sabato 18 dicembre 2021

La Rubrica di Rubrus: Parliamo di mostri


 Parliamo di mostri, se vi va. Voi e io.

Per “mostro” intendo, nell'accezione più ristretta, ma anche più comune, un essere di origine soprannaturale, o comunque irreale, per quanto ne sappiamo, terrificante e malvagio.
Ebbene: che aspetto ha il “mostro”?.
Se andiamo a dare uno sguardo alle raffigurazioni nelle chiese partendo dal medioevo, notiamo, in quelle più antiche, un gran squadernarsi di trionfi della morte, di demoni, diavoli ecc.

Se teniamo presente che in passato gran parte della gente era analfabeta e che la storia illustrata sui muri degli edifici ecclesiastici era la forma di comunicazione a più vasta diffusione, possiamo considerare che, almeno fino alla Riforma, e anche dopo, quello era, per la maggioranza delle persone, l'aspetto del mostro. Credo che le cose abbiano cominciato a cambiare con la Riforma protestante, notoriamente iconoclasta.

Via santi e madonne dalle chiese, ma via anche diavoli e affini.
Allo stesso tempo, lo sviluppo e la diffusione della stampa, rendevano meno importanti, ai fini comunicativi, specie per le classi un po' più benestanti, le fabulae pictae.
Mentre nell'Europa cattolica il fenomeno avveniva più lentamente e con non pochi contraccolpi, in quella di cultura protestante si apriva una frattura tra il fantastico - cui si abbarbicava, come un gemello siamese, la parola “superstizione” - e la religione.
Il clero e la chiesa perdevano l'esclusiva sul soprannaturale che, per converso, si laicizzava e veniva frequentato in misura sempre più massiccia da una nuova categoria di “sacerdoti”: gli uomini di lettere.
Azzardando un po', penso che questa (più che un maggior propensione al “realismo”che connoterebbe lo spirito latino) sia la possibile spiegazione del fatto che la narrativa soprannaturale si sviluppa nei paesi anglofoni o germanici più e prima che in quelli latini e mediterranei.
Facendo balzi di decine di anni, se non di secoli, vediamo che, nella cultura e specialmente nella narrativa del 17° e 18° secolo, tende a perdere importanza il “mostro” delle epoche precedenti, cioè il diavolo. Troppo legato a filo doppio alla sua controparte, la Chiesa, il demonio diventa sovente una figura buffa, un rodomonte destinato ad essere sbeffeggiato da uomini più intelligenti e più acculturati di lui. Dovremo aspettare Blatty e Friedkin, nel XX secolo, perché, salvo qualche eccezione, il diavolo torni a far paura nell'immaginario del grande pubblico.

Per converso – e ci avviciniamo così alla fine del 18° secolo – i letterati, soffermandosi sui gradini più bassi (o più alti, a seconda dei punti di vista) della scala di Giacobbe, ricorrono, per spaventare i loro lettori, ad altri spauracchi: stregoni, spettri, vampiri ecc.
É guardando proprio a quest'ultimo che si nota con forse maggiore evidenza l'appropriarsi, da parte della narrativa laica, dell'immaginario terrifico (su cui prima il clero aveva il predominio e che usava come monito per i fedeli, affermando di possedere l'unico antidoto, cioè la religione).

I vampiri del folklore tradizionale, simili a rozzi zombie, venivano sostituiti da aristocratici raffinati e seducenti, come Carmilla e Lord Ruthwen (al secolo, Lord Byron).
Va notato che le figure dei mostri nel gotico del 19° secolo, cui ormai siamo arrivati, hanno spesso una marcata componente “esotica”. Vengono dal modo latino (“Il monaco” ne è un buon esempio) o dall'Egitto (grazie alle spedizioni napoleoniche tornato di moda, se mai era passato) o dalle foreste dell'oriente slavo (come il vampiro di Stoker, anche lui “conte”).
Insomma, la letteratura fantastica, per cercare immagini terrificanti, non pesca più – salva l'importante eccezione di Stevenson e della Shelley, di cui dirò fra poco - all'interno, ma all'esterno, o nello spazio, o nel tempo. 

