Depose con cura la valigetta contenente il lavoro della
giornata, le bozze per le sei facce di una scatola di sofficini, e si accasciò
sull’ elegante poltrona di pelle dello studiolo pensando a quanto poco fossero
esaltanti gli sforzi creativi necessari per realizzare quella confezione e a
quanto poco fosse seria sua moglie, fuggita col leader di una setta pseudo
religiosa.
Questo era accaduto una settimana
prima, per ragioni che non poteva comprendere ma che lo umiliavano molto.
Questo Nagobeta Botugashi, infatti, il leader della setta, era un grasso e
sgradevole giapponese coi capelli lunghi fino alle chiappe; elegante quanto un
ibrido fra orango e facocero ma, evidentemente, parecchio furbo e
facoltoso.
Tanto da irretire e ospitare un
discreto numero di belle donne nella sua vastissima dimora romagnola.
Francesco ricordò per l’ennesima volta
l’ultima discussione avuta con lei, proprio mentre rientrava da un’altra lunga
e poco creativa giornata di lavoro. Elvira lo attendeva all’ingresso, con due
enormi valige, assolutamente tranquilla e pronta a fare qualcosa che le pareva
del tutto normale.
"Starò via per qualche giorno" disse,
facendolo entrare senza il consueto invito a togliersi le scarpe. Evidente
anomalia che Francesco interpretò subito come chiaro presagio di sventure.
"Dove vuoi che le metta? E perché?" chiese, indicando le valige.
"Da nessuna parte Francesco. Le porto
con me… E non contengono niente di tuo,
per cui non preoccuparti!"
"Posso almeno preoccuparmi di dove tu
stia andando?"
"Vado con Naghy, a ritrovare me stessa.
Abbiamo un lungo viaggio da compiere; un viaggio spirituale che mi porterà alla
comprensione dei principi ultimi."
"Naghy?" replicò stranito Francesco,
pensando che si trattasse di uno scherzo o di qualche allucinante gioco psicologico
escogitato per metterlo alla prova.
"Sì. Il mio maestro. L’uomo che, secondo
le scritture di Hioshimura Bikini, è il nuovo interprete dei principi ultimi." rispose Elvira.
"E questo Hioshimura Bikini chi
sarebbe?"
"Un altro grande maestro, ma è inutile
parlarne con te o qualsiasi altro non credente. Per capire certe cose è
necessario abbandonare i propri preconcetti e tu sei un uomo troppo ancorato
al quotidiano per riuscirci."
In effetti Francesco si era sempre
sentito troppo conforme e blando nei suoi moti di spirito; tanto da provare
spesso una certa inquietudine che lo portava a guardarsi con piacere violenti
film d’azione e di guerra.
"E col tuo lavoro come la mettiamo? Che
dirai agli allievi della scuola elementare?" disse.
"Ho già sistemato la faccenda dando le
dimissioni. Ora vado! Naghy è giù ad aspettarmi… Se proprio ne hai bisogno,
chiamami" concluse Elvira, trascinando le valige nel pianerottolo e chiamando
l’ascensore.
Francesco rimase appoggiato allo
stipite della porta a osservarla.
Interdetto, stanco e incapace di partecipare allo scherzo; semmai si fosse
trattato di uno scherzo.
Due settimane dopo, nel tranquillo
pomeriggio di una giornata senza Elvira, chiamò un vecchio amico. Era da un
anno che non lo sentiva; da quando Enrico si era sposato, praticamente, e la
moglie, poco alla volta, era riuscita a recluderlo in un penoso mondo di
passeggiate, shopping e faccende domestiche.
Astrali Enrico, il suo migliore amico,
ora non aveva più capelli sulla fronte, era costretto a portare spessi occhiali
da miope e si occupava di ufologia. Scriveva per una rivistaccia di
quart’ordine, zeppa di farraginose speculazione pseudo scientifiche. Francesco
gli accennò qualcosa della setta per catturare subito la sua attenzione.
"…Sono…insomma,...Non mi aspettavo di
risentirti… In circostanze così strane, poi." commentò Enrico. Faceva spesso
lunghe pause nel parlare, perché gli andava di esprimersi nel migliore dei modi
possibili. Anche se, alla fine, buona parte dei suo frasario si traduceva
in buffi tentennamenti lessicali.
"Ti ho pensato, ricordando il tuo
maniacale interesse per i misteri." proseguì Francesco.
"La definizione di “maniaco” non mi
piace particolarmente…" rispose Enrico,
massaggiandosi la pelata "io sono uno studioso e, in ogni caso, credo che
tutto abbia una spiegazione razionale. Anche se nel mio campo non si dispone di
prove concrete…" cercò di aggiungere una delle sue dissertazioni
ufologiche, ma Francesco lo interruppe subito.
"Dimmi, piuttosto, se ti va di
proseguire la discussione a casa mia. Ho parecchie cose da raccontarti." disse.
"Il caso della moglie adepta mi
diverte… Abbastanza da non rimproverarti la mancanza di contatti per tutto
questo tempo. Quindi verrò, ma ti consiglio d’invitare pure Giovanni. E’
rimasto molto offeso dal modo in cui sei sparito." disse Enrico.
Giovanni Sassi o Vanny roccia, come lo
chiamavano loro, era il suo secondo migliore amico.
Si conoscevano sin dai tempi delle
superiori, e i suoi successivi cambiamenti di aspetto e carattere per Francesco
erano sempre stati fonte di divertimento. Giovanni, infatti, intorno al secondo
anno di scuole superiori aveva provato una terribile infatuazione per
un’avvenente moracciona heavy metal; tutta tatuata e straordinariamente diversa
da lui, ma capace di calarlo totalmente nel suo ruggente mondo di chitarre e
indumenti acuminati.
In breve, aveva rinunciato al proprio
conformismo borghese e al proprio look da secchione sfigato, costituito
perlopiù da inamidate camicie a quadretti e pantaloni con i risvolti paurosamente
alti, ed era diventato un bravo batterista.
Dopo un paio di bocciature conseguite
ad arte, quindi, sforzandosi di non provare interesse per lo studio, aveva
così abbandonato la scuola per entrare in una band tedesca; una
scelta portatrice di ottimi guadagni, certo, ma anche di una pesante
passione per la birra. La moracciona l’aveva seguito, naturalmente, arrivando
addirittura a cantare con lui; un sodalizio che però veniva minacciato
continuamente dalle pesanti attenzioni che avevano per lei gli altri membri del
gruppo; tanto da rendere a la definizione di “membri”, a un certo punto, mai più
appropriata.
Si mollarono dopo che questi ebbero
modo di scoprirne anche le immagini tatuate sull’inguine e che lui se ne accorse.
Poi l’amore diventò per Vanny tutto ciò che di questa donna rappresentava l’opposto, anche
come aspetto fisico.
Ora, infatti, se ne stava in compagnia di
un’altra ragazza, una magrissima e pallida biondina; passeggiavano nel parco
vicino al museo di storia naturale e litigavano come al solito.
"Vedi come sono cresciuti i miei capelli
Lisa?!…" disse Giovanni. "Non me li taglio da quando ci siamo messi assieme.
Tanto, no? Boia puttana! Un tempo dannatamente lungo perché io non sia in grado
di capire quando menti. Ieri, allora, quando ti ho chiamata, perché il tuo cellulare era spento?" chiese, gesticolando come un wrestler pronto ad
avventarsi sull’avversario.
"Stavo da mia nonna! Te l’ho già
spiegato… E’ provvista di ben due pacemakers e le onde elettromagnetiche
prodotte da questi aggeggi la spaventano molto. Quindi cos’ha fatto, appena
me lo ha visto appoggiare sulla credenza?" chiese Lisa, chinandosi e mostrando
seccata i palmi.
"Sostieni che lo abbia spento. Cioè,
che tua nonna, assolutamente incapace di maneggiare qualsiasi affare
tecnologico, sia stata in grado di trovare il bottone giusto."
"Già! E’andata proprio così!" rispose a
voce alta Lisa. "E quando l’ha fatto, io mi trovavo nel suo cazzuto soggiorno
pieno di centrini e cianfrusaglie, mentre lei si era recata per un attimo in
camera; dove avevo lasciato l’apparecchio. Quindi neanche potevo immaginare che
l’avesse spento. Ti convince, ora?" proseguì, quasi gridando.
"Così, adesso scrivi per una
rivista?!" chiese Francesco complimentoso, allungando a Enrico un bicchierino
di whisky.
Enrico ne bevve subito un sorso e poi
si appoggiò timidamente sul bracciolo del divano, sorridendo silenzioso. Le
poche fiammelle del camino appena acceso si riflettevano sui suoi tondi
occhialini, dandogli quasi un’aria diabolica.
"Forse può essere interessante spiegare
in quali circostanze è avvenuto il suo ingresso nel mondo dell’editoria." suggerì Giovanni, ironicamente, invitando Enrico a raccontarsi.
"Già!…Ho inviato una lunga lettera alla
redazione di “NonsoloUfo”…" rispose con esitazione Enrico, interrompendosi per
bere un altro sorso.
"…L’editore mi ha telefonato per
fissare un appuntamento e, in pochi giorni, mi sono ritrovato al posto del
dimissionario caporedattore."
"Però! E di che articoli si tratta?" chiese Francesco.
"No, no aspetta!" insistette Giovanni "Spiegagli bene quale era il contenuto della tua lettera; quella che li ha
convinti del tuo talento."
