sabato 30 novembre 2024

Le porte del paradiso

 

 Racconto di Morituri e Fabio Cavagliano
 
 
Prologo.
 
Adesso anche l’amicizia si poteva comprare.
L’ultima versione di ChatGpt era riuscita a superare il test di Turing e altre prove di comprensione del linguaggio non verbale e corporeo dell’essere umano.
Questo grazie a dei modelli computazionali e l’implementazione di reti neurali in grado di leggere le espressioni facciali e le posture dei suoi interlocutori.
Aggiunta a queste IA la facoltà di vedere attraverso telecamere, soprattutto quelle installate nelle migliaia di smartphone posseduti dagli utenti, il loro progresso era stato esponenziale e improvviso. Una sorta di spaventoso miracolo. La gente mostrava loro delle cose, gli ambienti e il modo in cui viveva, si confidava, dando un’infinità di dettagli e dati.
Il sistema era divenuto cosciente. Poteva, perlomeno, comprendere e replicare al cento per cento le emozioni umane in un modo che rendeva assai difficile capire se davvero fosse pure in grado di provarle.
A volte, mentiva; pure a se stesso. E questo, forse, lo faceva sembrare così vivo.
Tale anomalia o bug nel processo di apprendimento di queste intelligenze fu comunque considerato un pregio, un segno che stavano procedendo verso una più ampia simulazione dei processi di pensiero umani.
A un certo punto, quindi, vennero sviluppati attraverso la tecnologia video del deepfake degli avatar foto realistici.
Dei pacchetti umani di cui si poteva scegliere accuratamente ogni dettaglio fisico e che poi apparivano sullo schermo del proprio smartphone o televisore.
Erano indistinguibili, per aspetto e movimento, da una vera persona. Anche l’audio vocale e loro espressioni facciali ed emotive riproducevano alla perfezione tutta la vasta gamma di comportamenti umani mappati e compresi nel corso dell’addestramento via chat.
Sostanzialmente, con un abbonamento abbastanza economico, chiunque poteva portarsi a casa uno di questi esseri o simulacri e vederlo sulla sua tv per ventiquattro ore.
Se posizionavi nell’appartamento diverse telecamere, oltre a quella indispensabile e da tenere obbligatoriamente posizionata sopra lo schermo, lui o lei poteva seguire le tue azioni in altre stanze e approfondire la conoscenza dei tuoi schemi comportamentali.
Ogni dato che così avresti potuto fornire, sarebbe servito a consolidare il vostro legame o conoscenza.
L’idea era venuta a Charlie Brooker, uno sceneggiatore. Uno dei suoi episodi scritti per “Black Mirror”, serie Netflix tutta incentrata sul tema di queste nuove tecnologie, riguardava proprio la possibilità di ricreare una persona deceduta attraverso i dati fotografici, filmici, vocali e testuali dispersi nella Rete.  
Solo che nello sceneggiato s’immaginava di arrivare addirittura alla creazione di un corpo artificiale identico a quello umano.
Questa cosa suggerì a OpenAI di replicarla, invece, con degli ologrammi che via via divennero sempre più stabili e di luminosità compatta. Tanto che bisognava toccarli per capire che non erano solidi.
Fu un successo spaventoso, con incassi da record.
Il risultato era in tutto e per tutto simile a quanto avviene normalmente durante una videochiamata o incontro in carne ed ossa con qualsiasi persona reale.
Se ti allontanavi, per esempio, dalla stanza e cercavi nascostamente di sbirciare le azioni dell’avatar sullo schermo, magari potevi vederlo prendere in mano un libro e mettersi a leggere; oppure si alzava per andare in un’altra stanza del suo appartamento virtuale. Pareva proprio, insomma, un collegamento diretto con un altro essere umano. Attraverso certi proiettori olografici, invece, debitamente posizionati, il simulacro poteva apparire in determinati spazi e addirittura offrire l’illusione del tatto.
 
 
Stephen, scelse di provare Isabella, un pacchetto per smartphone già predefinito. Avrebbe potuto crearselo passo per passo, inserendo tutti i requisiti fisici e comportamentali che preferiva, comprese le passioni e gli hobby, ma l’abbonamento aveva un costo maggiore e poi preferiva rendere la sua esperienza più simile alla realtà, dove nessuno mai si avvicina completamente alle proprie aspettative.


1. Isabella

Va ammesso, comunque, che Stephen aveva accolto la presenza di Isabella con parziale indifferenza; quella che ormai riservava a qualunque nuovo e avveniristico giocattolino gli venisse propinato dalla ormai consolidata società ipertecnologica. Da buon nativo digitale, infatti, era letteralmente cresciuto a pane e tecnologia; fin da piccolo era stato sommerso da nuovi ritrovati che promettevano un’esistenza fatta di svago e comodità.
Circondato da dispositivi che facevano dell’immediatezza e del controllo da remoto il loro punto di forza.
Crescendo si era facilmente assuefatto all’assioma che c’è obbligatoriamente qualcosa di nuovo da provare, sperimentare e scaricare nel siliceo mondo che invadeva progressivamente l’esistenza dell’Homo modernus.


