicato ex padre Nathaniel Hoffman sapeva che non c’erano giusti e ingiusti, che non c’era la vita eterna elargita da un Dio buono e premuroso, capace di rimediare a tutti i torti subiti quaggiù sulla terra degli uomini, che non c’era alcuna pace e alcun luogo di riconciliazione e amore.
Adesso, tra le pareti imbottite, asettiche e anonime dello Shisland Asylum, ex manicomio criminale e attuale ospedale psichiatrico al largo delle coste di Allport, la risposta alla domanda che l’internato Nat Hoffman aveva smesso di porsi era solamente una; e lo perseguitava, come uno sferragliante spettro ossessivo, a qualsiasi ora del giorno e della notte: le forsennate e dementi risate, riecheggianti nella sua mente devastata, di Mattie e di Lurch l’Inglese.
Ecco qual era il senso di tutto.
Altri episodi:
Ho sentito da qualche parte che ogni forma di magia (bianca, nera, verde o rossa, ecc…) è diabolica. La magia in sé, infatti, presuppone desiderio o volontà di piegare il destino o gli elementi al proprio o altrui vantaggio. È un po’ come il volersi mettere al posto di Dio, insomma. Per questo, come già espresso riguardo all’anteprima che mi hai regalato di questa storia, ho trovato “giusto” che il protagonista, Nat, finisca per trovare nella sua ultima e infedele risorsa un male ancora più grande.
RispondiEliminaQuello che mi ha colpito di più, fra l’altro, è proprio il contrasto fra lui e questo losco figuro che dovrebbe aiutarlo. Un personaggio alla Tarantino, che non si aggrappa a nulla e a cui niente e nessuno importa veramente; qualcuno tanto superbo e strafottente da convincersi di poter prevaricare pure su qualcosa di tanto inumano e decisamente sopra le sue forze.
Il vero male/orrore l’ho trovato lì, nel marciume dei ricordi che lo hanno influenzato e che lo muovono, non tanto nella furia delle azioni e dei dialoghi con cui hai caratterizzato il suo avversario demoniaco.