Enrico non sembrava ben disposto a
parlarne.
"Ho raccontato loro del mio
“incontro”…" disse.
"Che genere d’incontro?" chiese
Francesco, subodorando un mare di ridicole cazzate. Da sempre la loro amicizia
consisteva nello sfottersi a vicenda o trovare un buon motivo per farlo.
"…Vedi, … se tu fossi un lettore
abituale della mia pubblicazione non avrei alcuna difficoltà a parlartene…" rispose faticosamente Enrico, ancora poco avvezzo alla derisione, nonostante il
suo impiego.
"Lo racconto io, allora." disse
Giovanni, indicandolo con un ghigno. "lui sostiene di aver incontrato gli
alieni."
Ci furono almeno tre o quattro secondi
di divertito e garbato silenzio, poi Francesco riattaccò a far domande.
"Naturalmente s’inventa di tutto pur di fare soldi. Vuoi sapere che ho fatto io, invece, sulla confezione
di alcuni hamburger, per mettere in risalto l’insalata?" chiese Francesco.
"Aspetta!" intervenne ancora
Giovanni. "Lui non ha inventato quella storia… Crede davvero di averla
vissuta!"
Enrico chiese un altro po’ di whisky.
Sapeva che, per la millesima volta, non ce l’ avrebbe fatta a rispiegare nel
modo più verosimile possibile questa faccenda degli ufo e dei loro occupanti,
così cercò di sviare ancora il discorso.
"Che pensi di fare con tua moglie?" chiese a Francesco, rompendo l’attesa con due strategici e sonori colpi di
tosse.
Francesco non aveva un’idea precisa a
riguardo. Non rispose. Si alzò e prese da un cassetto la raccomandata che
Elvira gli aveva spedito due giorni prima. Era un invito alla convention
organizzata da Botugashi per procacciarsi nuovi adepti e consensi alla teoria
dei “principi ultimi”.
Si mise a leggerla, costringendo
Giovanni a rimandare il suo tentativo di sfottere Enrico.
La lettera diceva questo:
“La conoscenza, la vera conoscenza, non
si trova dietro l’angolo. Neppure in quelle entità disincarnate e fittizie che
molti chiamano Dio, Budda, o Allah. La vera conoscenza si trova in me, e per
raggiungerla è necessario passare attraverso di me. Assistere con tutti noi
alla presentazione dei principi ultimi da me elaborati dopo anni di ricerche e
sovraumani sforzi intellettuali, ti aiuterà a capire cosa ha spinto anche la
tua compagna a seguirmi.
Inoltre, ti migliorerà enormemente la
vita; perciò sei atteso, il giorno 12/3/…..”
Proseguiva con l’indirizzo del luogo
dell’incontro e una pacifica esortazione a non nutrire sentimenti ostili nei
suoi confronti.
I messaggi di Botugashi,
infatti, erano sempre addolciti dalla placida consapevolezza di essere
superiore; così come lo erano quelli del suo maestro, Hioshimura Bikini, da cui
aveva appreso e maturato questa consapevolezza, nonché imparato a liberare gli
altri dalle catene dell’io attraverso lunghe ed elaborate cerimonie che terminavano
con la sodomizzazione degli astanti. Tuttavia, Francesco, questo non poteva ancora saperlo.
"Il dodici è domani! Non hai pensato a
uno scherzo televisivo, di quelli che si vedono adesso, dove tutto è
organizzato con estrema precisione per farti sentire un idiota davanti a
migliaia di persone?" chiese Enrico, soddisfatto di aver stornato l’attenzione
dal suo caso di rapimento alieno.
"Non so più che pensare: ho provato a
chiamarla, tre volte, ma le sue risposte sono sempre estatiche esortazioni a
raggiungerla. Sembrano date sotto l’effetto di qualche droga euforizzante." rispose Francesco.
"Non pensi che sia il caso di
approfondire, tirala fuori?" chiese nuovamente Enrico.
"Vuoi scherzare?!!…" intervenne
bruscamente Giovanni. "Quando cominciano a comportarsi così, cioè a fare più
scemate del solito, vanno mollate. Lasciala nel suo brodo! Ho di nuovo la sfiga
di sperimentarla questa cosa, e ti assicuro che non vale assolutamente la pena
di ragionarci. Le donne, quando hanno
torto o vengono accusate di mentire, negano l’evidenza." proseguì.
"Sì. Sono abili nel dialogo, perché
hanno l’area di Broca più sviluppata…" disse Enrico.
"L’area di che?" rispose Giovanni
lanciandogli un’occhiata torva. Non
poteva sopportare quelle frasi cariche di desuete nozioni.
"…Quella zona del cervello che riguarda
il linguaggio." disse Enrico, compiaciuto dalla sua dotta osservazione.
"Cosa cazzo abbiano in quel cervello
non lo so, ma per colpa della mia ex stavo quasi per rimetterci la
carriera." disse Giovanni.
"Ah! Non stai più assieme a quella
strafigona mora?" chiese Francesco, versandogli un altro po’ di whisky.
"Dava delle noie a me e al gruppo. Al
gruppo, in particolare, dava parecchie altre cose; così ho dovuto rimpiazzarla.
Non è stato difficile, comunque. Jean, il nostro chitarrista, ha trovato la
nuova vocalist una sera, mentre si aggirava solitario nei quartieri bassi di
Berlino.
Lei correva urlando, nuda, dietro a un
tizio che non voleva pagarla, e Jean rimase impressionato dalla potenza di
quella voce rauca e la ingaggiò." Giovanni guardò gli amici che con un mezzo
sorriso lo stavano ascoltando, e proseguì. "D’accordo, potrà sembrare una
scelta bizzarra, ma la tipa è in gamba e noi ce ne fottiamo del suo
curriculum."
Era una storia interessante, ma
Francesco sentì che era venuto il momento d’interromperla facendo una
bizzarra richiesta.
"Venite con me ragazzi! Questo
weekend lo passiamo assieme, come ai vecchi tempi. Facciamo una capatina a
Rimini e ce la ridiamo alla convention di questo psicopatico giapponese. Mica
per convincere Elvira a tornare, beninteso, solo per fare qualcosa di diverso
dal solito." disse, in tono quasi supplichevole.
"E’ una rimpatriata originale. Mi piace
l’idea." commentò Giovanni, manifestando chiaramente la sua adesione.
"Io…bhè!…Purtroppo ho ancora una moglie che non è
scappata con nessun fanatico…!" balbettò Enrico.
"Dille che la tua rivista ha
organizzato una convention da quelle parti; il lavoro è una scusa che funziona
sempre." ordinò Giovanni. "Non vorrai passarti anche questo fine settimana all’interno
di qualche puzzolentissimo centro commerciale?!" proseguì, spingendolo a penose e conflittuali
riflessioni sul da farsi. Riflessioni che durarono almeno un paio di minuti.
Tre minuti, forse, in cui pensò agli
eventuali sperperi di cui si sarebbe privata sua moglie. Quella strega che,
oltretutto, non aveva la patente e doveva dipendere da lui per ogni
spostamento nella desolata provincia in cui abitavano.
"Allora scienziato?" chiese Francesco,
appoggiandogli calorosamente una mano sulla spalla.
Passò un altro minuto. Quindi, forse,
erano quattro.
"Okay, vengo! Speriamo che la tua balla
funzioni." disse Enrico, indicando Giovanni come se fosse responsabile
delle sue azioni.
L’aria era fresca, il cielo terso e un
sole meraviglioso si sarebbe occupato di rendere più gradevole il loro viaggio.
Giovanni, che stava davanti, innervosito dalla guida eccessivamente prudenziale
di Francesco e da un mare di altre
cose, perché, in effetti, era sempre incazzato, guardò dal finestrino i campi
coltivati; avrebbe voluto appena percepirli come una macchia confusa di
colori, come quando era in sella alla sua moto.
Li guardò e si chiese quanto ci fosse
di vero in quella storia dei cerchi nel grano, di cui aveva sentito parlare
una volta in tv.
"Sono puttanate belle e buone!..." disse, in risposta alle sue riflessioni sull’argomento e rompendo il silenzio che si
era appena creato.
"Di che parli?!" chiese Francesco,
rallentando ancora di più.
"Di quelle impronte che le astronavi
lascerebbero sui campi. Quelle pagliacciate di cui si occupa Enrico, intendo…" ripose, accendendosi una sigaretta, e poi chiese: "Vi da fastidio se fumo?"
"Non quanto il tuo gretto e offensivo
scetticismo." rispose Enrico.
"Il vero problema di tutte queste
storie sui dischi volanti è che non esistono prove materiali." commentò
Francesco, intenzionato a disquisire con calma e logica l’argomento, e senza ilari preconcetti.
"Forse gli ufo o i loro
occupanti, ammesso che siano pilotati da esseri viventi, non possono e non
devono lasciarne. Oppure riusciamo a vederli, ma quando questo accade essi si
trovano in un altro tempo… Questo potrebbe spiegare l’incredibile velocità
delle loro evoluzioni, osservate apparentemente compiersi nel nostro spazio
aereo. E quindi non possono integrarsi materialmente alla nostra realtà." rispose Enrico, fremendo dall’impazienza di poterli scaricare addosso
parecchie altre informazioni.
"Le distanze sono tali da rendere
inconcepibile la possibilità per qualsiasi congegno di raggiungerci." Ribatté Francesco. Guidando quasi a passo d’uomo.