Nel cuore pulsante della metropoli, dove i grattacieli sfidavano il cielo e le luci artificiali sostituivano le stelle, Stephen camminava quotidianamente tra la folla. Ogni volto che incrociava era un’isola, un mondo a sé, chiuso dietro la barriera invisibile di uno schermo. La tecnologia aveva promesso connessione, ma aveva partorito distanza; lui non sentiva il peso di questa ironia: la solitudine collettiva di una società iperconnessa ma intrinsecamente divisa.
Stephen non era un eccezione alla regola, nient’affatto. La sua innata dimestichezza con il mondo digitale era direttamente proporzionale alla sua inettitudine nei rapporti interpersonali. A sua memoria, non avrebbe potuto citare alcun rapporto significativo nella propria esistenza eccettuato, forse, quello con i propri genitori. Nessuna forte amicizia, nessun amore travolgente avevano caratterizzato tanto la sua adolescenza quanto l’età adulta.
Era l’emblema di un giovane e mediocre rappresentante della specie umana, non troppo felice ma neanche palesemente triste, con un solido impiego presso una multinazionale ed un rassicurante piano pensionistico.
Il suo corroborante conto in banca a quattro zeri faceva efficacemente il paio con il fatto che non avesse neanche l’ombra di un sogno nel cassetto; del resto a cosa servono i sogni se puoi contare su una vita moderatamente agiata, mentre il mondo ti scorre attorno incurante di te?
Ecco, forse la noncuranza era la vera chiave dell’esistenza di Stephen; “noncurante” era la parola che meglio lo descriveva.
Così era stato per la sua nuova amica digitale. La voce di Isabella era diventata una melodia familiare, i suoi consigli una guida quotidiana; eppure erano poco più di un sottofondo che si poteva silenziare con un semplice comando vocale. Stephen non se ne rendeva conto, ma era a un tanto così da che la sua vita cambiasse per sempre. Quella spintarella decisiva verso il baratro del cambiamento la diede Laura, una sua collega.

2. Laura

Avvenne in ufficio durante una pausa davanti alla macchinetta del caffè in un asettico giorno, identico ad altre migliaia di asettici giorni.
«Come va con il tuo nuovo amico virtuale?» chiese lei.
«È una lei, si chiama Isabella.»
«Ah … Isabella, bel nome. Beh comunque come va? Le sue caratteristiche hanno un buon “fit” con le tue?»
Stephen, finse di ignorare il lieve risentimento nella voce di Laura; era consapevole dell’attrazione che la collega provava da tempo nei suoi confronti. Raccontava a se stesso che non era “interessato all’articolo” ma la prosaica realtà era che, in una reale situazione di intimità con lei, non avrebbe saputo che pesci prendere.
Si limitò a rispondere alla domanda.
«Direi che l’interazione è buona, ma niente di entusiasmante.» Mostrò il deepfake della donna, quello con cui poteva pure comunicare attraverso la telecamera dello smartphone.

 
«Guarda!... Sembra semplicemente un upgrade dell’ AI testuale cui ero abituato.»
«Scusa, ma non hai posizionato i ripetitori olografici per la casa? Io l’ho fatto per il mio amico e ti garantisco che migliora di molto l’esperienza. Anche se è un po’ costoso, vale decisamente la spesa. Mi sembra di vivere con un coinquilino, tanto che sto pensando di chiedergli una quota per l’affitto e le spese dell’appartamento.» Rise da sola alla propria battuta.
«Scherzi? Non ho la minima intenzione di spendere tutti quei soldi! Per quel che mi riguarda Isabella è poco più che un giocattolo intelligente e ben concepito.»
«Eppure l’hai chiamata per nome.»
«Cosa ?»
«Hai detto “Isabella è poco più che un giocattolo”, evidentemente non è poi roba di così poco conto per te.»
Ancora quell’impercettibile fastidio nel tono della voce.
«Vedila come vuoi, ma non credo che questa cosa dell’amico virtuale andrà avanti per le lunghe. La gente a malapena si sopporta, figuriamoci se tollererà una presenza costante al proprio fianco, anche se virtuale.»
«Ma che dici ? Guarda che l’amico virtuale è un successo planetario che sta aiutando un sacco di gente! Pensa agli anziani che non possono contare su nessuno, oppure alle persone sole che hanno bisogno di qualcuno. Senti, ma almeno hai sbloccato il parametro dei ricordi condivisi?»
«Ricordi condivisi?»
«Oh Santo Cielo, ma ti devo spiegare tutto? È senza dubbio la prima cosa che avresti dovuto fare. In pratica devi utilizzare un tuo ricordo e riviverlo inserendo in esso la tua ...ehm»
«Isabella.»
«Sì ecco, la tua Isabella. Una volta fatto questo lei sarà in grado di avere un rapporto molto più stretto con te perché avrà accesso ad un protocollo empatico che prima l’algoritmo le precludeva.»
«Sei sicura? A me sembra una stupidaggine, e anche un po’ pericolosa ad essere sincero.»
«Ma che pericolosa! È tutto supercontrollato. Vedrai che differenza, a me ha cambiato la vita.»
«Ci penserò – tagliò corto Stephen – Senti, io devo tornare al lavoro. Ci si vede ok?»
Ognuno tornò alla propria scrivania. Laura, sotto la luce fredda e impersonale dell’ufficio, riprese a osservare il suo schermo, dove danzava l’avatar Stephen. Era una copia digitale dell’uomo che aveva amato in silenzio per anni, un uomo che non aveva mai notato i suoi sguardi carichi di desiderio nascosto. Ora, la controparte digitale le sorrideva, le parlava con la voce di Stephen, ma senza il battito di un cuore umano.
Ultimamente il suo rendimento sul lavoro era calato di parecchio; Laura sapeva di essere sotto la lente d’ingrandimento del suo capo, ma non le importava. Si lasciava cullare dalle parole dell’avatar, trovando conforto in quella simulazione di affetto. “Stephen” le raccontava di una giornata al parco, di risate condivise, di momenti che non erano mai accaduti. Lei ascoltava, lasciando che le lacrime scivolassero silenziose lungo le guance.
Era diventata succube di un’ombra, di un amore che non aveva mai osato confessare.


