domenica 10 novembre 2013

Il terzo occhio

Racconto di Caribbean Caribù

«Ehi amico, ci hanno fottuto. Quella non è la luna che fissavamo da piccoli, l'hanno cambiata».
Queste furono le ultime parole di Gloryhole Jack prima che il suo cervello andasse in tilt per un'overdose di tè.

Fin da piccoli io e Jack, il mio migliore e tutt'ora unico amico, avevamo sempre avuto una predisposizione alla dipendenza.
Il primo caso che ricordo fu la marmellata di zia Pearl.
Zia Pearl era una produttrice seriale di marmellata, e noi le mangiavamo gran parte delle scorte. Accadde però che una volta ne mangiammo così tanta da ritrovarci a vomitare per cinque giorni di fila. Lì terminò la nostra prima dipendenza, ma ne iniziò subito una seconda, peggiore e inconsapevole; almeno, fino a quando si scoprii che la zia aggiungeva un ingrediente inusuale nella sua marmellata, ovvero dei piccoli e coloratissimi funghi che zio Rufus coltivava di nascosto. Il motivo? Forse non riusciva ad amarci oppure, al contrario, lei e lo zio pensavano che quello fosse un buon rimedio per portarci sul sentiero giusto, quello dell’espansione di coscienza…
Da lì a capire che si trattava di funghi allucinogeni, comunque, passò qualche annetto e nel frattempo sperimentammo caramelle frizzanti, junk food, alcool e sigarette; poi, arrivati finalmente all’adolescenza, approfondimmo lo studio con le droghe, da quelle più leggere fino ad arrivare alle anfetamine presentate durante le lezioni di chimica del professor Walter White.
Un poveruomo schiacciato dal peso della società e del pregiudizio, e che trovò un metodo poco legale per arrotondare il suo misero stipendio.
I funghi di zio Rufus, in ogni caso, restano tuttora i nostri preferiti.
Il caro, vecchio e psicotico Zio Rufus!… Da quando ci aveva lasciato, per via di quella strana intossicazione, avevo ereditato il suo hobby. Coltivavo e vendevo io i suoi funghetti; sì, perché lui non aveva proprio l'anima del commercio.
Fu proprio per loro, comunque, che finii dentro la prima volta.



Questa, invece, me ne stavo lì, bello seduto ad aspettare la firma del direttore del carcere nel quale ero stato sbattuto per errore, trovandomi per caso nel bel mezzo di una rissa fra bande.
In bocca una sigaretta spiegazzata offerta da una guardia più squattrinata di me, un tipo magro e pelato, più pallido e puzzolente di un cadavere.
Mi faceva quasi pena e quasi gli stavo offrendo un tiro con la sua mezza cicca per tirargli su il morale, quando arrivò Gloryhole a prendermi.
«Finalmente sei arrivato!» dissi, «qualche compagno, qui, stava quasi pensando di darmi l’addio con una bella passata».
«Fanculo Fergie! Ho anch’io i miei cazzi da cagare. Ringrazia, piuttosto, che ho dovuto rimetter piede in ‘sta fogna solo per te.» rispose lui.
Un modo gentile di salutarmi, dopo tutto quel tempo a cercare di mantenere integro il mio sfintere anale. Il mio umore, poi, era più nero delle nubi pronte ad accoglierci all’uscita e stavo morendo di fame; morivo anche dal desiderio di farmi un bel trip. Due settimane di astinenza erano state davvero molto, troppo per uno come me.
Glory non disse e non chiese niente a riguardo, partì e come al solito si diresse nel buco dove vive Gecko, il mio migliore cliente; anche se in questo caso le cose si erano capovolte, visto che dei topi tossici di appartamento si erano presi quasi tutto quello che avevo in casa. Fortunatamente, tanta di quella roba da non farmi avere guai con le ispezioni della narcotici avvenute in quei giorni.
Anche Glory, inoltre, si era dato un gran daffare per esaurire le scorte di emergenza e dunque urgeva un rifornimento; anche se non potevamo tornare al “grande magazzino”, ovviamente.
Sapevo che avrebbero controllato per un po’ i nostri spostamenti.
Gecko era il pesce piccolo per l’occasione, quindi. A lui, forse, non lo avrebbero nemmeno cagato per un banale interrogatorio.

«Cazzo Fergie, dove eri? Ti ho cercato per giorni e non rispondevi» disse Gecko appena aperta la porta. Era nervoso, troppo per i miei gusti. Non avevo voglia di discutere con lui, ma dovevo farlo per salvare la mia immagine e i miei affari.
«Cosa vuoi dire Gecko? Hai trovato qualcuno con dei prezzi migliori?»
Glory lo prese per la maglietta lurida e lo alzò da terra. Lui faceva sempre così; non era un umore riservato solo a quando mi veniva a ripescare dalle carceri.
«No, no, no! Ho solo rimediato qualcosina per tenermi su».
«Facciamo così, dammi la merda che hai preso e la questione si chiude qua. Anzi, voglio essere gentile, facciamo metà d’accordo?» chiesi.
Glory mi fece l’occhiolino, un cenno di assenso, poi lo rimise giù.
«Sì…» rispose Geko, «grazie!»
Il suo appartamento era una vera topaia. Un buco con un materasso buttato a terra e un tavolino basso dove preparare le righe e le canne. Ce ne erano proprio tre appena fatte, assieme a delle strane palline di materiale gommoso e giallognolo.
Gecko era un tipo molto propenso alla sperimentazione; oltre a ricombinare la formula di diverse droghe era pure stato pagato da un laboratorio per fare da cavia.
Ci consegnò una bustina con delle pasticche nere, sopra di esse era impresso un triangolo con un occhio inscritto.
«Cosa sono queste?» gli chiesi. Era la prima volta che vedevo quel simbolo. «Ecstasi di qualche nuovo cuoco o roba tua?».
«Allucinogeni… me li ha venduti un tipo bello strano, con una lunga barba bianca. Dovevate beccarvelo, ragazzi! Mai visto uno con uno sguardo più freddo e inquietante».
«Babbo Natale?! Non prenderci per il culo, eh!» grugnì Gloryhole.
«Non vi sto prendendo per il culo. L’ha chiamata Third Eye, è roba altamente innovativa. Ti fa fare dei giretti da fantascienza! Ne ho presa una e mi sono presto ritrovato a pattinare sugli anelli di Saturno. Direi, dopo tre o quattro minuti dall’ingestione. La realtà attorno scompare; però l’effetto è stato breve».
«Cioè?» chiesi.
«Una decina di minuti al massimo…» rispose Gecko sicuro.
Se non fossi stato in quelle condizioni, non l’avrei nemmeno sfiorata, ma non avevo alternative, così gliele strappai dalle mani e m’infilai in tasca anche le due canne.
«Sembravano lì ad aspettarci» spiegai. «Dopo ce le fumiamo in macchina» 
«Fanculo!» commentò Glory per chiudere la conversazione e salutare.
Eh… sì!… Ci sapevamo fare con i clienti, noi.
Usciti dalla gabbia, dopotutto, è fondamentale mostrarsi più determinati di prima; altrimenti gli affari vanno subito a puttane.