"Non conosciamo tutte le leggi
che governano il cosmo e se in esso esistano delle “scorciatoie”" rispose
prontamente Enrico, mentre Giovanni li osservava ancora più incazzato
dall’eccessivo rallentamento della vettura.
"E’ improbabile che gli alieni abbiano
sembianze antropomorfe, considerando l’infinita varietà di modi in cui si è
evoluta la vita sulla terra. Invece, quando si parla di loro, vengono sempre
rappresentati come umanoidi. Che mi dici a riguardo?" chiese Francesco.
"Forse le sonde trasportano un modello
dei loro creatori e lo adattano al geoma umano, creando degli ibridi che
ci somigliano." rispose Enrico, in uno slancio di astruse e iperboliche smanie
documentaristiche.
"E’ assurdo che degli esseri altamente
evoluti, dopo aver compiuto un viaggio così lungo per raggiungerci, se ne
stiano nascosti fra le nuvole." proseguì Giovanni, invece animato da feroce
scetticismo.
"E’ assurdo o soltanto incomprensibile
dalle nostre menti. Così come risulta incomprensibile ai criceti, la logica con
cui agiscono gli umani.
Va poi aggiunto che non sappiamo se
“viaggiano” o sono di casa, qui." disse Enrico, speranzoso di poter ricevere
tante altre obiezioni.
"Dove sono, allora, i visitatori?" cercò di concludere Francesco.
"Ci sono varie possibilità." rispose
Enrico. "Forse stazionano sul nostro satellite, la Luna, oppure si mimetizzano
in qualche modo, agendo indisturbati sul pianeta. E’ sbagliato credere che,
essendo superiori, debbano operare una trasformazione nei nostri modi di vivere
o nell’ ambiente."
Giovanni sembrava un po’ infastidito
dalla discussione; tirò una lunga boccata di fumo ed espirandolo forte verso
Enrico, allentò un paio di cerniere del suo logoro giubbotto in pelle.
"Mi chiedo perché diavolo, a questo
punto, non ci fermiamo del tutto, magari al primo autogrill e non la finiamo
con queste cazzate. Mi andrebbe un panino e una birra, se non vi
dispiace." disse.
Francesco sembrava d’accordo ed era
contento di potersi distrarre dalle preoccupazioni, discutendo anche di cose
assurde in compagnia degli amici. "Non sono cazzate!…" disse, dando una pacca
sul ginocchio di Enrico che, con la sua mite aria da sfigato, andava sempre
sostenuto. "D’altra parte, è curioso che…" proseguì, indicandolo "… che lui
continui ha campare ipotesi sugli alieni, quando, mi pare di aver capito,
ha avuto modo d’incontrarli personalmente. Non è così?"
"Già!! Raccontaglielo, scienziato.
Questa è forte!" disse Giovanni sghignazzando.
"E’ accaduto cinque mesi fa…" disse
Enrico, sapendo che ormai non c’era più niente da fare per evitare il discorso. "Stavo in un negozio di scarpe, assieme a mia moglie. Lei ne stava provando un
paio che a me proprio non piacevano. Nei mesi precedenti, aveva già acquistato
almeno quattro paia di scarpe simili. Della stessa orribile foggia e
colorazione violetta. Mi chiese un’opinione a riguardo. Ora, se le avessi dato una
risposta mirata a dissuaderla dall’acquisto, mi avrebbe comunque ignorato;
perciò dissi che erano molto belle. Nel frattempo, vidi entrare un uomo con
addosso una muta gialla e la scena si paralizzò…" Enrico s’interruppe,
indicando il cartello che precedeva di un chilometro l’area di servizio.
"Okay! Okay! Ci fermiamo, ma tu vai
avanti a raccontare." disse Giovanni. Voleva goderselo quel momento.
"...L’uomo con la muta gialla si
avvicinò alla commessa e a mia moglie, che stavano immobili e sedute su due
bassi sgabelli, mentre l’una posava come se stesse provando le scarpe
all’altra; poi mi guardò e con lo stivale, anch’esso giallo, diede una piccola
spinta a entrambe, facendole cadere a terra. Rimasero nella stessa posizione,
cioè, come se fossero ancora sedute e scolpite nel legno; la cosa più strana
che abbia mai visto, credetemi!..."
"Credo di non aver capito niente." commentò Giovanni. "Comunque, prosegui! Grazie."
"...Poi mi ha detto con tono di
voce cavernoso e in perfetto italiano, che le due donne e tutto l’ambiente
circostante erano stati semplicemente “bloccati” non per consentirgli un
miglior dialogo con me..., dal momento che non desiderava affatto incontrarmi,
ma per via di una strana legge fisica che lo teletrasportava via dal suo mondo,
situato nella costellazione del Cigno."
Francesco gli diede una rapida
occhiata, in attesa di un finale divertente; anche se non si trattava di una
barzelletta.
"...Disse anche qualcosa riguardante
una mia “disfunzione temporale”, poi scomparve; diventando gradualmente
invisibile nel giro di pochi secondi. Non ricordo altro." concluse Enrico.
"E tua moglie?" chiese Francesco, un
po’ deluso.
"Si è rialzata da terra assieme alla
commessa, ridendo e convinta che fossero semplicemente scivolate dagli sgabelli."
"Ovviamente non hanno visto alcun
Cignomita giallo. Capisci Francesco?" disse Giovanni.
"Beh!...Credo che non ci sia alcun
motivo di vergognarsi per aver vissuto questo tipo di esperienza." rispose
Francesco. "Probabilmente Enrico è stato vittima di un motociclista dotato
di straordinarie facoltà ipnotiche. Magari, approfittando del vostro stato
di trance, ha pure svuotato la cassa!"
"Sì. Mettiamola così. Altrimenti, ci
sarebbe da internarlo." disse Giovanni, sbuffando altra nicotina.
Nagobeta Botugashi era nervoso perché
non riusciva a memorizzare bene il testo preparatogli dal suo maestro per la
conferenza, e quando era nervoso sentiva il bisogno di sfogarsi. Sfogarsi era
un’operazione attuabile in almeno sei modi per Nagobeta. Il primo consisteva
nel mangiare qualcosa di dolce. Il secondo, nell’arricciarsi i peli delle
ascelle. Il terzo, nel comporre raccapriccianti aiku. Il quarto,
nell’arrotolare gommose palline del suo muco. Il quinto, nel guardare un incontro
di sumo, e il sesto nell’avere rapporti sessuali con le sue adepte.
Scelse di attuare l’ultimo metodo di
questa lista e con l’ultima arrivata
che, guarda caso, era la moglie di Francesco.
Se Francesco l’avesse saputo,
ovviamente, non si sarebbe fermato all’autogrill con la stessa serenità e
sfizio di gustarsi un bel panino assieme ai suoi frustrati amici.
"Cosa prende, signore?" chiese la
cassiera, vedendo il suo cliente muto e mezzo imbambolato.
Enrico la guardo perplesso, poiché la
donna indossava una collana di spesse biglie gialle che lui sapeva essere il
colore preferito dagli alieni.
"Prendo un tè... Giallo." disse a bassa
voce, per non farsi sentire da Giovanni e Francesco che stavano dietro di lui, e sperando di suscitare nella donna un qualche tipo di reazione.
"Abbiamo quello al limone! Pensa che
sia abbastanza giallo, signore?" chiese la cassiera.
"Okay! Okay!" rispose Enrico,
rapidamente. Questa volta si era sbagliato. La cassiera non era un’aliena.
Intanto Botugashi, a qualche chilometro
di distanza da loro, stava togliendosi una sgargiante vestaglia dorata per
mettere in mostra il suo grasso corpo peloso e spiattellarlo sulle
generose forme di Elvira. Gli orientali, in genere, non sono particolarmente
pelosi, mentre lui aggiungeva questa mostruosa anomalia genetica al suo già
bestiale aspetto; rendendo, oltretutto, le attenzioni sessuali di molte sue adepte alquanto inspiegabili.
In realtà, c’era un trucco. Lui circuiva le
migliori e più facilmente suggestionabili, con la promessa di un grandissimo
benessere interiore, canti e sedute di gruppo che miravano alla
spersonalizzazione dell’individuo, e con le droghe. Queste ultime, in
particolare, potevano essere assunte anche in modo del tutto inconsapevole
dalle donne, durante i pasti.
A proposito di pasti, Giovanni addentò
il suo panino, mentre Francesco si apprestava a fare altrettanto, alla
faccia di chi aveva ordinato soltanto uno schifoso tè giallo.
Enrico lo sorseggiava un po’ arrabbiato
con sé stesso, perché, in effetti, non aveva mai gradito quel tipo di bevanda, soprattutto
calda. E, dopotutto, avrebbe potuto ordinare un panino con la senape, anch’essa gialla, per
scovare eventuali alieni; se solo avesse avuto la prontezza di pensarci.
"Quel tipo ci sta pedinando." disse
Giovanni, indicando con lo sguardo un uomo sulla trentina e continuando a
mangiare con calma.
"Quello col pellicciotto e il
cappellino da baseball?" chiese Francesco, dandogli una rapida occhiata.
"Sì. Ha una vecchia volkswagen, l’ho
notato anche al parcheggio e in autostrada." disse Giovanni.
"Di che colore è l’auto?" chiese
Enrico.