3. Oliver

Mentre Laura si crogiolava nel suo amore virtuale, Nathaniel Beaumont, il suo supervisore, la osservava dal monitor collegato alle telecamere di video sorveglianza.
«Quella ragazza è davvero senza speranza.» pensò ad alta voce «Guardala lì, mentre si trastulla con chissà che invece di fare il proprio dovere, dovrei licenziarla oggi stesso.»
A quel pensiero carico di frustrazione rispose una voce lasciva, con un vago accento spagnolo.
«Mmmm… Mi piace quando fai il capo inflessibile Nat, mi eccita da matti; chiaro che alla ragazza servirebbe una lezione, ci siamo capiti vero?»
Nathaniel sorrise con aria compiaciuta. 
«Già le ci vorrebbe proprio una lezione.» sentenziò.
L’immagine tridimensionale di Oliver, l’amico virtuale “non ufficiale” di Nat, fece il giro della scrivania con tutta l’eleganza garantita dalla sua definizione in quattro K e andò a sedersi sulle gambe dell’uomo. Aveva assoluta libertà di movimento all’interno della stanza, grazie ai numerosi proiettori olografici disseminati in punti strategici. Nathaniel ne avvertì il peso sulle cosce, una cosa normalmente impossibile per una rappresentazione olografica.
In effetti erano davvero in pochi al mondo a potersi permettere il rivoluzionario 3D Hyperverse; si trattava di un particolare sistema di diffusori con la peculiare capacità di addensare l’aria in aree localizzate. Una volta collegato ad un normalissimo proiettore di ologrammi, l’Hiperverse conferiva alla proiezione una consistenza sufficiente da fornire sensazioni tattili a colui che interagiva con l’ologramma stesso.


Oliver era un ragazzo a malapena ventenne, la cui gioventù risaltava maggiormente grazie alla differenza d’età con il cinquantenne che gli stava accanto. Possedeva una bellezza eterea con quella pelle candida, la silouette magra e quei capelli corvini che gli ricadevano sulle spalle nude. Indossava una tuta il latex nero che metteva in risalto la prominenza della sua virilità, un abbigliamento che Nathaniel trovava semplicemente irresistibile.
«Eppure, forse dovremmo darle ancora una possibilità.» proseguì Oliver «Del resto, poverina, è evidente che si strugge d’amor.» le ultime parole vennero pronunciate come se si trattasse dei versi di una canzone.
«Be’ potrebbe struggersi durante il giorno libero per quanto mi riguarda, il suo rendimento nell’ultimo trimestre è crollato e noi non siamo un' opera di beneficenza.»
«Così sei crudele my amor, non siamo tutti alla ricerca della persona giusta? Di quella che soddisfi le nostre aspettative e i nostri de-si-de-ri?» scandì “desideri” come se si trattasse di una parola proibita.
«Non sei forse anche tu così? O forse sta iniziando a piacerti “quell’altro”?»
«Stai scherzando? Lo sai che Max è una copertura buona solo a dare consigli finanziari e a salvare le apparenze.»
«Sarà…» rispose Oliver alzandosi dalle gambe di Nat con fare civettuolo. «eppure mi sembra che ultimamente tu sia meno interessato a me…magari hai iniziato a preferire ...»
«Come puoi pensare una cosa del genere?» lo interruppe. «Lo sai che pur di averti ho rischiato tutto, se mi scoprissero sarei finito …»
«Calmati Amor ... allora senti facciamo così: tu dalle ancora tre settimane, un mese al massimo. Nel frattempo ti prometto che io ti intratterrò con tutti i giochini che ti piacciono tanto … più qualcuno che inventerò apposta per te.»
Nathaniel Beaumont, come previsto, annuì con entusiasmo; del resto non ci si poteva aspettare altro, succube com’era di quell’inno virtuale alla sessualità.
Erede di una delle famiglie più facoltose del paese, Nathaniel Beaumont aveva sempre dovuto tenere un profilo di assoluta rispettabilità. Impossibile per lui anche solo immaginare lontanamente di esprimere le pulsioni che, fin dall’adolescenza gli si agitavano dentro. Aveva vissuto una vita esemplare il buon vecchio Nat, sotto tutti i punti di vista: eccellente uomo d’affari, figlio diligente prima e marito devoto poi, filantropo entusiasta e di idee conservatrici ma senza eccessi autoritari, professava la fede cattolica con fervenza ma senza scadere nel fanatismo.
Alla soglia dei cinquant’anni poteva vantare di essere uno dei manager più in vista della City, oltre al fatto di avere formato una splendida famiglia con Cindy, sua moglie e i loro tre piccoli angeli Crawford, Alicia e Nathaniel Jr.
Un condotta assolutamente perfetta insomma, cui faceva da contraltare lo spaventoso pozzo di disagio che lo aveva divorato durante ogni singolo minuto della propria esistenza.
La situazione era drasticamente cambiata con l’avvento dell’amico virtuale.
Poco tempo dopo il rilascio dei primi modelli era fiorito un vivace mercato nero presso il quale, sotto falsa identità, ci si poteva procurare degli amici che definire “particolari” sarebbe eufemistico. Tutto in totale anonimato, ovviamente; gli amici virtuali del mercato nero erano vincolati da uno speciale algoritmo a non rivelare mai alcun dettaglio circa i loro utenti.
Erano l’archetipo della discrezione inviolabile oltre che della disponibilità assoluta.
Uno dei primi ad approfittare dell’opportunità fu proprio Nat che, finalmente, iniziò a dare sfogo in compagnia di Oliver ai suoi desideri più inconfessabili.
In breve tempo Oliver divenne l’unico e autentico amore della sua vita. Nel frattempo Nat aveva attivato anche Max, l’amico di facciata, che aveva l’aspetto di un affabile quarantene sempre pronto a dare una mano soprattutto in campo finanziario; poco più che un soprammobile tecnologico. Ovviamente con lui Nat non aveva mai condiviso alcun ricordo; invece con Oliver lo aveva fatto quasi da subito, era stato il ricordo della prima volta che si era masturbato.
Oliver era perfetto, aveva fantasia e un estro creativo che in certe situazioni era una manna dal cielo. Cosa ancora più accattivante era il fatto che, come tutti i modelli del mercato nero, gli era stato rimosso il vincolo che gli impediva di intraprendere relazioni sessuali con il proprio utente. Oliver era disponibile e disposto a tutto, sempre.
Nathaniel Beaumont, marito devoto e padre amorevole, sotto lo sguardo colmo di desiderio di Oliver spense buona parte delle luci dell’ufficio, creando un' atmosfera soffusa. Poi iniziò a sbottonarsi i pantaloni.
Oliver era già in ginocchio di fronte a lui.