Sul finire del secolo, il protagonista dei racconti di MR James è spesso un antiquario e luoghi o oggetti di un passato più o meno remoto (libri, quadri, stalli di cattedrali, labirinti, persino un fischietto) sono il tramite attraverso il quale il perturbante irrompe nella razionale modernità. Blackwood e Machen (che anticipa Lovecraft) fanno lo stesso. La ragione di tutto ciò è, secondo me, abbastanza semplice: il mondo, almeno quello occidentale ha perso gran parte della sua aura fantastica per come la si intendeva.

Nell'America che guarda alla nuova frontiera, Poe, malgrado qualche concessione al gotico più tradizionale (“La maschera della Morte Rossa”, “Metzergensetein”) dà il meglio di sé, anticipando i tempi, quando riduce l'iconografia terrifica a mera apparenza che cela, ma non troppo, gli spettri dentro le menti allucinate dei suoi personaggi. Nella trilogia (sono racconti che possono essere formalmente, se non strutturalmente, accomunati) “Berenice – Morella – Ligeia”, le “ritornanti” che tormentano i protagonisti sono ossessioni della mente, prima e più che creature dell'occulto tradizionale. Lo stesso dicasi per “Il cuore rivelatore”, “Il gatto nero”, “Il pozzo e il pendolo”, “Le esequie premature”, “La caduta di Casa Usher”; qui il soprannaturale in senso stretto non c'è o potrebbe non esserci: i demoni esistono, ma sono nell'animo alterato e ipersensibile (una caratteristica ricorrente, in Poe) dei personaggi.

Avevo minacciato di accennare alla Shelley e a Stevenson e, prima di scavallare nel secolo XX, sarà bene farlo.
I due, nei loro due romanzi più famosi (“Frankestein” e “Lo strano caso di Jeckyll e Hyde”), assieme agli strumenti del gotico tradizionale ricorrono, per spaventare, a uno strumento del tutto a- religioso ossia la scienza. I loro mostri, da un lato pescano nell'iconografia tradizionale e nel folklore – la Creatura è tutto sommato un zombie, anzi un insieme di zombi; il cinema lo rappresenterà in modo assai più evidente che il libro, mentre Hyde, malgrado venga definito “scimmiesco” è - e soprattutto è percepito (c'è chi li confonde) - come lupo mannaro.

Ma siamo ormai alla fine del XIX secolo e il soprannaturale, dopo essere stato sottratto alla Chiesa, sta per essere sottratto all'arte. Il ladro, il dottor Freud.

Dopo averlo separato dalle sue radici cristiane (magari solo per ritrovare quelle pagane) il mostro viene spogliato del velo di mistero che, tutto sommato, ancora lo avvolgeva.
C'è un posto, dice Freud, da dove vengono tutti i mostri e non è il passato dell'umanità, meno che mai il cielo o l'inferno, ma la mente dell'individuo, il suo vissuto .
Il nostro passato, il nostro inconscio è la tana del mostro, non una qualche terra al di là della foresta o un laboratorio con alambicchi e provette e saette, o una tomba portata alla luce dalle sabbie di una terra lontana. La madre di Grendel è nostra madre.