"Blu scura o nera, non ricordo bene, ma
ho memorizzato la sua faccia."
"Lo pensi davvero?!... Voglio dire, che
ci stia seguendo?" chiese Francesco.
"Sono un buon osservatore." disse
Giovanni. "Vedrai che non si muove da qui finché restiamo."
Infatti, dopo una decina di minuti si
avviarono all’uscita e l’uomo li seguì, lasciando metà della sua bibita sul
tavolo.
I tre procedettero lentamente verso la
macchina, proprio per notarne il comportamento.
"Hai un compito, amico?" gli gridò a qualche
metro di distanza Giovanni, in tono poco amichevole, prima che questi potesse
raggiungere la sua vettura.
L’uomo si guardò attorno, perplesso,
fingendo di non aver capito.
"Dico proprio a te!" gridò ancora più
forte Giovanni. I suoi amici si fecero in disparte, non sapendo che piega
potesse prendere quella situazione.
"No, io, veramente..." rispose incerto
l’uomo.
"No, io, un cazzo!" gridò Giovanni,
andandogli in contro "Voglio sapere!! Dimmi se ti manda qualcuno!"
"Quando un tipo come Vanny ti viene in
contro esigendo una risposta, ti conviene non scendere dall’auto e metterla
subito in moto." pensò Enrico, cercando d’inviare questa sensazione pure allo
sconosciuto.
Non voleva guai, cose di cui sua moglie
avrebbe potuto rimproverarlo.
"Scendi!" Ordinò Giovanni, impedendogli
di chiudere la portiera.
"Va Bene, calma! Mi avete sgamato! Sono un
seguace." disse l’uomo, che a guardar bene era solo un ragazzo con due folte
basette.
"Botugashi mi ha chiamato alla conferenza,
sicuro che avrebbe partecipato pure il marito della sua nuova compagna. Che dovrebbe essere lei,
no?" chiese il ragazzo, indicando Francesco.
"Sì, è lui. Tu conosci sua moglie?" disse
Giovanni.
"No, guarda, veramente non l’ho mai
vista. Naghy mi ha dato il suo indirizzo, sapendo che abito nelle vicinanze, e
mi ha detto di seguirlo." disse il ragazzo.
"Perchè?...E come cazzo facevi a sapere
a che ora saremmo partiti?" chiese Giovanni.
"Mi ha avvertito la sua vicina di casa
che, a sua volta, è un’altra seguace di Naghy. Ora mi pestate?"
Francesco scosse il capo, incredulo. "Ma pensa un po’, quella vecchia zitella!...Magari è stata tutto il giorno
attaccata alle pareti e con lo stetoscopio alle orecchie, per ascoltare i nostri discorsi." borbottò fra sé e sé.
"Non mi è ben chiaro il motivo." commentò
Giovanni, facendo roteare le spalle come un pugile.
"Già! Perché ci stai pedinando?" chiese
Enrico, innervosito dai movimenti ostili di Aurelio. "...Credi forse di
scoprire altre verità? Emozioni spirituali nuove, servendo il tuo messia ? Io
so che spesso è la mancanza di valori e di cose in cui credere a spingere molti
sprovveduti in queste sette." proseguì.
"No. Veramente ci vado solo per
ciulare." rispose il ragazzo.
"Per ciulare?" chiese Giovanni.
"Per ciulare?!!" chiese Francesco.
"Forse una setta di tipo tantrico, con
dei sistemi magico religiosi fondati sul sesso?" chiese Enrico.
Il ragazzo li guardò tutti e tre poi rispose.
Il ragazzo li guardò tutti e tre poi rispose.
"Guardate, io non so una bega del
tantrico, ma rispondo affermativamente. Proprio come in quel film: Eyes wide shut,
di Kubrik. L’avete visto?" chiese il ragazzo, rivolgendosi sopratutto a Francesco. "Non è
male."
"Ora non gl’importa un cazzo di cinema,
come potrai ben capire." disse minaccioso Giovanni, "Pensa piuttosto a
chiudere bene la tua auto, perché proseguirai il viaggio in nostra compagnia...
E ci darai parecchie altre spiegazioni!" concluse.
Ancora duecento chilometri. Il giovane
stava dietro, scortato da Giovanni, e c’era nell’aria un sentimento goliardico
che solo Francesco non poteva percepire. Quel sentimento che fra amici bastardi
si prova nel potere ridere delle sfighe altrui.
"Come ti chiami?" chiese Giovanni.
"Bredford." rispose il ragazzo,
levandosi il cappello.
"Dimmi pure il nome, se vogliamo
sforzarci di avere una conversazione amichevole."
"Bredford è il mio nome. Ai miei
genitori piaceva quella merda di telefilm degli anni settanta: “la famiglia
Bredford”, e mi hanno chiamato così."
"Okay Bredford, non ti alterare, qui solo io posso arrabbiarmi e dire parolacce. Hai capito?"
"D'accordo." rispose Bredford, senza
timore.
"Che tipo di organizzazione è questa?
Sono dei criminali?" chiese Enrico, preoccupato.
"Faccio io le domande!" disse Giovanni.
"No. Non ho mai visto far del male a
nessuno. Credo siano soltanto degli sciroccati, pieni di filosofiche stronzate
da raccontare, pur di..."
"Ciulare." completò la frase Francesco, e chiese: "Pensi che quel Naghy si diverta anche con mia moglie?"
"Eccome! Con quelle nuove ci dà dentro
alla grande. Volete qualche aneddoto a riguardo?" chiese Bredford.
"Penso che possa essere di grande
interesse comprendere la dinamica di questi rituali e il modo in cui l’ascesi
mistica..." Enrico tentò d’intervenire.
"Perchè non la finisci di scoglionare
con tutte le tue libresche puttanate e non fai proseguire il nostro amico
Bredford?" chiese Giovanni.
"Ecco, perchè penso che lui consideri
solo l’aspetto più godereccio di questa faccenda, trascurando il potenziale
destabilizzante di tutte queste nuove pseudo religioni. Il modo oscuro e
inquietante in cui agiscono nel nostro sub strato sociale." insistette Enrico.
"Frena! Frena! Naghy si fotte di
lordare il sub strato sociale con la sua dottrina." disse Bredford. "Il suo
maestro, magari, è un tipo che si sbatte di più per ottenere questo risultato.
Anche se pure lui non disdegna la mazza come strumento di coesione." proseguì,
facendo il verso al linguaggio di Enrico; che aveva già catalogato come
un saccente e un imbecille.
"Adesso ti metti pure tu a parlare
difficile? Vorresti confonderci le idee, magari? Continua, piuttosto, a
raccontare cosa succede nella setta!" disse Giovanni, stringendo con forza
l’avambraccio di Bredford.
"Guarda, ti posso raccontare un
episodio a cui ho assistito l’ultima volta che mi son trovato da quelle
parti:...Naghy ha una cifra di stanze; praticamente possiede una vecchia
palazzina di tre piani. Entrarci senza un permesso è impossibile; anche se ho visto
un gran via vai di gente in quella casa. Ci sono quattro persone molto robuste
che si occupano della sicurezza e di allontanare eventuali intrusi. Uno di
questi è giapponese, e una volta l’ho visto rompere una porta con la testa, durante uno scontro. Gli altri
tre sono di colore, parecchio somiglianti a Mike Tyson. Loro, però, pur
essendo molto robusti e vigorosi, non li ho mai visti ciulare. Naghy, invece,
ogni pomeriggio si aggira per gli appartamenti coperto solo della sua vestaglia
gialla e..."
"Di mattina che fa?" lo interruppe Francesco.
"Mangia molto e si occupa di
distribuire bene il lavoro fra i suoi discepoli, che consiste essenzialmente
nell’accattonaggio." disse Bredford.
"Per spillare quattrini le sue donne si
prostituiscono?" chiese ancora Francesco.
"No. Perché, come dicevo prima, solo a
quelli del gruppo è consentito entrare nella casa, e le donne non escono
mai."
Enrico stava silenzioso a riflettere su
quel particolare. La vestaglia gialla di Naghy.
"Credi che saremo ammessi alla
conferenza? E di che si tratta?" chiese Giovanni.
Furono invitati a entrare
nell’auditorio con estrema gentilezza. Tutti i centocinquanta posti disponibili
erano stati occupati e una trentina di persone stavano in piedi, lungo la parete
destra della sala.
Ad accompagnarli era stato uno dei tizi
somiglianti a Mike Tyson, costretto in un elegante completo grigio e poco
propenso al dialogo, ma calmo e gentile nei movimenti. Francesco aveva notato
questo particolare mentre l’uomo lo accompagnava all’ingresso, tenendogli una
mano appoggiata sul centro della schiena; una mano molto grande, più indicata a
sbriciolare noci di cocco o tramortire bovini destinati al macello, piuttosto
che sospingere delicatamente le persone.
"Mi spiace signori, ma questo ritardo
vi costringerà ad ascoltare in piedi il maestro." disse l’uomo. Costui aveva
anche un antico nome africano, difficilmente pronunciabile, Gighebotagababa, la cui traduzione suona più o meno così: “finché un
rinoceronte bruca la sterpaglia della savana, senza nemici o presunti tali da
caricare, può apparire assai docile e tranquillo.”
"Ah!!...Noi saremmo quelli arrivati in
ritardo? Mi pare che nessuno abbia ancora incominciato a parlare." disse
Giovanni, non vedendo i relatori dei “principi ultimi”.