Non ero convinto della roba di Gecko. Prima di provarla preferivo mettere sotto i denti qualcosa e capire se avevamo davvero un nuovo e valido concorrente.
Accesi la canna e passai l’accendino a Glory che stava al volante. «Andiamo da Simon» ordinai.
Lui s’incazzò. «Simon?!!»
Voleva cagarmi addosso qualche insulto, ma lasciò perdere perché mi conosceva e sapeva che diventavo un gran rompi coglioni ogni volta che tornavo da una gitarella dietro le sbarre.
«Jack, sai cos’è questa robaccia?» chiesi, indicando il cassettino con il finto fondo montato sul cruscotto, in cui avevo appena cacciato la Third Eye.
«La settimana scorsa sono andato al Stray Sheep…» rispose lui. «…Me ne stavo a bere per i fatti miei, quando sento un gruppo di ragazzi seduti al tavolo vicino che parlavano di aver incontrato un tipo brutto e barbuto, una specie di maestro Splinter, e poi di essere, con lui e la sua merda, finiti in altre dimensioni, dove hanno sperimentato ricordi alieni e visto un’infinità di altre cose strane. Pensavo stessero parlando di ologames o qualcosa del genere, tipo quei surrogati di trip tecnologici che vanno di moda adesso, ma dopo aver sentito Gecko ho collegato i vari punti».

Simon gestiva un sushi bar dai prezzi alla nostra portata, con suo zio Nicolai. Entrambi nati in Unione sovietica e, come se non bastasse, dei giganti neri. Dei russi di colore, che gran cazzata!… Ma almeno il cibo era buono.
«Benvenuti amici» ci disse, mostrandosi ospitale come con tutti. «Il solito?»
«Sì, grazie» gli rispose Glory, mentre io come uno zombie proseguivo verso il solito posto nell’angolo, nascosto da un separé.
In poco tempo ci arrivò un vassoio pieno di pesce che divorai senza nemmeno bere o respirare. Sembrava fosse la mia ultima cena.
Glory, invece, stava ancora finendolo quando Simon si sedette con noi. La seggiola scricchiolava sotto il suo enorme peso.
«Fergie,…» disse. Lo osservai mentre si massaggiava il mento con una mano talmente robusta e grande da poterci afferrare il cranio e rimodellarlo a piacimento. «Avrei bisogno della tua polvere di funghetti. Quella che mi hai dato è quasi finita» disse, col suo ridicolo accento dell’est.
Anche lui, come la zia Pearl, aggiungeva lo stesso ingrediente segreto ai suoi piatti.
«Scusa, ma la produzione si è rallentata. Dovrai aspettare qualche giorno» gli dissi; sperando che fosse una buona giornata di self control almeno per lui.
Non mi rispose ma cambiò discorso, fortunatamente.
«Ascolta, l’altro giorno un gruppo di merdosi banchieri si è messo a parlare di Tè. Che cazzo!… Volevano farmi chiudere il locale?!»
Capii, allora, che Simon sapeva già molte cose, magari soffiate veloci veloci da Gecko con una telefonata, e ne voleva sapere altre.
Mettere nei cibi del suo menù sostanze che procuravano dipendenza stava facendosi un bel businnes anche per lui, infatti.
«Tè? Che problemi hai con il tè?» chiesi.
Mi rispose Glory. «Intendeva il Third…» e si interruppe. Sembrava fosse una parola taboo.
«Scusa, non ci ero arrivato subito» dissi cercando di apparire rintronato; anche se non serviva, perché Simon aveva già capito dove volevamo andare a parare.
Ero stato via poco più di una settimana e sembravo a me stesso un alieno che esplorava un nuovo mondo; anche se, in realtà, ero io l’allegro spacciatore del quartiere e non potevo permettermi di non sapere cosa girava nel mio territorio.