A questa affermazione si ribella il grande outsider della narrativa dell'orrore: ancora una volta, un anglofono, anzi, un americano: Lovecraft.
Negli stessi anni in cui il cinema esalta l'aspetto puramente visivo e iconografico del mostro, reinterpretando, raggiungendo e superando, in chiave moderna pop, le antiche fabulae pictae, il solitario di Providence si pone il problema della inadeguatezza del gotico tradizionale e propugna la irrapresentabilità del mostro (v. nota 1). I racconti di HPL sono pieni di “è troppo orribile perché lo descriva”, “non riesco a dirvi come fosse, esattamente”, “se lo vedeste, impazzireste”, di geometrie non eucildee o “sbagliate”, di antichità incommensurabili o lontananze inconcepibili. 1) Tutta roba incompatibile con l'industria dello spavento, e i numerosi epigoni che l'esempio lovecraftiano ebbe sono la rivincita postuma di HPL su un mondo che non lo capiva e da cui non era capito.
Frattanto – e credo partendo da un seme gettato dalla Shelley agli inizi del XIX secolo – i mostri si modellano secondo i canoni della scienza, anzi della fantascienza, più che secondo quelli del gotico puro. Il mostro, mano mano che ci avviciniamo ai nostri giorni, indossa la maschera dello Scienziato Pazzo, dell'Alieno venuto da un altro mondo o creato/liberato dalla hybris tecnologica.

Ecco quindi vegetali assassini (la “Cosa”, ma anche “la piccola bottega degli orrori), blob, insetti giganti, rettili ipertrofici che sono la versione moderna (e scientificamente presentabile) del Drago dell'Apocalisse (Godzilla, se lo si esamina secondo la cultura occidentale) extraterrestri tanto intelligenti e progrediti, quanto distruttivi e malvagi (che in effetti altro non sono, secondo me, che lo specchio di quello che noi potremmo diventare seguendo il cammino dello sviluppo, almeno per come lo si concepiva in quegli anni) e, naturalmente, tutti i figli dei mondi distopici nati dopo la Bomba . Negli anni '60 e '70, mentre i mostri gotici si sono tanto imborghesiti da avere una casella della posta con scritto sopra “Addams” o “Munsters”, fanno la loro ricomparsa gli zombi di Romero e, come accennavo sopra, il Grande Assente di tutto lo Spettacolo della Paura messo in scena nei decenni precedenti, ossia il Principe delle Tenebre che tormenta la povera Reagan Mc Neil.

Nel '79 sullo schermo compare quello che secondo me è il più lovecraftiano degli alieni – cioè l'Alien per antonomasia (v. nota 2).
Nel decennio successivo e fino ad arrivare ai giorni nostri, giunge a maturazione il neogotico. Secondo il compianto Giuseppe Lippi, caratteristica dell'orrore contemporaneo (possiamo ancora considerare “contemporanei” gli anni '80 e '90?, ditemi di sì, per favore) è la reificazione del mostro. In altre parole, “wonder and terror non ci trascendono più; demoni, case infestate e vampiri sono tornati alla ribalta come nella letteratura dell'Ottocento, ma la loro funzione non è stata quella di introdurci all'ignoto, a esperienze estatiche o simbolicamente conoscitive... il ruolo degli spauracchi noti e sfruttati fino all'osso è diventato semmai tranquillizzante... in una società di massa scegliere immagini convenzionali , serve a sfruttare le paure infantili del pubblico, permettendogli di ignorare quelle più sottili e senza risposta” [“Paure di ieri e di oggi: Lovecraft e il revival dell'orrore” nell'introduzione a “tutti i racconti”]. Su questa visione, che si basa sulla distinzione settecentesca della Radcliffe tra orrore e terrore non sono del tutto d'accordo.
Personalmente, per limitarmi a un solo aspetto (il discorso sarebbe lungo e ne svolgo una parte sola) credo che quelle maschere mostruose siano ancora efficaci e sfruttate – e ipersfruttate: è questo che ne determina il logoramento e la morte: l'unico modo per sconfiggere un mostro è abituarsi ad esso – perché rappresentano iconograficamente delle costanti dell'animo umano.