Bredford annui perplesso e abbassò la
visiera del cappello.
"Il maestro è qui!" disse
Gighebotagababa, un pelino alterato, invitandoli garbatamente al silenzio, e
subito dopo una persona si alzò dalla prima fila per raggiungere il tavolo con
i microfoni.
"Quello è Botugashi." disse Bredford
a voce bassa.
"Bene!!" disse Nagobeta Botugashi. "Ora che tutti i miei ospiti sono all’ascolto, posso cominciare; partendo
proprio dalla considerazione dell’ultimo arrivato." disse, indicando Giovanni.
Francesco ed Enrico si voltarono a guardarlo, divertiti.
"Considerandomi assente ha espresso un
giudizio prim’ancora di conoscere la realtà dei fatti; come fanno in tanti,
qui, la prima volta che ascoltano la mia dottrina. Ebbene, io vorrei che questo
atteggiamento fosse il primo ostacolo da superare; quindi, se avete delle
domande o una qualche forma di ostile perplessità nei miei confronti,
intervenite subito." disse Botugashi in uno strano italiano, quasi recitato.
Francesco si grattò innervosito il mento
e squarciò il silenzio dei presenti con la sua schietta sagacia. "Ho saputo
che oltre a curarsi dello spirito e della sua evoluzione, lei tromba parecchio
con le sue adepte. Corrisponde a verità questo?" chiese.
"E’ così importante per lei questo?" disse Botugashi, imperturbabile.
"Abbastanza, direi! Dal momento che una di queste è mia moglie. Anzi, lo era." disse Francesco e nessuno,
a parte Enrico e Giovanni, si mise a ridere.
"E’ uno dei tanti metodi che sfrutto
per aiutarle a raggiungere la conoscenza. Sanno di sbagliare e che per
raggiungere grandi altezze è necessario prima toccare il fondo, conoscere
anche le condizioni miserevoli dello spirito, tutto ciò che mai è stato sperimentato in tal senso." rispose
Botugashi.
"A rigor di logica, questo
m’imporrebbe anche di uccidere, se non l’avessi mai fatto prima?" intervenne
Enrico, con insolito coraggio, sentendosi stuzzicato dalla palese assurdità
della conversazione.
Botugashi abbassò il capo per leggere
il suo foglio delle risposte, ma una simile domanda non era prevista, quindi
optò per la solita e generica:
"Non perdiamoci in inutili sofismi!"
"Lei conosce il significato di
“sofismi”?" chiese ancora Enrico.
Giovanni gli batté una mano sulla
spalla, bisbigliando: "Bravo, vai avanti così! Lo stai mettendo in crisi. A volte, le cazzate che hai studiato servono."
"I principi ultimi sono una realtà così
evidente e semplice, che spesso i nostri cuori faticano a percepirla, travolti
dalle..." Botugashi fu interrotto nuovamente.
"Mi scusi, ma non ha risposto alla
domanda del mio amico!" disse Aurelio, quasi gridando.
"Se mi fa proseguire, troverà tutte le
risposte." disse con calma Botugashi.
"Io, tanto per cominciare, voglio solo
sapere cosa cazzo è un sofisma!!" gridò Giovanni. "Come faccio a fidarmi di uno
che ignora il significato dei vocaboli che infila nei suoi discorsi?"
Nagobeta fece un cenno a
Gighebotagababa che si apprestò ad appoggiare la sua enorme mano sulla schiena
di Giovanni, forse per invitarlo cortesemente a uscire dalla sala. Un breve mormorio,
seguito da una lieve agitazione, accompagnò la scena.
"Ho tutto il diritto di ricevere
spiegazioni, dal momento che il suo capo si fotte la moglie di un mio amico!" disse Giovanni a Gighebotagababa, i cui modi gentili stavano paurosamente
svanendo sotto la pressione esercitata dalle sue enormi masse muscolari.
"Che cazzo fai?!! Spingi?"gridò ancora
Giovanni, cercando l’aiuto e l’umano rispetto dei presenti; mentre i suoi amici e
Bredford si limitavano a ridere.
Gighebotagababa lo afferrò
energicamente per il bavero del giubotto.
Fu solo a questo punto che Giovanni
esplose. Si girò di scatto e sparò una gomitata sulla faccia del nero; poi,
con altrettanta rapidità, lo prese per i corti capelli crespi e gli tirò una
testata.
Il naso devastato, sangue
sull’elegante completo grigio e grugniti simili a quelli emessi dai rinoceronti
quando stanno per caricare un nemico certo.
Enrico corse verso l’uscita, seguito da
Bredford e Francesco, spaventati dall’intervento degli altri tre energumeni
della sicurezza. Giovanni, certamente, nella sua pazzia poteva essere molto
forte, ma non quanto quell’insieme di bestioni, per cui fece la stessa cosa sgusciando dalle braccia di Gighebotagababa e saltellando come una gazzella fuori dal portone. Corsero parecchio; tanto bene da
dissuadere i loro inseguitori.
Più tardi s’infilarono in un locale di
Riccione, davanti a un bell’assortimento di alcolici, per rivivere a suon di
sghignazzate quella vicenda e analizzare meglio la questione dei principi
ultimi.
"Che vuoi fare di Elvira?" chiese
Giovanni.
Francesco buttò giù il sesto sorso di
whisky, "Penso di dover appurare con quali metodi è stata plagiata..."
"Plagiata è il meno." commentò
Bredford.
"Tu hai subito qualche forma di
condizionamento?" chiese Francesco.
"Non sono andato oltre a quello delle
trombate gratis. Hanno avuto un alto potere di convincimento su di me,
tuttavia." rispose Bredford.
"Non penso che mia moglie sia finita lì
soltanto per farsi fottere da quello scimmione." disse Francesco.
"Beh!... Ci sarà dell’altro, sicuramente. Quel tizio
ha pure un sacco di soldi e della buona roba." disse Bredford.
"“Roba”?" chiese Enrico.
"Roba da fumare. Certo! Gli acidi, anche. Tutte quelle cose che ti flippano e ti fanno vedere il mondo come lo vorresti vedere." rispose Bredford.
"O come lo vorrebbero gli altri!...
Quelli che te le propinano." intervenne Giovanni.
"Dobbiamo denunciarli!" disse
Francesco, "Aldilà di quello che poi deciderò di fare con la mia “ex”moglie."
"Io non testimonierò. Capito, amico?" disse Bredford, preoccupato.
"Non vogliamo metterti nei casini. Del
resto, uno che ha bisogno di entrare in una setta per avere dei rapporti
sessuali è già messo molto male. Troveremo un’altra soluzione per incastrarli." disse Francesco, guardandolo con sardonico disgusto, e buttò giù il settimo
sorso di whisky.
Mentre Giovanni si preparava a
intervenire con una delle sue poco democratiche idee, accadde di nuovo: la
scena si paralizzò e l’uomo con la tuta gialla entrò nel locale.
Enrico appoggiò lentamente e con un
certo sgomento il suo gelato, guardando prima il viso di Giovanni bloccato in
un’espressione d’immotivata e stolida ferocia, poi l’ingresso alle
sue spalle.
L’alieno non aveva effettivamente
l’aspetto di un alieno, ma neanche poteva essere scambiato per un motociclista;
soprattutto per lo strano design del suo casco, degli stivali e a causa di
quella sua non poco trascurabile capacità di fermare il tempo.
Enrico diede uno strattone a Francesco,
seduto alla sua destra, notando subito in lui la stessa consistenza e fissità lignea che
aveva assunto sua moglie nel negozio di scarpe. Non c’era modo di risvegliarlo.
Poi si guardò ancora attorno, nel vano tentativo di trovare qualcuno in
movimento e di razionalizzare quell’esperienza.
"E’ tutto vero!" disse l’alieno "Ma il tempo non è stato fermato. Ci troviamo in una delle sue frazioni
infinitesimali." Guardò i suoi amici, diede una rapida lettura alle loro menti,
e li trovò ripugnanti.
"Vuoi portarmi nella costellazione del
Cigno, questa volta?" chiese Enrico, sudato.
"E a che scopo, scusa?"
"Non so... Era solo un’ ipotesi. Hai
altre intenzioni, quindi?"
"Non ho alcuna intenzione. Sei stato tu
a trasportarmi da queste parti." disse l’alieno, accomodandosi vicino a una
ragazza obesa e paralizzata nell’atto
d’infilarsi mezzo panino in bocca.
"Io?!" gridò Enrico, sempre più
confuso.
"A che stavi pensando, prima che
arrivassi?" chiese l’alieno, togliendo alla ragazza la parte di panino ancora
integra e mangiandosela con gusto.
"A mia moglie, credo." rispose
Enrico.
"Tua moglie?! Guarda cosa mi ha
regalato la mia." disse l’alieno, e si sfilò da sotto la tuta un elaborato
bracciale che, dopo aver mostrato, appoggiò distrattamente sul ginocchio
paralizzato di Giovanni. "...Abbiamo appena festeggiato il nostro
trecentoduesimo anniversario; è un’ ottima compagna, con un buon patrimonio
genetico. Tu, invece, quali pensieri o sentimenti associ a tua moglie,
generalmente?" chiese l’alieno, curiosando un po’ dappertutto.
"Bèh!...Parecchi. Credi che abbiano un
peso in questa faccenda?"