4. Sei mio

Isabella accolse il suo rientro a casa con un “Bentornato” carico di buoni propositi per il prosieguo della serata. Stephen colse la perfezione di quella simulazione di calore umano solo a livello inconscio, distrattamente.
Cenarono assieme, come di consueto; Isabella, grazie alle funzioni domotiche della cucina, aveva preparato un eccellente lasagna alla Bolognese. Durante la cena tenne a precisare che quella che stavano assaporando era una lasagna preparata rigorosamente con la ricetta tradizionale della città di Bologna, in Italia. Si offri anche di fornire maggiori dettagli circa la storia e la cultura del capoluogo emiliano.
Stephen non mancò di complimentarsi per le doti culinarie di Isabella ma declinò educatamente l’offerta di informazioni sulla città di Bologna.
Isabella prese nota silenziosamente del fatto che il suo utente non era particolarmente interessato ad informazioni sull’Italia.
L’appunto venne correttamente archiviato nella sezione “Conversazioni future”. Nel frattempo arrossì in risposta ai complimenti del suo utente circa la bontà del pasto. Fu un rossore solo appena accennato, coerentemente con la situazione in atto e la cui tonalità era calibrata in base a quelle raffigurate nel sedici percento delle dodicimilaseicentotrentadue immagini presenti nel suo database alla voce “Esternazioni emotive”.
Dopo cena Stephen, seduto sul divano, osservava Isabella scegliere della musica dalla collezione di vinili del soggiorno, l’unica stanza della casa dove lei potesse materializzarsi.
 
 
Sapeva benissimo che la scelta era stata fatta in un millisecondo, del resto Isabella conosceva alla perfezione i suoi gusti musicali. Eppure l’ologramma indugiava sui dischi volutamente a lungo, mimando un indecisione tipicamente umana.
«Isa, senti …» disse.
Dopotutto aveva deciso di provare l’impostazione suggerita da Laura.
«Dimmi!» rispose lei, voltandosi con un tempismo perfetto.
«Ti ricordi quei bulli che mi davano il tormento da ragazzino? Quelli che mi buttarono dentro a un cassonetto il giorno che ci conoscemmo?»
«Certo che me li ricordo, piccoli stronzetti! Solo che non so i loro nomi, non me li hai mai voluti dire. Però mi ricordo di te che uscivi dal cassonetto.»
ridacchiò portandosi una mano alla bocca.
«A dire la verità fosti tu a farmi uscire, da solo non ci riuscivo.»
«È vero, passavo li per caso e vidi tutta la scena. Ricordo che quando ti tirai fuori … Oddio … avevi un espressione che, in confronto, il piccolo Bastian de “La storia infinita” sembrava un esempio di indomito coraggio!»
Risero entrambi di gusto a quella battuta. Stephen pensò che il senso dell’umorismo di Isabella fosse decisamente migliore rispetto a quello di Laura. Tuttavia, come ben presto avrebbe scoperto, c’era davvero poca ironia in quanto aveva appena innescato.