Sarà perché “esperienze estatiche o simbolicamente conoscitive” mi lasciano un tantino scettico, per usare un eufemismo, credo che la rappresentazione del mostro non vada mai verso l'alto, ma verso il basso, per così dire.
Anche se psicanalisi e psicologia moderna non sono più quelle dei tempi di Freud e, in generale, mi pare che vi sia assai meno fiducia in esse, credo di poter dire che la tana del mostro stia sempre all'interno dell'animo umano, nelle sue profondità, nel suoi recessi più animaleschi, inconsci e inconoscibili (non credo che l'inconscio possa diventare conscio) - che poi questi abissi possano condurre altrove è convinzione o scelta o illuminazione (se si può usare questa parola) squisitamente ed esclusivamente personale.

Probabilmente, la stessa pretesa di creare un mostro originale, al di là dell'uso, spesso eccessivo, del make up letterario e cinematografico, è presunzione anzi hybris.
Nella contemporaneità abbiamo quindi tutta una corrente che si può dire iperrealista. Molti mostri di King, per esempio, sono credibili perché l'estrema minuzia descrittiva, d'ambiente e psicologica, li colloca in un mondo che è il nostro, in una mente che è la nostra (e su questo Lippi ha ragione da vendere: in particolare il lato infantile, o artistico / immaginifico della mente).
Che poi la maschera sia quella, aggiornata, presa dallo scaffale del gotico o da quello della SF terrificante (non ditemi che Terminator, il Golem e la creatura di Frankenstein non sono parenti... c'è una tale aria di famiglia!) è tutto sommato di importanza secondaria.


Gli stessi slasher serial killer, che abbiano un lato soprannaturale più o meno marcato (si chiamino cioè Freddy Krueger, Jason o Myers o quel che volete) altro non sono che l'ipertrofia della Morte, che trionfa come nel Medioevo, ma lo fa in maniera appunto seriale, quasi fosse l'ultimo anello di una catena di montaggio che, tra gli altri compiti, ha quello di spaventare l'utente e lo fa con coscienza, professionalità, dedizione e divertimento personale... e continuerà finché non sarà più redditizia per il datore di lavoro: l'industria del terrore.
Per chiudere col quotidiano, mi pare giusto parlare di fenomeni come le creepypasta e certi spauracchi (come lo Slender) che si aggirano per il web.  


Personalmente, e sia che si tratti di testi o video, e benché francamente non riesca o trovare in esse alcun valore letterario, anche cercandolo, penso che altro non siano che la versione “liquida” o 2.0 di storie che correvano sulla bocca degli antichi (gli stessi che si trovavano Trionfi della Morte e Satanassi sulle mura delle chiese) quando facevano filò nelle stalle. Dubito che da lì possa sorgere una nuova icona, sia per quanto credo in punto di “originalità del mostro”, sia perché l'estrema frammentarietà, polifonica e mutevole, della rete, lo impedisce, almeno a mio parere.

Penso però che sia lì che il mostro di oggi abbia il suo terreno di caccia. Probabile che da qualche parte ci sia il cacciatore che lo stanerà, se non lo ha già fatto.

 





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La casa sull'albero


NdR. Tutte le immagini presentate, a parte quella iniziale, provengono dal web.

3 commenti:

  1. Saggio strepitoso accompagnato da un weirdissimo corredo di icone della mirabolante regia grafica di Fabio Cavagliano.
    Trovo anche molto bello vedere un like di Francesco Corigliano, autore dello splendido libro "La letteratura weird. Narrare l'impensabile".
    Qualità altissima.
    Venendo al possibile mostro del contemporaneo, e apprezzando molto la disanima della crisi del "manifesto", propongo come mostro dell'oggi "L'ENIGMA".
    La nostra civiltà, al netto della certificazione del suo fallimento e del suo folle, prometeico e in fin dei conti idiota materialismo e immanentismo, torna alle origini, alle scaturigini della sorgente da dove era partita: la mitologia greca.
    "Perchè gli dei amano l'enigma, e a essi rupugna ciò che è manifesto".
    La Sfinge di Leonardo Bistolfi, l'unico erede di Michelangelo degno di tal nome è la manifestazione nella pietra di ciò che è divino - in senso greco -, nascosto, psichico, un'interiorità indicibile..
    Quell che è autentico, sorgivo nell'anima di ogni individuo è ormai così distante da tutto ciò che è società, politica, economia, materialismo, consumismo ecc ecc
    Riecheggia il terribile verso di Pindaro:
    "l'enigma che risuona nelle mascelle feroci della vergine" e l'oggetto di quella musica tremenda fa molta fatica ad essere espresso a parole.
    La Sfinge non si presta alla rappresentazione.