immagine presa dal web

Temevo di ricevere una visita di controllo se fossi rincasato, e anche da Glory era da escludere. Così andammo sopra la collina alle spalle della città; un posto dove ragazzi perdevano la loro verginità e clienti delle prostitute consumavano i loro rapporti fugaci.
Ingerimmo la prima pasticca. Allo stesso tempo, in rispetto alla nostra prima, santissima regola; cioè, che uno non poteva essere fatto se non lo era anche l’altro.
In bocca restava un gusto di… Cazzo, amici, è davvero difficile descriverlo! Comunque, simile a un brodo raffermo di pollo e piscio.
«Bella merda eh?!…» fece Glory sulle prime.
Poi, cosa decisamente strana, sembrammo avere entrambi la stessa allucinazione. Davanti all’auto, infatti, comparve dal nulla un lucertolone su due piedi; un essere incredibilmente vecchio.
«Cazzo!» gridò Glory, levandosi i prisma occhiali. E capitava raramente che mostrasse il suo sgradevole impianto all’occhio sinistro.
Quella cosa indossava una tunica purpurea che risaltava con eleganza sul corpo squamoso e nel complesso poteva assomigliare in tutto e per tutto a quei santoni incartapecoriti che si vedono nei film di arti marziali, con tanto di barba lunga fino alle palle; però aveva una mobilissima e robusta coda che si agitava dietro di lui.
Mentre la fissavo allibito, iniziò a parlarmi attraverso la telepatia. Nonostante avessimo alzato i finestrini infrangibili e blindato le portiere, infatti, percepivo la sua voce direttamente nelle orecchie e la sentivo attecchire nel cervello come una pianta parassita rampicante. Era qualcosa di penetrante e aggressivo, come se tutte le scissure e circonvoluzioni del mio cervello fossero irrorate da un acido caldo e scoppiettante.
«Siete miei, miei, miei, miei…» continuava a ripetermi la voce.
Iniziai a tremare dalla paura. Da quand'era che non provavo più una sensazione di panico simile, un bad trip così intenso? Non c’era nulla di simile nelle mie esperienze con le droghe.
Mi voltai verso Glory in cerca di conforto, ma lui non c'era più. Il sedile accanto a me era invece occupato da Cristal, la mia ex ragazza.
La sognavo spesso durante le notti in cui mi sentivo solo, oppure avevo esagerato con il dosaggio dei farmaci prescritti per l'insonnia.
Istintivamente, quindi, mi allungai verso di lei col desiderio di accarezzarle il volto, ma quando le fui vicino mi accorsi di essermi sbagliato. Come dire?!… Si era velocemente mutata in una versione zombie di zia Pearl, con uno sguardo veramente putrido e  incazzato. Forse, nell’oltretomba, aveva scoperto chi rubava il suo ingrediente segreto dal capanno di zio Rufus.
Alzò una mano scheletrica e si agganciò alla copertura, perforandone il metallo; poi alzò anche l'altra e fece la stessa cosa. Ne alzò pure una terza, uscita per l’occasione dallo sterno, ma non poteva essere vero per cui cercai di rilassarmi. Alla fine dello spettacolo, se ne contavano sei; sei braccia che prima diventarono pelose come quelle di zio Rufus e poi si scurirono fino a diventare nere e squamose come la livrea di un cobra.
La testa si staccò dal resto del corpo e cadde sotto il sedile, sempre rimanendo attaccata alla cappotta dell'auto, si spostò sopra di me sbattendomi la figa in faccia.
Cazzo, la mia zia preferita era diventata una specie di ninfo-schifosa creatura da incubo!
Tirai un manrovescio a quella cosa per togliermela di dosso, col risultato che tutte le sue zampe si staccarono dal tettuccio dell’auto e presero a frustarmi con incredibile forza.
Sferzate brucianti andarono a segno sul collo e sul viso facendomi impazzire dal dolore, che poi gradualmente scomparve assieme a tutti gli altri suoni e cose che mi circondavano.
Quella cagata tentacolare era riuscita a farmi perdere i sensi.

Non fu un buon risveglio. Jack mi aveva estratto dall’auto, steso a terra e mi scuoteva violentemente. Cercai, allora, di alzare le palpebre per mostrare che avevo ripreso coscienza, ma senza riuscirci bene. Volevo anche dirgli di stare calmino e non disarticolarmi le spalle con tutti quelli strattoni, ma non sentivo più parte della bocca, o meglio, la sentivo pulsare e non rispondere alla mia volontà.
Poi Glory mi alzò e mi fece sedere a terra, appoggiato alla fiancata dell’auto.
«Fergie, scusa, pensavo fossi morto…» disse, finalmente conscio della mia ripresa. « Ero veramente fuori di me.»
«Cos’è successo?» chiesi con molta fatica, biascicando.
«I miei pugni si sono scontrati contro la tua faccia, quando hai cercato di baciarmi... Colpa di quella merda, spero.»
Jack era un tipo veramente forte. Il suo fisico aveva muscoli e fasci di nervi elastici e scattanti come una fionda, capaci d’imprimere a meraviglia tutto il potenziale offensivo delle sue nocche. Ai tempi delle scuole superiori era il miglior atleta pugilistico del quartiere e delle varie discipline marziali che praticava. Se non ci fossimo incontrati, sarebbe sicuramente diventato qualcuno, un vero campione.
Volevo dirgli di non preoccuparsi, ma facevo ancora fatica ad articolare le frasi con la bocca gonfia e grondate di bava e sangue; così, mi feci aiutare a risalire in macchina e tornammo a casa.
Lì, mi accompagnò in camera e, una volta disteso sul letto, sprofondai subito in un beatifico sonno ristoratore. Questa volta ricco di colorate e cristalline formazioni di oggetti volanti.
Gli effetti della droga si stavano estinguendo col set emozionale delle rassicuranti mura domestiche.
Tanto che, la mattina seguente, appena aperti gli occhi mi sentivo così bene che credevo di aver fatto soltanto un brutto sogno; anche se esageratamente realistico.
Nello stesso istante in cui cercai di voltarmi per controllare l’ora, però, mi accorsi che le cose non stavano proprio così e lancia un urlo in preda a un nuovo dolore. Poi vidi. Lo specchio del bagno, infatti, rifletteva qualcosa che stentavo a riconoscere, dato che tutto il lato sinistro del mio volto era ben diverso dall’altro e un occhio risultava così violaceo e gonfio da non permettermi di aprire la palpebra. All’altezza di un zigomo avevo un taglio rattoppato con due cerotti messi alla cazzo, tuttavia, la cosa peggiore erano le labbra, che sembravano quelle di una troia del ghetto, grosse come due banane e incrostate di sangue raffermo. A fatica le aprii e vidi la maggior parte dei denti ricoperti da una patina rosata. Ecco cos’era quel sapore ferroso che mi riempiva la bocca!
Bevvi un sorso di acqua dal rubinetto e provai lo stesso dolore provato da una limaccia quando viene cosparsa di sale.
Il mio cellulare squillava in lontananza. Tornai in camera e cercai di capire da dove diavolo provenisse il suono, che si era fatto più vicino ma rimaneva comunque ovattato.
Inizia a rovistare tra i vestiti a terra finché lo trovai. Era Jack.
«Sono da Sticky Rob. Raggiungimi!» disse.
«Che ci fai da Rob?»
«Fai in fretta! Ti aspetto.» poi riattaccò.
Sticky Rob era il suo tatuatore di fiducia; “okay, cazzo!… Ma poteva essere un po’ meno laconico” pensai.