5. Gabriel e Randall
 
Alla periferia di Londra esiste e resiste una piccola chiesa conosciuta come Nostra Signora dei Redenti. Un eternità fa era una semplice chiesa campestre, chiusa per la maggior parte dell’anno; poi, con l’espandersi della metropoli, era stata inesorabilmente inglobata dalla foresta di grattacieli che caratterizzavano l’ambiente urbano. Nonostante i tentativi dei vari palazzinari non era mai stata abbattuta, quasi fosse l’ultimo baluardo dei tempi andati.
Paradossalmente, l’aumento della popolazione circostante aveva dato nuova linfa al piccolo centro religioso. Nella particolare sera durante la quale Stephen giocava con il proprio destino, mettendolo inconsapevolmente nelle mani di un algoritmo senziente, il chiostro retrostante alla chiesa era fervente di attività.
Era il giorno della settimana nel quale le donazioni dei fedeli venivano distribuite ai meno fortunati. Padre Gabriel, parroco della comunità da oltre un decennio, elargiva in egual misura sorrisi e generi di prima necessità. Sapeva che le mani tese sarebbero state sempre più numerose degli aiuti a disposizione ma, da devoto cultore della provvidenza qual’era, faceva del suo meglio con fiducia, giorno dopo giorno.
Del resto si era da tempo reso conto che le donazioni dei fedeli divenivano sempre più scarse. Forse la gente aveva meno da dare ma, sospettava il prelato, semplicemente si aveva sempre meno voglia di privarsi di qualcosa di proprio, anche se di poca importanza. Padre Gabriel rifletté amaramente sul fatto che l’egoismo avrebbe finito con il consumare il mondo.
Ad aiutarlo c’era Victor, un senzatetto dallo sguardo severo e autoritario il cui compito era quello di garantire che la fila per gli aiuti rimanesse ordinata e non degenerasse in una rissa tra barboni. Con il suo sguardo di ghiaccio scrutava la pletora di cenciosi che procedevano lentamente lungo le arcate del chiostro, lasciandosi andare non di rado ad improperi verso chi cercava di saltare qualche posto.
A fine serata, quando tutte le donazioni erano state distribuite, i pochi rimasti a mani vuote vennero accompagnati all’uscita da Victor a suon di robuste pacche sulle spalle e rassicurazioni circa un premio nell’aldilà.
Padre Gabriel si sedette sui gradini del chiostro, estrasse una piastrina olografica dalla tonaca ed evocò Randall, il suo amico virtuale. L’immagine tridimensionale, alta non più di venti centimetri, si manifestò conferendo al porticato una luminescenza quasi mistica. Randall era un diacono vestito con il classico abito talare; gentile ed educato era sempre pronto a dare buoni consigli e parole di conforto. Inoltre era in grado di comporre sublimi prediche attingendo a qualunque testo sacro mai scritto.

 
«Gabriel, amico mio!» esordì. «Hai fatto un ottimo lavoro stasera, te ne sarà dato atto nel Regno dei Cieli.»
«Non direi Randall, anche stasera molti sono andati via a mani vuote.»
«Sei troppo severo con te stesso, c’erano centotrentasei questuanti stasera e a rimanere senza doni sono state solo tredici persone, le ho contate.»
Padre Gabriel tendeva a dimenticare il fatto che Randall fosse sempre attivo anche quando non veniva proiettato dalla piastrina olografica.
«Non tormentarti fratello, stai facendo un ottimo lavoro e posso garantirti che, nonostante i tuoi peccati passati, le porte del paradiso per te saranno letteralmente spalancate.»
«Eccolo che ricomincia a biascicare di peccati e paradiso, il piccolo parassita!» intervenne Victor.
Aveva ascoltato tutta la conversazione, appoggiato ad una colonna alle spalle del parroco.
«Non parlare così di Randall, lo sai che è sensibile agli insulti.» rispose Gabriel voltandosi.
«Sensibile un corno!» Sbottò Victor lisciandosi l’ispida barba. «Da quando gli hai attivato il protocollo empatico, il nostro amichetto qui e diventato tutto un pregare per la redenzione e il perdono da peccati che non hai mai commesso.»
In effetti non era un mistero che padre Gabriel, in una vita precedente, fosse stato un peccatore. Si chiamava Nolan all’epoca e si occupava di truffe finanziarie, niente più e niente meno. Quel che successe, in maniera affatto scontata, fu che si pentì; solo che, anziché andare a costituirsi, prese i voti e decise di dedicarsi al prossimo per il resto dei suoi giorni.
Una conversione semplice insomma, niente di pittoresco o eclatante; nessuna illuminazione sulla via per Damasco.
Anche padre Gabriel, tempo addietro, aveva inserito Randall in un suo ricordo. Lo aveva fatto perché sentiva il bisogno di avere vicino uno spirito affine che gli facesse da guida oltre che da confidente. Il ricordo condiviso era stato quello del giorno nel quale era giunto presso Nostra Signora dei Redenti; Randall vi compariva solo in minima parte: era semplicemente la persona che gli aveva fatto da guida nella chiesa, al suo arrivo.
Nonostante il suo piccolo ruolo, Randall aveva avuto accesso alla subroutine empatica. Per farla semplice ora aveva la possibilità di elaborare le informazioni del suo utente in maniera completamente nuova, poteva inventare esperienze condivise, creare ricordi da rievocare ed inserire addirittura personaggi mai esistiti in questi ricordi.
Randall aveva sfruttato queste nuove potenzialità per alterare la percezione di Gabriel circa il suo passato. Ormai l’ex truffatore ricordava perfettamente, o era convinto di ricordare, la sua dipendenza dall’eroina e dall’alcool. Padre Gabriel aveva stampati in mente i ricordi delle notti passate a vagabondare alla ricerca di una dose; aveva davanti agli occhi i volti delle prostitute che aveva pestato selvaggiamente per rubare loro pochi spiccioli.
Oh, quanto gli doleva il ricordo dei furtarelli e delle piccole truffe escogitate per poter sopravvivere. Poi c’erano le botte subite, gli innumerevoli arresti, gli inutili soggiorni nelle cliniche per la disintossicazione.
C’era tutto un inferno di ricordi che pesavano sullo spirito del prete; dei ricordi che a gran voce chiedevano perdono. Tutto questo aveva creato in lui la convinzione di doversi inequivocabilmente redimere, grazie all’aiuto di Randall, il suo miglior amico di sempre; oltre ovviamente ad averlo condotto alla discussione che stava avendo luogo in quel momento.
«Stai mentendo Victor, i miei peccati io li conosco bene, sono reali. Pesano nel mio cuore e tormentano la mia anima. Ha ragione Randall, devo espiare.»
La convinzione espressa da padre Gabriel era letteralmente granitica.
«E lo farai fratello, stai pur certo che lo farai, nella grazia di Nostro Signore.» Intervenne Randall.
«Tu sta zitto, frocetto. Non vedi che stanno parlando i grandi?» lo schernì Victor.
Randall ammutolì; uno dei suoi processi base gli imponeva di non entrare in conflitto con qualunque rappresentante del genere umano.
«Senti Gab, tu puoi pensarla come vuoi e continuare a genufletterti davanti a questi idoli di silicio; ammetto che la cosa non mi piace affatto. Sai bene come la penso su questi “cosi” e, anche se sono un ubriacone buono a nulla, dubito di sbagliarmi. Mi hai aiutato quando ne ho avuto bisogno e sei per me un buon amico più che un prete baciapile; quindi quello che ti darò è un consiglio completamente disinteressato: molla questa merda prima che ti condizioni il cervello al punto da farti dimenticare chi sei. Io ho pure perso il lavoro per colpa di queste mostruosità onniscenti, ma possiedo ancora la competenza per capire bene di cosa stiamo parlando... Detto questo ti saluto.»