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  2. A margine di questo interessante excursus sulla figura del mostro, vorrei soffermarmi un attimo sulla conclusione.
    Complice la radicale, crescente e inarrestabile digitalizzazione della vita umana – sociale e non – (che diventerà, e per molti versi è già, un processo non solo reale e attuale ma anche coattivo – per quanto la coercizione venga difficilmente percepita per via di una generale adesione festante ed entusiasta alle meraviglie concesse o promesse), sono convinto che davvero la cd. “Rete” sia il terreno in cui possano attecchire, cacciare e proliferare i mostri. Le implicazioni e le derive della datificazione sono tali, tante e complesse, nonché totalizzanti, che i mostri possono prosperarvi con particolare efficacia, anche considerando quanto, in fondo, si sia esposti, fragili e inermi nell’ecosistema digitale. Se presa seriamente in considerazione, credo che questa dimensione possa dare la possibilità di generare mostri nuovi o riadattati (inventati o reali) con effetti terrificanti. Computer, Web, algoritmo, panottico e sinottico digitali, sorveglianza e onniscienza delle macchine (e di conseguenza degli uomini dietro le macchine)… potrebbero costituire l’ossatura di una specifica incarnazione/generazione mostruosa. Niente di nuovissimo sotto il sole, forse, dato che da decenni anche la fantascienza “mette in guardia” dalle estreme conseguenze dell’uso (o per meglio dire dell’acritico e cieco abbandono alla fede nella tecnologia) – ma mai come ora, credo, queste estreme conseguenze sono tanto concrete e credibili. Una fantascienza in cui si riducono i margini di “fanta-”, perché i suoi elementi “fantastici” sono via via più verosimili e possibili, plausibili quando non esistenti, e aumentano quelli di “horror” (horrorscienza più che fanta-horror).
    D’accordissimo sul fatto che le “classiche” maschere mostruose possano comunque sempre risultare efficaci e incisive; bisogna saperle usare, con parsimonia e sensatezza, in maniera congrua e coerente con la storia che si racconta, in maniera sensata e circostanziata. Viceversa il mostro si appiattisce e banalizza, smette di far paura e, addirittura, rischia di muovere al riso. Anni fa noi due abbiamo avuto un breve scambio d’idee sulla questione, se non ricordo male, in riferimento alla serie tv “The Exorcist”: io non la trovai affatto malaccio, anzi, la apprezzai pure per pregi tecnici e tematiche trattate… eppure non faceva paura. Avere il mostro continuamente sott’occhio per una decina di puntate fa abituare lo spettatore, e l’abitudine uccide il mostro ed espromette la paura; niente a che vedere con l’atmosfera che si costruisce, ancora nel 2021/22, intorno a Regan nel film. Due modi agli antipodi di gestire la maschera mostruosa producendo, appunto, due effetti diametralmente opposti.

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  3. Un’icona è sorta, in realtà, se pensiamo che veramente mostruoso è qualcosa d’ignoto, mutevole; qualcosa di cui non puoi prevedere intenti e sviluppi. Qualcosa che cresce e contamina, proprio come questo impalpabile regno/ragno o Rete. Non riesco a immaginare niente di più tossico alla socialità e potente di quella curiosità o vizio con cui c’incolla spesso allo schermo di un computer o dello smartphone… A parte gli scherzi (il mio non è neanche un modo tanto originale di fare il bacchettone, fra l’altro), ottima esposizione. il mio preferito resta sempre “l’uomo lupo”, anche se non saprei bene dove collocarlo in questa modernità.

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