Eccolo dunque davanti al negozio di Rob, accucciato a coccolare Chop, il suo rottweiler.
«E’ arrivato il nostro “The elefant man”.» disse alzandosi e indicando al cane le mie tumefazioni facciali.
Era a petto nudo per mettere in bella mostra la scritta “THE IDOL”, tatuata sugli addominali quando ancora eravamo dei ragazzini, a mo’ di cintura della World Wrestling Federation. Una cosa fatta nel nostro periodo di sfegatati amanti di quello spettacolo.
Da quel giorno ne erano passati di anni e il suo corpo era diventato simile alla mappa di un videogames.
Ora, appena sopra la scritta, aveva un grosso cerotto quadrato segno di un nuovo intervento pittorico sulla sua pelle.
«Cosa volevi di così urgente?» gli chiesi.
«Andiamo a sistemare il bastardo che ha messo in giro quella merda nella nostra zona. Sali amico!» disse, riferendosi prima a Chop che a me.
Il cane scodinzolava, sembrava contento di tanta considerazione o, molto più probabilmente, di poter addentare qualcosa di vivo.
Io, invece, guardai l’orologio. Erano le nove del mattino, eppure il cielo era pieno di nubi temporalesche e ancora scuro, quasi come se fosse notte.
«Mi chiedo perché ti ostini a portare quella camicia azzurra…» disse Glory, vedendomi osservare in alto la perturbazione di petroloilcarburo in arrivo.
I pannelli incollati sulle spalle, infatti, avrebbero avuto ben pochi raggi uva da assorbire in quella giornata, per ricaricare tutti i miei bioregolatori.

«Ho dovuto ripassare dal nostro Gecko, mentre eri nel bel paese dei sogni…» esordì Glory, pigiando l’acceleratore.
Stava guidando come un folle; tagliando curve e senza curarsi di semafori e passaggi pedonali.
«Tutto bene?» gli chiesi.
«Benissimo!… Ma lo abbiamo perso come cliente.»
«Solo come cliente?»
«Forse anche come essere umano. Sai com’è?!…»
Le gomme violentate fischiavano, assieme al rombo del motore che quasi copriva le sue parole.
«Cosa?» insistetti, preoccupato.
«No, ecco…» fece lui, «credo di esserci andato giù pesante, questa volta. Comunque respirava ancora quando me sono andato.»
«Ah! Bene...» risposi. «C’è una ragione per tutto questo?»
«Mi pare ovvia, Fergie. Qualcuno doveva pur dirmi dove trovare il barbone che distribuisce la Third eye.»
E lo trovammo.


Era vicino a un ingresso del blocco cinquantuno e indossava un lungo impermeabile marrone diarrea lacerato e bucherellato in più punti, dal quale sbucava una lunga barba bianco elettrica, dai riflessi quasi azzurrognoli, e sulla testa si era schiacciato un insulso berretto quadrato da baseball, di quelli con la parte frontale imbottita che non andavano più di moda da un secolo.
Circondato da due negri che si credevano gangsters si sentiva al sicuro, ma le loro gambe secche e tremanti dicevano tutt’altro; attorno, poi, c’erano anche un gruppetto di ragazzi di etnie miste, tutti vestiti alla stessa maniera schifosamente omologata. Dei “drogapupazzetti” fatti in serie. “Compra il tuo teppistello personale, lo trovi in varie colorazioni: nero, giallo e mulatto; oppure cerca la versione limitata bianca…”, diceva uno slogan improvvisato dal mio inconscio per l’occasione.
La mossa di Jack non si fece attendere, comunque. Attirò l’attenzione di Chop, che si stava leccando le palle, sbattendo la mano sulla gamba e poi si avviò verso l’allegro gruppetto.
«Ehi stronzetti, come va?» gridò, allargando le braccia e mostrando un sorriso falso come il muro del pianto a Las Vegas.
I ragazzini, che oltre al disgustoso vestiario sembravano anche i più stupidi, in realtà furono i primi a scappare; dimostrando così un possibile sprazzo d’ intelligenza o, forse, semplicemente istinto di conservazione. I due negri, invece, si voltarono verso Gloryhole e fecero una mossa molto stupida. Alzarono i giubbotti ed estrassero due pistole.
Tutto mentre il nostro uomo barbuto scappava prontamente dentro il palazzo.
«Porca puttana! Prendilo Chop!» ordinò Jack e il suo amico a quattro zampe scattò all’inseguimento.
I due rincoglioniti neri dalle gambe secche, quindi, anziché continuare a controllare la minaccia davanti a loro, lo seguirono con lo sguardo.
Seconda mossa davvero stupida, che consentì a Glory di avventarsi contro di loro e di colpirli entrambi al volto. Bam! Bam!
Due cartelle da paura. Partirono denti, schizzi di sangue e grida strozzate di dolore. Quando all’esito delle loro teste, invece, si può dire che colpirono il soffice manto stradale già prive di conoscenza.
Lo slancio era stato così poderoso che, dopo averli colpiti, Jack aveva proseguito di qualche altro passo prima di riuscire a fermarsi e riprendere l’equilibrio.
Poi si voltò e mi sorrise arrabbiato.
«Cazzo!!… Seguilo invece di startene imbambolato!»