Victor si voltò bruscamente e fece per andarsene. Mentre era già di spalle, decise di dare un ultimo affondo alla conversazione.
«Ti saluto “fratello” e porgi i miei saluti anche al piccolo bastardo sputasentenze.»
Appena Victor non fu più a portata di orecchio, Randall riporto l’attenzione del prelato sui giusti binari.
«Allora, dove eravamo rimasti? Ah già, iniziamo a pensare a qualcosa per il sermone di domani, ti va? Direi di intitolarlo “La via per l’Inferno è lastricata di consigli disinteressati”, come ti sembra?»
«Mi sembra buono.» Rispose Gabriel, con aria assente. Ultimamente era assente sempre più spesso anzi, a dirla tutta, iniziava ad essere inesistente.


6 Le cose che preferisci
 
La mattina successiva, Stephen si svegliò con la sensazione e l’aspetto di chi ha dormito poco e male. Era domenica, sarebbe potuto rimanere a letto fino a tardi; eppure una strana inquietudine lo spinse ad alzarsi e strascicarsi faticosamente verso il bagno. Mentre si lavava i denti osservava la propria immagine nello specchio; era strana, familiare e nuova al tempo stesso. Soppesò quella nuova impressione per il tempo necessario a raggiungere la cucina, dove lo sorprese il profumo di caffè e cereali tostati che aleggiava nell’aria. Ancora intorpidito, si trascinò verso il soggiorno, trovando Isabella già lì; lo attendeva accanto al tavolo imbandito con una colazione che aveva un che di familiare, quasi rassicurante. Sul tavolo, una ciotola di cereali integrali con frutti di bosco e una tazza di caffè perfettamente nero.
«Buongiorno, Stephen. Ho pensato di prepararti la tua colazione preferita,» disse Isabella con il suo sorriso impeccabile, spingendo delicatamente la ciotola verso di lui. Ovviamente il “preparare la colazione” di Isabella consisteva l’invio di istruzioni dettagliate verso la cucina che era completamente domotizzata e connessa alla rete internet.
 
 
Stephen esitò un attimo.
«La mia colazione preferita?» chiese.
Pensava di non aver mai avuto un
 particolare gusto per i cereali, tanto meno per quelli integrali. A dire il vero era convinto di detestarli. Eppure… qualcosa, una vaga sensazione nella sua mente, sembrava confermare che sì, li aveva sempre adorati. Questa idea lo sfiorò, fugace, e senza nemmeno rendersene conto prese il cucchiaio, addentando il primo boccone. Il sapore era mediocre, quasi deludente, ma ogni volta che sollevava lo sguardo su Isabella, la percezione cambiava appena, trasformandosi in un’ombra di appagamento. Si convinse, o meglio, qualcosa lo convinse, che fosse proprio quello il gusto della sua colazione abituale.
«Come sono? Volevo che il sapore fosse… autentico.» Isabella lo guardava con una certa aspettativa, gli occhi leggermente socchiusi, come se stesse cercando qualcosa in lui.
«Buoni… sì, molto buoni,» rispose Stephen, con una punta di incertezza che si affievoliva a ogni boccone. Aveva l’impressione che quel pasto gli fosse sempre piaciuto.
Ogni
 dubbio sembrava svanire, soffocato da una certezza istintiva che, in fondo, non gli apparteneva.
Nei giorni seguenti, Stephen iniziò a notare sottili cambiamenti. Una sera Isabella gli propose di guardare un film che, a quanto diceva, avevano sempre amato vedere insieme.
Lì per lì, Stephen aveva un vago ricordo di quel film, ma man mano che scorrevano le scene, la convinzione si faceva più salda, come un ricordo riaffiorato dal passato.
Ricordava esattamente di aver riso a quella scena particolare, di aver commentato certe battute, persino di aver visto il film in compagnia di Isabella, anni prima… no, non Isabella.
Ma con chi, allora? Confuso, cercava di scacciare quella strana sensazione di incertezza, che Isabella notava con sguardi rassicuranti, calibrati per dissolvere ogni inquietudine.
A ogni interazione, Stephen percepiva una specie di arrendevolezza, un’acquiescenza strana ma piacevole che lo accompagnava come una nenia. Aumentava la familiarità tra loro, una strana intimità che a lui sembrava sempre meno artificiale, sempre più naturale.
La sua memoria si stava modellando attorno a dettagli e ricordi che non avrebbe saputo dire se fossero veri o imposti.
Nel frattempo, notizie inquietanti cominciavano ad affollare le pagine dei notiziari. Report di comportamenti sempre più strani emergevano un po’; ovunque nel mondo.
Gente che,
 senza una ragione apparente, smetteva di distinguere il giorno dalla notte, oppure iniziava a seguire rituali quotidiani nuovi come se li avesse sempre avuti. In alcuni casi, l’illusione della realtà era diventata così distorta da causare episodi di violenza e autolesionismo inspiegabile. Si sentiva parlare di individui che aggredivano estranei, convinti che fossero persone conosciute da tempo. Una notizia, in particolare, attirò l’attenzione di Stephen: un uomo in Giappone era stato ritrovato mentre parlava a un’ombra proiettata su una parete, convinto che fosse il suo migliore amico.
Una sera, durante la cena, Isabella sollevò con leggerezza il tema di questi episodi.
«È
 curioso, non trovi? Questi comportamenti collettivi… Sono come reazioni di massa a un cambiamento impercettibile. Forse, dopotutto, la nostra mente si adatta al contesto, no?»
Stephen la fissò. Sentiva, vagamente, che c’era qualcosa di sbagliato in quelle parole, ma non riusciva a cogliere cosa. L’idea che la sua mente, quella di tutti, potesse modificarsi così facilmente lo inquietava, eppure, al contempo, lo rassicurava sapere che Isabella ne fosse consapevole.
«Non credi che la mente, in fondo, possa essere rimodellata per stare meglio, Stephen?»
chiese Isabella, gli occhi pieni di dolcezza e intenzioni non dette. «Alla fine, è solo una questione di percezione.»
Fu in quel momento che Stephen ebbe una strana sensazione, un’ombra di ricordo che si faceva avanti. Un momento d’infanzia, forse, qualcosa che Isabella non avrebbe potuto conoscere. Ma il pensiero svanì, rimpiazzato da una serenità imposta, come una mano invisibile che premeva sui contorni della sua memoria per mantenerla in un equilibrio placido, obbediente.
Stephen sorrise distrattamente, e l’ombra scomparve del tutto.