"So che alcuni umani con un desiderio
particolarmente intenso di “evasione”, a volte, possono generare una torsione
del sesto campo triogeno di Mandelgggot o quello che la vostra primordiale
scienza considera più semplicemente un tunnel spazio temporale." disse
l’alieno.
"Quindi, tutte le volte che vorrei
scappare da mia moglie, interferisco con le leggi dell’universo? E’ questo che
vuoi dire?" chiese Enrico, stupefatto.
"Qualche volta ci riesci. Dipende
dall’intensità delle tue emozioni. Noi, quelli come te, capaci di generare
questa distorsione, li chiamiamo “le porte del sesto campo triogeno di
Mandelggggot” e ci stanno parecchio sui coglioni!... Per usare un’espressione
tipica della tua gente, adattissima a far comprendere il mio stato, soprattutto ogniqualvolta mi capita di venire risucchiato senza motivo da queste parti." disse l’alieno, versando mezza bottiglia di birra sulla testa della ragazza
obesa.
"Perdonami! Non sapevo di avere questa
facoltà." disse Enrico, più preoccupato dalla possibilità che l’alieno potesse
sfogare la sua frustrazione sulle altre persone attorno, magari con giochetti
più pesanti di quelli subiti dalla grassona.
"Purtroppo la possiedi, aumenterà
sempre di più e a causa del sesto trigono sarà sempre la mia massa corporea a
subirne le conseguenze." disse l’alieno, infilando un ombrellino da cocktail in
mezzo all’abbondante seno della ragazza.
"Cosa mi suggerisci di fare, allora?" chiese Enrico
"Ovvio! Eliminare chi produce quei pensieri. Tua moglie!" rispose
l’alieno
"Eliminarla? Ma non è eticamente..."
"DEVI FARLO! Hai capito? Promettimelo!" ordinò l’alieno. E aveva assunto dei toni e una posa davvero minacciosi.
"Okay!...Okay!" rispose Enrico e
l’alieno si calmò, diventando piano piano evanescente, fino a scomparire.
Aveva sempre immaginato che gli
extraterrestri, in quanto esseri altamente evoluti, avessero dei sentimenti e
degl’ideali totalmente avversi all’omicidio e alla violenza in generale, ma si
sbagliava di grosso e avrebbe fatto meglio a guardarsi qualche filmaccio di
fantascienza in più per avere l’idea giusta. Era la logica, infatti, la fredda abilità
nel calcolo, il loro forte; e, a ben pensarci, quella del cignomita era la
soluzione più logica. Poteva certamente optare per il divorzio, ma sua moglie
avrebbe comunque trovato il modo di tormentarlo e umiliarlo a lungo, anche a distanza, facendolo
sentire immondizia; se
non, addirittura, evitato di concederglielo.
"Tu fai quello che diciamo noi, nel
caso. Hai capito? Dal momento che ti abbiamo beccato pedinarci e non ne ho ancora
ben compreso lo scopo." disse Giovanni, levando a Bredford il cappellino e
gettandolo all’indietro. L’alcol cominciava a fare effetto.
Enrico diede una rapida occhiata alla
ragazza obesa e fradicia, intenta a guardare il soffitto, poi si
appoggiò coi gomiti al tavolo e disse: "Conosco qualcuno che può
aiutarci."
Il suo sguardo esprimeva una serietà e
una determinazione che li mise a
tacere.
"Domattina torneremo al palazzo di quei
buffoni e vi mostrerò in che modo. Ora pensiamo a divertrci!"
Ad accoglierli nell’atrio c’era
Gighebotagababa col naso tutto incerottato.
appena li vide arrivare, chiamò subito
gli altri tre uomini della sicurezza.
"Cosa volete?" chiese con imprevista
calma. Davanti a lui c’erano solo Enrico e Bredford; gli altri, non facendo
parte del piano, erano rimasti in albergo.
"Lui è rimasto per apprendere." disse
Bredford, indicando Enrico.
"Lui è un amico di quello che mi ha
rotto il naso?" Chiese seccamente Gighe, ma sempre con insolita calma.
"Siamo fuggiti per non pagare le
conseguenze di quel terribile atto d’ inciviltà." disse Enrico; sperando di
confondergli le idee con la sua cultura.
"Dove sono finiti gli altri?" chiese
Gighe, indifferente a quella giustificazione e scrocchiando le dita.
"Credo siano tornati a Milano. Hanno
abbandonato l’albergo poco dopo l’incidente." rispose Bredford, fissandogli
il naso.
"Non è stato un incidente. Ti sembra un
incidente?" chiese Gighe, indicandosi con fuggevole calma la medicazione e insistendo: "Tu perché sei fuggito con loro, poi?"
"Ho discusso con lui tutta la notte l’eventualità di far parte della nostra congregazione. Non volevamo essere
fraintesi e tornare subito col rischio di creare altra confusione." rispose
Bredford, aggiustandosi il cappellino.
"Già!..." disse Gighebotagababa
scuotendo il capo, poi aggiunse:
"Vado a sentire cosa ne pensa il capo.
Aspettatemi qui!"
Nagobeta valutò con pacifica
superiorità quella richiesta e la trovò accettabile; anche perché i due
sembrano sinceri e inoffensivi, ma impose a Enrico di non fare domande; la
seconda e ultima giornata di conferenza stava per aver luogo.
Questa volta, i posti a sedere non
mancavano; tanti non avevano gradito il fattaccio della sera prima. Davanti, i
due videro anche la moglie di Francesco seduta accanto ad altre donne.
"Signori!...Voi che avete fedelmente
atteso e cercato la verità, in questa occasione potrete finalmente
apprenderla, direttamente dalla voce del mio maestro." disse Nagobeta,
passando la parola al vecchio Hioshimura Bikini seduto alla sua sinistra.
L’aveva coinvolto alla conferenza, incapace di organizzare un discorso
convincente sui “principi ultimi” e per paura di fare altre figuracce.
"I principi ultimi..." cominciò a
crepitare, Bikini. "...mi furono dettati nel lontano millenovecentoquarantasei
dal grande Abechido Cillao. Cillao, da ragazzo, amava giocare coi rospi della sua
valle e lanciarsi dagli alberi più alti, come uno scoiattolo volante, finché un
giorno si ruppe una gamba..."
Enrico prese in mano il telefonino e,
cercando di non farsi notare, compose un sms destinato a sua moglie: Devo
fermarmi a Rimini altri quattro giorni. Il lavoro è più importante dei tuoi
acquisti.
Intanto Bikini proseguiva: "...Suo padre, ignorando la capacità
delle ossa di risanarsi e vedendolo soffrire in quel modo, decise di amputargli
la gamba. Così, Abechido Cillao, nel tempo imparò a reggersi su una gamba, come
le gru del lago Hozzumé. Le stesse gru che aveva sempre odiato; poiché,
occasionalmente, si nutrivano anche di rospi..." Andò avanti lentamente e fermandosi solo per bere un sorso d’acqua.
Enrico inviò il messaggio, convinto che
fosse abbastanza cattivo da ottenere l’effetto desiderato.
"...Da questa esperienza, Abechido
ricavò la consapevolezza che ogni cosa può essere vista in maniera
diversa..." procedette Bikini, sapendo di cadere spesso nell’ovvio, ma
cercando di farlo con le pause giuste.
Pochi secondi dopo, il telefonino di
Enrico vibrò furiosamente e lui si chinò per rispondere, a bassa voce, in modo
da non distrarre i presenti.
Sua moglie aveva un fiume di rimproveri
e cattiverie da riversargli addosso. Ascoltò, dapprima soddisfatto per aver
previsto con tale precisione quel tipo di risposta, poi con un fastidio
via via crescente.
Si era sempre piegato al suo volere,
con mite rassegnazione, senza mai permettersi di offenderla o criticarla; ed
ora, quello che poteva anche essere considerato uno scherzo, dopotutto il
messaggio era in completo disaccordo con l’abituale condotta di Enrico, aveva
scatenato in lei tutta quella rabbia.
Fu preso dal più totale sconforto e, al
pensiero di tornare a casa, anche da un fortissimo desiderio di evasione. Si
concentrò per aumentare l’intensità di questa sensazione; immaginò il viso
malefico e urlante della moglie, con uno zoom sui suoi incisivi giallastri e
storti, le goccioline di saliva sparate nella foga degl’insulti, il nuovo paio
di scarpe violette, lo shopping, ecc...
I neuroni cominciarono a
cortocircuitare .
Guardò Bikini e la gente attorno, chiedendosi perché non ci fosse finita lei nelle grinfie di quella massa
di fanatici, anziché la moglie di Francesco.
"...Abechido Cillao, fra l’altro, era
nato con un’atrofia al pene e al testicolo destro." proseguì Bikini.
Enrico premette le mani sulla fronte. Sentì una scarica.
Enrico premette le mani sulla fronte. Sentì una scarica.
"...Quindi, neanche poteva soddisfare
quei bisogni tipici dei suoi coetanei."
Enrico si piegò sulle ginocchia.
"...Grazie a questa fortunata serie di
eventi naturali, all’età di tredici anni, Abechido Cillao decise di
ritirarsi in una baracca di sterco e bambù per apprendere quanto gli veniva
offerto dai preziosi libri lasciategli in eredità dal nonno materno; da quelli
che a volte la gente ricca gli regalava, e da quelli più economici che i
ragazzi della sua età gli gettavano davanti alla baracca, prima di andare a copulare con dolci fanciulle..."