L’abbaiare di Chop ci guidò nel seminterrato di quella merdosa palazzina dalle pareti e porte tutte uguali e che dall’esterno sembrava un incrostato tumore cubico di cemento.
Il cane stava grattando con insistenza una porta di metallo, dietro cui il bastardo si era sicuramente rifugiato.
Nemmeno questa riuscì a resistere alla forza sovraumana di Glory e venne scardinata al terzo calcio. Con un solo colpo frontale di quelli, avrebbe potuto tranquillamente sfondare il torace a un uomo, ma quello che avevamo ora di fronte forse non lo era del tutto; i suoi occhi, infatti, s’illuminarono di un rosso vivo, anche se fui il solo a notarlo.
Stava al centro di una piccola stanza impregnata dell’odore asfissiante di uova marce o qualcosa del genere di cui probabilmente si nutriva, visto che a terra c’erano pure dei gusci rotti, misti a liquami e frattaglie di vario tipo. Tutt’attorno a noi, facevano inquietante mostra anche dei congegni e strutture metalliche da cui uscivano un fottio di elettrodi, tubicini e cavi.
Un ambiente del cazzo e davvero strano.
«Guarda!» fece Glory.
Due enormi bobine da cui partivano di tanto in tanto dei lampi, erano agganciate alle pareti.
«Avete bisogno signori?» chiese il vecchio.  Stringeva tra le mani una specie di uccelliera e un brutto e troppo calmo sorriso di denti aguzzi ne seguì la domanda.
«Sei tu che produci quella merda di pasticche nere?» chiesi. Del suo volto, ora nascosto dalla visiera del berretto e dalla barba, s’ intravedeva solo quella misteriosa fosforescenza oculare.
«Ve ne serve ancora? Ve ne posso procurare tutta quelle che…»
Ma Glory non fu così gentile da aspettare che terminasse la frase. Si era avvicinato minaccioso e con un gesto di stizza gli aveva già strappato dalle mani la gabbia.
Solo allora notai i cavi che la collegavano al tavolo di vetro appoggiato alla parete più lontana, mentre Gloryhole adesso aveva afferrato il collo dell’uomo e lo stava stringendo.
Era fatto e impestato di qualcosa, sicuramente, oltre che dall’alcol; visto che non sembrava soffrire molto della cosa.
«Aspetta G» dissi. Mi avvicinai, accesi una sigaretta e gli soffiai in faccia il fumo appena aspirato, come avevo visto fare in qualche film.
«Noi non vogliamo la tua roba. Questo è il nostro territorio e qui le regole le dettiamo noi.»
Per tutta risposta, i suoi occhi si aprirono e chiusero con veloci apparizioni di una strana membrana sub palpebrale, così feci un cenno a Glory per osservare meglio il fenomeno e fargli allentare la presa.
Niente. Erano tornati normali o forse mi stavo sbagliando, visto che anche Jack sembrava non aver notato nulla di strano.
«Sei nella zona sbagliata e senza permesso… E hai pure cagato nel nostro bel giardino» spiegai. «Ora dovrai pagarne le conseguenze. Capisci?»
Gli afferrai quel ridicolo cappellino e lo tirai per toglierlo, ma era come se ce lo avesse incollato sulla testa.
Tirai altre volte allora, e più forte, ma non riuscii lo stesso.
«Fergie, ti sei rincoglionito?» mi gridò Glory, prima di afferrare e strattonare lui stesso il berretto.
E quello schifoso iniziò a sghignazzare.
«Scopriamo la tua bella testaccia di minchia e poi inizio a strapparti tutti quei denti da ermellino, poi vediamo se continuerai a ridere» lo minacciò Glory prima di riuscire a sradicare il copricapo.
Quello che vidi, però, mi fece sobbalzare indietro dallo spavento e cadere a terra.
Glory, invece, non si scompose.
«Cristo santo, cosa cazzo sei?!» gridò, dando voce anche ai miei pensieri.
Assieme al cappello, infatti, Jack aveva staccato una specie di brandello della maschera in similpelle che ricopriva il muso della creatura. Una cosa squamosa e scura, irrorata da un sudore verde acido e con due mollicci e ballonzolanti occhi rossi.
I denti, gialli e aguzzi, invece, ancora gli sbucavano da quel cazzo di sorriso.
Un istante dopo, anche una lunga e robusta coda fece la sua comparsa da sotto l’impermeabile, e serpeggiando veloce andò a sbattere e incastrarsi nella bizzarra gabbia degli uccelli che Glory aveva scagliato a terra.
Al solo contatto con essa s’illumino ed il bagliore che ne uscii era così forte e accecante da far sparire ogni cosa; l’essere ne approfittò per liberarsi dalla stretta e lo sbigottimento di Glory, senza però dimenticarsi di assestargli una bella ginocchiata al torace.
Con un unico balzo raggiunse il tavolo in fondo alla stanza; sulle pareti, poi, apparvero dei geroglifici senza senso, mano a mano che il biancore accecante si attenuava, e la stanza iniziò a vibrare come se ci fosse un terremoto.
Dalle bobine era partito un sibilo che, in breve, aumentò d’intensità quasi fino al punto di perforarci i timpani.