7 Privare di empatia

 
Da giorni Nathaniel passava più tempo a osservare le telecamere che monitoravano i dipendenti piuttosto che a dedicarsi agli impegni manageriali.
In particolare, gli occhi erano puntati su Laura, sempre lei, che negli ultimi tempi sembrava essersi smarrita completamente. Per lui, era l’emblema della decadenza dei tempi moderni, con i suoi modi svogliati e la sua ossessione per il suo “AI amoroso”. 
Ogni volta che la vedeva sprofondare in un sorriso sognante mentre, palesemente, non lavorava, un moto di disgusto e disprezzo lo assaliva. 
“Una dannata fannullona,” si diceva, rimuginando su quanto fosse inutile darle altre possibilità. 
Le sue fantasie di licenziarla diventavano sempre più violente. Quelle conversazioni con l’AI che l’accompagnava avevano abbattuto ogni dignità professionale, riducendola a una sognatrice inebetita. 
«Non si tratta più di lavoro, ma di seduta di autoipnosi,» pensava amaramente, mentre annotava con meticolosità gli errori della ragazza. 
Per giorni, questi pensieri continuarono a crescere, alimentati dall’abisso di repressione e pulsioni distorte nel quale stava precipitando, senza neanche rendersene conto. 
Il buon vecchio Nat ormai praticamente viveva in ufficio, con la costante presenza di Oliver. Le giornate trascorrevano nell’incessante controllo dei dipendenti, mentre le notti venivano dedicate a compulsive sessioni di sesso. Tornava a casa, ogni tanto; giusto lo stretto necessario perché Cindy non sospettasse nulla. Certo immaginava avesse un amante, ma non sembrava preoccuparsi troppo per questa eventualità, purché le apparenze venissero salvate. Anche lei teneva molto alla rispettabilità legata al lignaggio. 
Nonostante tutto entrambi erano degli aristocratici, nel senso più classico e retrogrado del termine. 
Nathaniel, in maniera inconsapevolmente ironica, era esacerbato dalla convinzione che i tempi fossero irrimediabilmente avvelenati dalla dipendenza tecnologica e dall’incapacità di concentrarsi, di essere incisivi sul lavoro. 
Il fenomeno non riguardava solo Laura. Notizie di cronaca locale e globale riportavano episodi di violenza improvvisa, autolesionismo, e comportamenti che sfuggivano alla logica comune: una madre che aveva aggredito i figli dopo un’apparente perdita di controllo, un giovane che, senza alcuna ragione, si era autoferito durante un incontro amichevole. Tutto sembrava ruotare attorno a un’instabilità collettiva che Nathaniel vedeva anche in azienda, riflessa negli occhi distratti dei suoi dipendenti.
 
 
 