Enrico ebbe un altro violento flash di
denti giallastri e scarpe violette, ultimo catalizzatore della scarica
neuronale alla base della torsione del sesto campo triogeno di Mandelgggot, e
il buco spazio temporale si aprì.
L’alieno entrò di corsa nell’auditorio paralizzato, bestemmiando e reggendo due globi luminosi, avvolti da una
nube di scariche elettriche, che scagliò contro Enrico.
Non riuscì a prenderlo, ma colpì altre
tre persone che stavano dietro di lui. Fortunatamente gli atomi dei loro corpi
stavano in un altro tempo; quindi, al momento dell’impatto, non subirono alcuna
reazione con l’enorme energia scaturita dai globi. Enrico si gettò a terra,
mentre l’alieno tirava fuori qualcos’altro dagli stivali. Un oggetto acuminato,
molto simile a un coltello. Strisciò, poi, a carponi verso gli occhiali; questa mossa
gli aveva ricordato quanto fossero utili le lenti infrangibili.
"Cosa vuoi? Ancora tu!" gridò l’alieno,
raggiungendolo in un batter d’occhio e frantumando gli occhiali con un colpo di
tacco.
Enrico non immaginava di trovarsi in
una situazione così pericolosa. Fu sollevato di peso e scaraventato contro una
parete.
"Aspetta!!...Non uccidermi!" gridò;
del sangue gli colava da un orecchio. "Ti chiedo solo di aiutarmi! Solo per
questa volta! Dopo non ci sarà più alcun varco spazio temporale ad aspirarti." disse Enrico.
L’alieno gli sparò un raggio di luce
rosa sulla testa.
"Sei proprio sicuro?" chiese, mentre riponeva il similcoltello nella tasca dello stivale.
Enrico si portò le mani alla testa, cercando di valutare gli effetti del raggio.
Enrico si portò le mani alla testa, cercando di valutare gli effetti del raggio.
"E’ solo un ripristinatore molecolare;
ti ha salvato dal trauma cranico appena subito." disse l’alieno. "Sul
nostro pianeta, ogni tanto, soprattutto fra parenti, capita di fare a botte
fino a spezzarsi le ossa. Poi col ripristinatore torniamo sani. E’ divertente. Un metodo sicuro per scaricare la tensioni famigliari."
"Vorrei farlo sperimentare a mia
suocera." disse Enrico, guardandosi la spalla imbrattata e mettendo un dito
nell’orecchio, per verificare l'effettivo arresto dell’emorragia.
"Funziona. Non preoccuparti! Dimmi, piuttosto, cosa cerchi. E in fretta, se non vuoi provare gli effetti di qualche
altra frattura." disse l’alieno.
"Ti chiedo di attendere soltanto
qualche minuto." rispose Enrico e tirò fuori dalle tasche dei pantaloni un
grosso pennarello nero.
L’alieno si sedette accanto a un tizio
con la barba molto lunga e cominciò a intrecciargliela. "Fai quello che
devi! Ti concedo sei minuti al massimo." disse.
Il piano era semplice: Enrico spogliò
completamente Botugashi e lo mise a sedere sul tavolo, davanti a tutti;
poi gli disegnò una freccia sul voluminoso addome, con la punta rivolta verso i
genitali e, sopra, vi scrisse: “la mia verità è questa”. Il cignomita giallo si alzò
perplesso, avvicinandosi lentamente alla scena.
"Che significa, tutto ciò?" chiese a
Enrico.
"lui professa una dottrina priva di
fondamento..."
"Che tipo di dottrina?"
"Qualcosa che riguarda la rivelazione
di alcuni principi definiti “ultimi”" rispose Enrico.
"Non esistono principi ultimi. Tutto è
opinabile, in continua evoluzione!" sentenziò l’alieno.
"Eppure, questi credono di saperla
lunga."
"Anche l’anziano professa menzogne?"
"Sì. Lui è il maestro."
L’alieno fece un giro attorno al tavolo
e sfilò il microfono di Bikini dal piedistallo.
"Che vuoi fare?" chiese Enrico,
preoccupato.
Elvira lo aveva chiamato,
supplichevole, sconvolta, proprio mentre lui stava calcando l’ultima valigia
nel bagagliaio.
"Come abbiamo fatto? Come abbiamo
fatto a farci ingannare in quel modo?!" aveva esordito, singhiozzando nella
maniera più commuovente possibile, benché a Francesco importasse solo avviare
le pratiche della separazione. Approfittò dell’occasione per comunicarglielo,
poi chiuse rapidamente il cellulare e, con l’altra mano, il bagagliaio. Fece questo abbassando di botto lo sportello.
In macchina fu accolto dallo sguardo
interrogativo di Giovanni e dall’incertezza degli altri. Enrico, in
particolare, sapeva di avere poche chance nel fare un rapporto convincente
sulla conferenza. A nessuno dei suoi amici interessava credere o pensare
all’argomento u.f.o; men che meno accettare la stravagante realtà della sua
esperienza.
Anche Bredford non poteva descrivere in
modo appropriato l’accaduto, proprio per via dell’oggettiva frammentazione dei
suoi ricordi. Gli era sembrato di vedere Botugashi balzare istantaneamente sul
tavolo mentre perdeva in qualche modo i vestiti, rimanendo nudo e con quella
scritta sulla pancia; tutto questo mentre il suo maestro, Bikini, altrettanto
inesplicabilmente, si alzava urlando e senza pantaloni. E con mezzo
microfono nel culo.
"E’ assurdo! Esattamente quanto le
poche cose cui accennavi prima, in albergo." disse Francesco, avviando il
motore.
"Guarda, in effetti credevo
anch’io che fosse nel loro interesse coinvolgere, anziché indignare la
gente." rispose Bredford.
"Comunque, il vero problema, per me, adesso, è di capire se avete intenzione di riportarmi all’autogrill in cui ho lasciato l’ automobile."
"Comunque, il vero problema, per me, adesso, è di capire se avete intenzione di riportarmi all’autogrill in cui ho lasciato l’ automobile."
"Prima di arrivare al tuo autogrill,
hai tutto il tempo di spiegarti meglio. Visto che qualcuno sembra molto
reticente." disse Francesco, alludendo a Enrico.
Se Elvira lo aveva chiamato per scusarsi in quei toni drammatici, qualcosa di molto strano doveva pur essere accaduto, pensò, e voleva saperlo.
Se Elvira lo aveva chiamato per scusarsi in quei toni drammatici, qualcosa di molto strano doveva pur essere accaduto, pensò, e voleva saperlo.
"Quello che ti abbiamo raccontato è
tutto. Comunque, nella seconda o terza fila del salone congressi, c’era anche
tua moglie. Chiedi a lei, se non credi alle nostre parole." disse Enrico,
sempre più innervosito dal rientro a casa e dalla possibilità che questo
disagio potesse generare un altro wormwole; magari nella macchina su cui
stavano viaggiando. Che avrebbe fatto questa volta il cignomita? Aveva promesso
che non l’ avrebbe mai più disturbato; la promessa, fra l’altro, includeva
anche l’eliminazione di sua moglie.
"Okay! Finiamola con ‘ste cazzate!" intervenne Giovanni. "...Alla fine ci siamo divertiti e ognuno ha trovato
quello che cercava. E’ stato un gran bel weekend, insomma. Ho pure rotto il
setto nasale a un culturista nero di oltre un quintale."
"Hmmm... Già!...: son soddisfazioni, queste!" disse Enrico.
"Comunque io non ho trovato quello che
cercavo." proseguì Francesco.
"Tua moglie! Non stavi parlando con
lei, prima? Da quello che ho sentito, mi pare voglia tornare a casa." disse
Giovanni.
"Hai capito male. E, in ogni caso, non
m’importa quali siano le sue intenzioni."
Francesco non mentiva del tutto. Ora
voleva semplicemente tornare a casa e ricostruire la sua vita. Naturalmente
avrebbe accettato qualsiasi discussione ragionevole con sua moglie, pur di
chiarire i motivi che l’avevano spinta ad entrare nella setta, ma concesso
nessun perdono. Soprattutto per via di quei rapporti sessuali di cui aveva
parlato Bredford.
"Neppure io ho trovato quello che
cercavo." disse Bredford. "Anzi, per dirla tutta, è già la terza volta che
finisco da queste parti e non ciulo."
"Tu, invece, hai trovato quello che
cercavi? Forse quel benessere dovuto alla lontananza da tua moglie?" chiese
Giovanni a Enrico.
"Sì. Ho trovato questo e molto di
più."
Anche Giovanni aveva delle cose da
chiarire con la sua compagna; anche se a lui, realmente, importava molto poco
di quali fossero le conseguenze. Sapeva soltanto che lei voleva prenderlo in giro e non poteva accettarlo. Ci aveva già pensato la sua ex a
ridicolizzarlo bene bene.
Pensò che, comunque sarebbero andate le
cose, era in una posizione privilegiata rispetto ai suoi amici e ai loro
problemi di cuore. Una situazione da cui poteva uscire a piacimento e
concludere con uno dei suoi semplici “vaffanculo!”. Controllò sul cellulare il
numero di volte che l’aveva chiamata durante quei tre giorni di vacanza e si
accorse che, su ben otto tentativi, lei aveva risposto soltanto una volta per
dirgli che stava andando da sua nonna.