Un lampo mi aveva alzato da terra e scaraventato contro una parete che sembrava magnetizzata, visto che non riuscivo a staccarmene. Glory, invece, era allo stesso modo volato dall’altra parte della stanza, rimanendo appeso quasi all’altezza del soffitto.
Nello stesso istante in cui i nostri corpi toccarono le bobine, una scossa ad alto voltaggio ci attraversò, lasciandoci come due vegetali e con tanto di bava alla bocca che colava sul pavimento.
Vidi il mostro portarsi al centro della stanza.
«Cosa volevate fare voi, stupidi mammiferi? Non siete altro che sacchi antropomorfi di carne e merda»
Stava usando di nuovo la telecinesi. Di nuovo? Solo in quel momento ricordai di averlo già visto davanti alla mia auto, sulla collina.  
Poi tutto ricominciò a mutare di luminosità e le pareti lasciarono lo spazio a una landa grigia con delle mastodontiche fabbriche che emanavano rosse colonne di fumo. Le osservai strabiliato dal loro realismo; sembrava proprio di essere in un altro mondo.
«Avete già perso, continuate pure a vivere nelle vostre fantasie... »
L’uomo lucertola venne attaccato da Chop, che gli balzò addosso ma non riuscii nemmeno a sfiorarne con i suoi denti il braccio che venne colpito dalla coda e sbattuto a terra.
«Tra poco inizierà la stagione della raccolta» continuò la gracchiante e catarrotica voce, nella mia testa. «Amici, parenti, li perderai tutti, e poi il tuo sangue. Goccia dopo goccia.» aggiunse, prima di uscire con tutta calma, lasciandoci appesi a quelle pareti in preda a continue scosse; finché le bobine si spensero.
Tutto si raffreddò e riprese a puzzare, mentre i nostri corpi fumiganti ricaddero al suolo. Anche l’ambiente era tornato quello di prima, ricolmo di cavi e tubi.
A terra, il mio corpo continuava a tremare in preda a delle convulsioni. Riuscii solo a distinguere Jack accasciato e che stringeva tra le braccia Chop  continuando a ripetergli: «Bel cacasotto sei! Potevi almeno provarci a difendermi o seguirlo…»; tutto questo prima di perdere i sensi.

Quando rinvenni, ero sdraiato su di un lettino e un tipo dalla pettinatura siliconica e una canottiera bianca dalla quale sbucavano aquile, teschi, rose e scritte xenofobe di vario tipo, mi dava le spalle.
«Dove cazzo sono?» biascicai con fatica a me stesso.
L’uomo si voltò, sul bicipite aveva tatuato una rosa avvolta da una fascia con la scritta “Sticker Robot”. Era Rob, con in mano una macchinetta e impegnato a tatuare una stella sulla tetta di una gnocca dai capelli arancioni; gnocca che, oltre alla maglietta, per qualche strano motivo o forma di esibizionismo si era tolta anche i jeans.
«Jack ti ha scaricato sul marciapiede. Sembrava di fretta» disse, poi riprese a trafficare coi suoi arnesi attorno a quelle fantastiche mammelle.
Lei mi guardò e disse «ti consiglio di darti una ripulita, ragazzo! Puzzi come uno che si è vomitato addosso».
«Oh… Grazie!».
In effetti avevo della bavetta che mi colava ai lati della bocca. Poi, per non inquinare oltremisura il loro spazio, mi feci forza e barcollando uscii dal negozio.
Sapevo di stare di merda, ma non volevo approfondire la discussione con nessuno e poi Rob sembrava troppo preso da quella troietta. Forse, pure una gran masochista; visto che sembrava godere mentre le veniva puntellato il capezzolo.
Così, salii in auto e mi diressi da Simon.
Il suo locale era ancora chiuso ma, una volta arrivato, feci il giro per entrare dal retro come accadeva spesso per i nostri affari. Lì, appoggiato alla porta, c’era zio Nicolai che stava fumando un sigaro. Più che un sigaro, in realtà, sembrava il tronco di una sequoia, ma era tutto proporzionato alle dimensioni della sua mano e del resto della sua figura, ovviamente.
«Salve zio Nicolai, c'è Simon?» voleva che tutti gli amici di Simon e buoni clienti lo chiamassero zio.
«Hai brutta ciera Fierdinand, giournata difficile, eh?».
A Zio Nicolai non piacevano le altre lingue e si era sforzato al minimo per imparare quello che gli occorreva a gestire una banale conversazione. Si esprimeva bene anche solo con lo sguardo comunque, soprattutto quando doveva impartire degli ordini.
«Non delle migliori...» risposi, riferendomi alla giornata.
«Bievi vuodka e tutti problemi puassano, raguazzo! Bievi vuodka!»
Quante volte avevamo sentito quel suo consiglio?! L'unico che avevamo sempre evitato, fra l’altro, visto che la vodka ci faceva proprio cagare.
«Simon è dentro. Sta sistemuando schifuoso ratto che cerca di entrare in cucina».
Lo zio non parlava di un vero ratto, ma di uno dei mafiosi che cercavano di controllare la zona.
Entrai e sentii il rumore di padelle che venivano pestate con forza contro qualcosa di abbastanza morbido da attutirne il suono metallico; anche suoni e lamenti moderati da un bavaglio. Provenivano tutti da un anfratto della cella frigorifera.
Zio Nicolai mi fece avvicinare, dopo una boccata del suo sigaro, e disse: “Priego, Fierdinand. Guoditi spettacuolo!”

Dentro, come c’era da aspettarselo, faceva un freddo porco, tuttavia Simon se ne stava tranquillamente in maniche corte a riempire di schiaffi un piccolo muso giallo ormai viola. Un insetto della combriccola di Jimmy Choo.
Costui indossava solo le mutande ed era legato ad una sedia di metallo. Patetico a vedersi, veramente, nella sua gracilità; ogni volta che perdeva i sensi, Simon prendeva una boccetta dalle tasche e gliela passava sotto il naso per poi riprendere a picchiarlo. Gli diede un attimo di tregua solo quando sentì i ticchettio incontrollato dei miei denti.
«Questa merdina voleva che pagassi per il loro servizio di protezione. Ma se non sanno nemmeno difendersi dai miei schiaffi! Ah! Ah! Di questi tempi tutti si sopravvalutano…» mi disse con un sorriso. «…E nessuno che mi fa un bel servizio»
Volevo cambiare discorso, vista la situazione, poiché temevo di farlo arrabbiare se mi avesse chiesto ancora dei funghi, ma non potevo fare a meno di avere anche la sua collaborazione per l’eventuale cattura e punizione del mostro.
«Dovrei chiederti un grosso favore, Simon…» dissi, chinando il capo in segno di rispetto. «…Se qualcuno parlerà ancora di quel tè allucinogeno, prima di sbatterlo fuori dal tuo locale, puoi chiamare me o Gloryhole per interrogarlo? Abbiamo una questione da risolvere con il leader incaricato della distribuzione».
«Problemi di concorrenza, Fergie?» mi chiese Simon.
«Per il momento no, ma meglio non farsi trovare impreparati» cercai di rimanere sul vago.
«D'accordo Fergie, ma in cambio voglio uno sconto sui quei tuoi deliziosi funghetti.»
Acconsentii.
«Ce li hai, adesso, vero?»
Volevo concludere in fretta e andarmene, mi si stavano congelando le palle e anche i peli del culo, poi avevo quasi la sensazione di poter prendere da un momento all’altro il posto del cinese.
«Ti do tutto quello che è cresciuto nel mio orto in queste ultime due settimane, okay? Non è molto, ma per un bel mesetto sei a posto.»
«Va bene.» acconsentì a stento Simon. «Portameli domani.» Poi si rivolse a suo zio, interrompendo per un attimo il pestaggio.
«…uyuio ozvak! Osdaia!» disse.
Zio Nicolai annui e, trovandosi ancora accanto, mi appoggiò una mano sulla spalla.
«Duomani, Fierdinand. Ricuorda che bello è avere sempre la fiducia degli amici.» Poi mi strinse un pochetto, pigiando il pollice nell’incavo della scapola come se volesse sondare la consistenza dei tessuti e muscoli sottostanti.
«È sempre un piacere fare affari con te…» Aggiunse Simon; la violenza dei suoi colpi successivi, infatti, sembrava quasi rafforzata dal nostro accordo.

«Dove cazzo sei finito?» urlò Jack.
Ed era una domanda che avrei dovuto fare io, visto che mi aveva scaricato da Rob, ma già sapevo che con tutta probabilità aveva riportato Chop al sicuro e si era ricaricato di anfetamine da qualche vecchio amico del ghetto.
Gli risposi che stavo da Simon. Volevo anche chiedergli di Chop, ma temevo la risposta; inoltre Jack era già partito alla grande con fiumi di testosterone e adrenalina. Neanche riuscivo a tenere il cellulare vicino all’orecchio da quanto gridava.
«Dobbiamo trovare quella carogna!» ordinò. «Spero che ti sia ripreso, perché sto arrivando.»
Così lo aspettai là fuori, fumando una sigaretta offerta da zio Nicolai. Ogni respiro mi dava più dolore che sollievo; comunque, a un certo punto Glory arrivò, e stava quasi per investirci da come si era avvicinato al marciapiede.
«Quell’alieno del cazzo mi supplicherà di ucciderlo! Non puoi toccare un membro della famiglia e passarla liscia.» disse rabbioso. «…Per fortuna il bastardo ha la pellaccia dura come il padrone» poi aggiunse, come ad anticipare la mia domanda.
«Alieno?» chiese invece Nicolai divertito, abbassandosi a fatica all’altezza del finestrino, intanto che io aprivo la portiera.
Ma Glory mi aveva afferrato subito per mettermi a sedere e con una sgommata era partito a razzo senza neppure darmi il tempo di rispondere.
«Guarda che a questi due non possiamo menarli come a Gecko, meritano più rispetto!» gli spiegai, sapendo che Nicolai non gradiva certi atteggiamenti.
La cosa, tuttavia, sembrava preoccuparlo meno di una cagata di moscerino.