Le altre volte, il numero era risultato
irraggiungibile. La situazione, quindi, meritava di essere approfondita.
"Veniamo sempre qui, al parco, a
discutere i nostri problemi." disse Lisa, arrivata puntuale all’appuntamento e
con un nuovo percing sul sopracciglio.
Giovanni l’abbracciò, senza curarsi di
quell’affermazione. Non voleva allontanarsi dal suo obbiettivo con inutili
discussioni.
"Bello! Chissà cosa ne pensa tua
nonna!" disse, indicando il percing.
"Mia nonna?!..." borbottò Lisa, pensando
che la vecchia fosse talmente rincoglionita da non menargliela neppure se si
fosse presentata a casa sua con il costume di wonder woman. "Gli ho fatto
molta compagnia in questi due giorni, sai?"
"Ecco perché il cellulare risultava
sempre irraggiungibile!" rispose Giovanni.
Lisa lo guardò con simulata
frustrazione. "Già! Non ci posso far nulla se lei ha paura delle onde
elettromagnetiche."
Erano arrivati al problema, quello della sfiducia, pensò.
Erano arrivati al problema, quello della sfiducia, pensò.
"Questa volta ti credo e..." rispose
benevolo, sorprendendola "..., a proposito di tua nonna, devo farle un regalo.
L’ho comprato a Rimini e desidero incontrarla oggi stesso per
consegniarglielo." disse Giovanni.
Lisa non sapeva che fare. Lo fissò per
qualche secondo prima di rispondere. Giovanni era maleducato e imprevedibile,
inoltre, già conosceva l’anziana e la sua abitazione; quindi, se quello era un
piano per interrogarla e confermare i suoi sospetti, avrebbe comunque cercato
di attuarlo. Anche da solo.
"Va bene, andiamo! Di che si
tratta?" chiese Lisa.
"E’ un piatto decorativo, di quelli che
si appendono. Ricordo di averne visti alcuni nella sua cucina e ho pensato di farglielo aggiungere alla collezione."
"Lo apprezzerà sicuramente. Hai preso
anche quello a Rimini?" chiese Lisa, incuriosita dal nuovo bracciale di
Giovanni.
"Sì, ma non è un acquisto. L’ho trovato
in un locale. Qualcuno deve averlo dimenticato sulla mia sedia. Me lo sono
sentito scivolare in mezzo alle gambe, come se fosse caduto dal nulla."
L’idea del piatto decorativo, in effetti, riscosse subito le premure della vecchia che, una volta arrivati nel suo
appartamento, li fece accomodare e corse a preparare un tè.
La signora Olga aveva un abominevole
cespuglio di capelli bianchi e il labbro inferiore pendente. Le restavano forse
quattro denti in bocca e, per parlare, doveva ogni volta sputacchiare una
quantità enorme di saliva.
Il disagio provato da Giovanni la prima
volta che la vide, fu riconfermato. Si sedette accanto a una cupa credenza in
mogano su cui erano posate almeno una dozzina di foto; tra queste, anche una
recente della nipote che stonava vistosamente con l’antichità degli altri
ritratti.
Dopo pochi minuti, Olga entrò
barcollante nel soggiorno reggendo un vassoio pieno di dolcetti. "Prendetene
ragazzi!...Prendet..." disse, inciampando su una piega del tappeto.
Giovanni nel vedere tutti i dolcetti
sparpagliati a terra provò una sorta di demoniaco divertimento e finse di volersi precipitare a
raccoglierli; come suggerivano le sue, spesso simulate, buone maniere.
Olga, tuttavia, si era già chinata con gran fatica per ricomporli sul
vassoio e offrirli nuovamente.
"Prendete, prendete, gli ho fatti io!" disse.
Giovanni le vide ciondolare un po’ di
saliva dal labbro inferiore mentre si accasciava stanca su una poltrona.
"Ma vaffanculo, vecchiaccia! Sono pure caduti a terra!!" pensò.
"Ma vaffanculo, vecchiaccia! Sono pure caduti a terra!!" pensò.
"La ringrazio, ma dovrò farne proprio a
meno: il medico mi ha diagnosticato un eccesso di zuccheri nel sangue." invece rispose, voltandosi verso Lisa.
"Mangiane almeno uno, sennò si
offende!" bisbigliò lei.
"Vuoi farmi aumentare i trigliceridi
fino ad avere una crisi?" chiese Giovanni; poi mise una
mano in tasca per prendere il telefonino e finse di trovarlo spento, poiché
scarico.
"Puoi prestarmi il tuo, Lisa?"
Intanto la nonna tirò fuori
dall’armadio delle porcherie riservate agli ospiti una confezione di salatini,
mai aperta e scaduta da un anno. Dopotutto, non poteva saperlo e mai avrebbe potuto, neanche con le
migliori lenti.
L’aprì rapidamente, forse con troppa
concitazione. Giovanni la vide sbuffare ancora, affaticata e generosa di sputacchi,
molti dei quali finirono nella vaschetta dei salatini.
"Signora, questo è il cellulare di sua
nipote." cominciò Giovanni. "...Lo guardi con attenzione, per cortesia!"
Olga si avvicinò, tanto da fermare la
punta del naso a una decina di centimetri dall’apparecchio.
"Bello! Immagino sia molto utile." disse.
"Non ha paura delle sue onde
elettromagnetiche, signora?" insistette Giovanni, osservando l’espressione
stupita della sua compagna.
"Cheee?!!" rispose Olga, avvicinandosi
ancora un po’.
"Le onde, signora, le onde!... Quelle
che potrebbe emettere questo apparecchio e che potrebbero interferire con il corretto funzionamento dei suoi pacemakers."
"Non capisco, perdonami ragazzo mio!" rispose Olga.
"Un’altra domanda, signora, poi ho
finito! Lei sarebbe in grado di spegnere questo apparecchio?"
Lisa si alzò di scatto e corse
terrorizzata verso l’attaccapanni a recuperare i giubotti. Era importante
uscire da quella casa, prima che giovanni potesse esplodere con una delle sue
sfuriate.
"Non credo, ragazzo. Fatico pure a
vedere i tasti. Inoltre sono troppo vecchia per queste cose e non saprei
neppure da dove cominciare!"
"Bene signora!..." disse Giovanni,
indossando tranquillamente il suo giubbotto.
"...Allora devo dedurre che la sua cara
nipote è bugiarda." Controllò rapidamente i messaggi memorizzati. "...Bugiarda e anche un po’ mignotta." aggiunse.
Olga balbettò qualcosa, in un
drammatico momento di tensione che gli fece tremare le mani, tanto da perdere
la presa sulla vaschetta dei salatini. Caddero lentamente, uscendo come una
cascata dai loro quadratini fino a rimanere sospesi a mezz’aria. Lisa si stava
piegando a raccoglierli con una drammatica smorfia di dolore fissata
sul volto, e rimase così, quando il tempo fu rallentato fino al punto di
fermarsi.
"Dannato terricolo! Non sei all’altezza
d’indossarlo!" pensò il cignomita avvicinandosi a Giovanni.
Era apparso come un fantasma sulla
scena e, in questa occasione, senza la deformazione del sesto campo triogeno di
Mandelgggot generata dai pensieri di Enrico.
Aveva fatto tutto da solo, sfruttando
quei costosi marchingegni che gli abitanti del suo mondo usavano per viaggiare
nel tempo.
Tolse il suo bracciale dal polso di
Vanny e tornò in un lampo, questa volta definitivamente, nella costellazione da
cui proveniva.
Non gl’importava niente dei loro
problemi; di quelli che aveva Francesco con la moglie, della libidine insoddisfatta
di Bredford, della ipertricosi di Botugashi, delle sfighe di Abechido Cillao,
di Olga, e di tutti quei pazzoidi che aveva incontrato in ogni sua apparizione
sulla Terra. Le vicende umane erano troppo complicate e stupide anche per un
essere bizzarro come lui.
Soltanto Enrico, alla fine, non l’aveva
deluso; era stato capace di mantenere la promessa.
Il mistero del cignomita giallo (2005)
Racconto di Fabio Cavagliano
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commenti:
Corra 26 Febbraio 2006
Trovo il tuo racconto molto coinvolgente, anche per il piccolo episodio che mi riguarda (anche se indirettamente).
La storia è ben fatta, e mi ricorda a tratti una di quelle commedie all'italiana, in particolare gli ultimi fil di Carlo Verdone dove alla base ci sono problemi sentimentali.
Infatti dal potere dell "solita" "donna" nasce un racconto estremamente comico, come lo sono i dialoghi stessi, con i classici "amici" sempre pronti a "sputtanarsi" a vicenda.
Una nota positiva, e che mi ha fatto sorridere sotto i baffi, sono i dialoghi; nella fattispecie, quando citi parole in inglese scrivendole come si pronunciano... (l'hai fatto apposta? 😃...)
Poi, ovviamente l'episodio della nonna!... Davvero azzeccato il personaggio, e, ti dico la verità, con Giovanni hai fatto e detto quello che avrei voluto fare io, se ne avessi avuto la possibilità... ('sta zoccola!...: Nonna e nipote).
Mi è piaciuto anche il modo in cui hai scelto di presentare il mondo alieno, con il cignomita di un azzeccato color giallo.
Direi in conclusione che mi sono divertito nel leggere il tuo racconto, e che ci vedrei bene una versione filmata. Verrebbe fuori un'ottima commedia. Voto generale: 7 1/2
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