Eravamo diretti alla collina degli incontri, dove la Third Eye ci aveva mostrato per la prima volta quella creatura. In assoluto silenzio, Glory non sembrava disposto a darmi ragguagli sulla situazione.
«Ho un piano» disse, finalmente.
Poi, spenta l’auto, si allungò e aprì il cassettino da cui estrasse le ultime pasticche rimaste. Quelle misteriose cose nere e con l’occhio sovra impresso.
Fissai la bustina che le conteneva, ripercorrendo tutta la fottuta sequenza di avvenimenti a cui ci aveva condotti la nostra curiosità e dipendenza.
«Dobbiamo infrangere la nostra prima regola» proseguì lui, serio e con ritrovata calma.
«Ne sei sicuro?»
«Sì. E’ l’unico modo per ritrovare quel merdoso culo verde, forse.»
Del sudore gl’imperlava le tempie.
Poi s’ingoiò tutto il contenuto del sacchetto, che doveva ammontare a circa cinque o sei pastiglie.
La reazione fu quasi istantanea, assieme al mio orrore.
La rabbia, infatti, dopo neanche un minuto gli esplose dentro come una bomba atomica, facendolo scattare fuori dall’auto con una rapidità e forza tale da rompere la portiera.
Lo vidi correre verso un albero poco distante, che presto divenne oggetto della sua furia; tanto che si mise a colpirlo con calci e pugni.
Dovevo fermarlo, ma mano a mano che mi avvicinavo, badando bene a non perdere la presa sulla mia pistola a neuro impulsi, sentivo il rumore delle sue nocche che schioccavano e si frantumavano contro il legno. Erano dei colpi violentissimi; quelli di un invasato pronto a scagliarsi contro qualsiasi cosa, probabilmente anche me, e nella foga aveva pure perso gli occhiali mostrando il suo unico, vero occhio tinto di sangue. Le mani ad ogni affondo s’incurvavano e disarticolavano in modo assurdo, arrivando a mostrare tendini e, in alcune parti, anche le ossa.
Poi la sua sorprendente energia collassò tutta a un tratto e lo vidi cadere in ginocchio, lasciandosi cascare anche le braccia sui fianchi. Era per me scioccante, quasi impossibile vederlo in quel modo; così pazzo e vulnerabile. Tremava, tenendosi soltanto con la fronte appoggiato all’albero.
Mi avvicinai e rimasi immobile per qualche secondo.
«Ehi amico,…» mi disse.
«Ci hanno fottuto. Quella non è la luna che fissavamo da piccoli, l'hanno cambiata.»
«Che stai dicendo?» chiesi, alzando lo sguardo per osservarne l’intero disco argenteo.
«…Me l’ha detto quel cazzo di lucertolone, che arriveranno e ci porteranno lassù. Tutti quanti, per spremerci come arance, perché il nostro sangue è il loro cibo e carburante».
Alzai di nuovo lo sguardo e vidi; forse, perché negli anni avevamo preso tanta merda che riuscivamo a suggestionarci a vicenda.
Delle strane luci attraversavano la volta celeste e cadevano sulla terra, lasciando lunghe scie luminose.
La stagione del raccolto era appena cominciata.




Illustrazione iniziale di Fabio Cavagliano
Storia di Mattia alias Caribbean Caribù (2013)


5 commenti:

  1. Granguignolesco, pirotecnico, ultrapoppesco racconto che rimette la razza al suo giusto posto: nel frigorifero evoluto di uno stirpe più nobile, anche se esteticamente inquietante! Su "Altre Dimensioni" i tuoi racconti hanno la giusta, caro Caribù caraibico carrambissimo!
    Abbiate gioia geniacci!

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  2. ah per razza intendevo razza umana ovviamente, nel mio soprastante commento anti antropomorfico.
    Grandi ancora!

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    1. Ah!… Qui si deve quasi tutto a quella capa di roccia del CC, Il trip offerto è tutto suo.
      Sì, ho aggiunto qua e là qualcosa, ma si tratta solo di una parziale revisione del testo; per cui è corretto specificare che forse ho soltanto “pilotato” alcune scelte nella stesura del racconto. Credo che, in ogni caso, questa sia una storia molto interessante seppure condotta in modo difficile. Difficile anche perché tutti i personaggi hanno comportamenti antisociali, a partire dal protagonista con cui non può/dovrebbe esserci immedesimazione; per cui, tolto il vantaggio di empatia con la voce narrante, la sfida, per come l’ho intesa io, naturalmente, era proprio raccontare una storia di droga e le sue tragiche conseguenze con l’occhio delinquenziale di chi le vive.
      Mostrare, insomma, attraverso questa prospettiva, quella vera della strada, anche il male e la degenerazione psichica a cui vanno in contro i due protagonisti. In fondo, essi stessi potrebbero essere soltanto due allucinati che si suggestionano o ipnotizzano a vicenda, con un demone o mostro che, in realtà, è lo scotto che devono pagare per i loro abusi; un orrore che presto si porterà via tutto dalle loro vite.
      Di registro assai diverso, invece, l’interpretazione voluta o immaginata dal CC, l’amico Mattia, che ha voluto imprimere al tutto un carattere più tough e iconoclasta.

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  3. Chiedo venia per il ritardo della mia risposta.
    In primo luogo ti ringrazio infinitamente Mauro per l'apprezzamento e il sostegno e sono d'accordo sulla necessità del giusto luogo per certi tipi di idee.
    Last but not least, ringrazio Fabio per l'aiuto nel mantenere nella retta via, evitando il deragliamento nel cattivo nel cattivo gusto, e lo spazio messomi a disposizione (potrei chiedertene altro se disponibile...).
    Il racconto è stato pensato e steso senza tanti simbologismi nascosti, forse inseriti involontariamente, e focalizzato principalmente sulle figure dei protagonisti ai margini della società. La mia parte era molto più scarna e essenziale, merito di Fabio l'aggiunta di dettagli che definiscono personalità e ambientazioni.
    Peace and love.
    C.C.

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    1. Oh!... Lo spazio non manca; anche metaforicamente, visto che lo si può estendere, curvare o ripiegare su se stesso in Altre dimensioni. E' la mia approvazione, nel peggiore dei casi, a limitare un po' tutto. Riguardo alla faccenda del "luogo adatto", invece, beh!... Sicuramente nonna papera non verrà qui a cercare nuove storie da raccontare ai suoi nipotini; la forma o l'uso di certi vocaboli, espressioni, non è per me pregiudiziale nel contesto di una narrazione (anche se quel "non siete altro che sacchi antropomorfi di..." lo avrei proprio tagliato. Eheheh!
      Ciao

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