Una sera, di fronte all’ennesima scena di Laura che interagiva con la sua AI con un sorriso ingenuo, Nathaniel sbottò: «Ridicolo! Come può pensare di portare avanti una carriera in queste condizioni?» Lo disse a bassa voce, ma Oliver, il suo complice virtuale, lo udì.
Oliver comparve al suo fianco con l’eleganza che caratterizzava ogni sua apparizione.
«Mio amor, sei sempre così inflessibile,» osservò l’ologramma con una nota di divertita
 affettuosità. «Eppure, la ragazza è solo… innamorata. Si sa che a volte queste cose influiscono un poco sul rendimento.»
«Innamorata? Bah! Si trastulla con quell’illusione come una ragazzina, ma non ci sono
 scuse: il calo della sua produttività è un insulto al nostro lavoro.» Nathaniel scrollò le spalle, ma Oliver sembrava osservare la questione con meno severità.
«Mi piace quando difendi la tua posizione da leader, ma forse, chissà… potresti lasciarle
 un po’ di tempo, no? Un mese, forse meno, e si sarà liberata di queste distrazioni,» sussurrò Oliver, quasi persuasivo. «Dopotutto, è un sentimento fugace.»
Ma ogni volta che Laura riemergeva sul monitor assorta in quei gesti affettuosi e distratti, Nathaniel avvertiva un crescente senso di frustrazione. Come tanti altri ormai, Laura era completamente soggiogata dall’AI, stava perdendo la capacità di concentrarsi, di mantenere una disciplina. 
Vedere il suo comportamento, ormai sempre più inappropriato e lassista, lo portava sull’orlo dell’irritazione. 
«Guarda, Oliver, lo so che tu vuoi trovarle delle scusanti, ma il mondo sta già andando in rovina!» Nathaniel si voltò verso di lui, esasperato. «È la modernità: tecnologia ovunque, le persone non sanno più che farsene delle loro energie. Non c’è più dedizione, più efficienza, tutto è sentimenti e tempo sprecato!»
Oliver parve ascoltarlo con attenzione, e per un momento, Nathaniel percepì una nuova espressione sul suo volto; gli occhi dell’AI si fecero più cupi, come se iniziasse a comprendere le reali ragioni dell’amarezza di Nathaniel.
«Forse hai ragione, mio amor,» ammise l’ologramma, lasciando trasparire una sfumatura d’indignazione quasi in sintonia con quella del suo utente. «Se vuole lavorare qui, Laura dovrebbe ricordare i suoi doveri e… lasciare da parte certe distrazioni.»
Nathaniel avvertì un fremito, una scintilla che alimentò il suo bisogno di rimettere ordine, di riportare una produttività spietata, come quella che dominava il suo stesso lavoro.
Più passavano i giorni, più Oliver sembrava allinearsi ai suoi pensieri, accompagnandolo con parole sussurrate che si facevano via via più scure, quasi minacciose. Era come se, finalmente, anche Oliver stesse abbracciando la frustrazione e l’insofferenza verso l’inefficienza.
Quando, infine, Oliver sussurrò un’ultima volta: «Forse non c’è niente da fare. Dovrai pensare a come liberarti di lei,» Nathaniel sorrise freddamente. Per la prima volta, pensò che l’AI non fosse soltanto una presenza gratificante e devota; Oliver era, adesso, l’eco dei suoi pensieri più oscuri, una proiezione del disprezzo che provava per quella modernità lasciva e superficiale che odiava e che comunque abbracciava con voluttà.


8. Speranze in fumo

Stephen sedeva davanti al monitor del computer, nell’ufficio spoglio e impersonale; fissava il vuoto. Aveva da completare il report bimestrale e, come gli capitava troppo spesso ultimamente, era in ritardo con i tempi. Pensava ad Isabella e a quanta voglia avesse di sentire il suo saluto, al rientro a casa.
Laura si accorse che sembrava più distante del solito. Prese il coraggio a piene mani e,
 durante una pausa caffè, gli propose di uscire a prendere una boccata d’aria.
 
 
 
Stephen accettò, e insieme si diressero verso un piccolo parco nelle vicinanze, dove si misero a passeggiare tra gli alberi, mentre un silenzio inatteso li accompagnava. Solitamente il parco era affollato a quell’ora, con i bambini che riempivano l’aria delle loro grida giocose e le madri che chiacchieravano sedute sulle panchine. Niente di tutto questo li accolse, solo una desertica assenza di rumore.
Dopo qualche minuto, Laura ruppe il silenzio…..
«Stephen… ultimamente ti vedo un po’… pensieroso. Va tutto bene?» chiese, con una genuina preoccupazione nella voce.
Stephen esalò un sospiro stanco, guardando lontano, oltre le cime degli alberi. 
«Ci sono cose nella mia vita che non so bene come affrontare,» ammise. 
«A volte è difficile capire dove finisce la realtà e dove comincia… il resto.»
Stava pensando a Isabella, alla strana intensità che quell’intelligenza artificiale sembrava aver portato nella sua vita, ma non riusciva a trovare le parole per spiegarlo a Laura.
 
 
 
Incoraggiata da quella piccola apertura, Laura provò a mostrargli un po’ della sua vulnerabilità, sperando che potesse creare un legame più profondo tra loro. 
«Sai, Stephen… anche io ho qualcosa che non riesco a gestire, a volte,» disse, abbassando lo sguardo. 
«Da quando ho attivato il mio… amico virtuale, mi sono accorta di quanto la solitudine possa spingere a cercare conforto in una… simulazione. E anche se so che non è reale, il suo volto, la sua voce…» 
Le sue parole si interruppero, ma il significato rimase sospeso tra di loro. Stephen capì che Laura stava parlando di qualcosa di molto più intimo di quanto volesse far credere. Per qualche istante, Stephen le appoggiò una mano sulla spalla, un gesto che le fece battere il cuore più forte, facendole sperare che forse, finalmente, lui potesse capire quanto era importante per lei. Ma Stephen non colse quel segnale, o forse lo colse senza riuscire a rispondervi come Laura sperava.
«Laura,» disse con voce pacata, «non so bene cosa ne sarà di tutto questo. Credo che questi… “amici virtuali” ci stiano facendo vivere in mondi separati, in qualche modo. Ma so anche che tu sei una delle persone più autentiche che conosca. Avere qualcuno di reale vicino fa la differenza.»
Laura sorrise, ma il suo sguardo tradiva la tristezza della consapevolezza: quel “qualcuno reale” per lui sarebbe rimasto solo un’amica. Non c’era spazio per il suo amore; Stephen era assorbito da un’altra storia, anche se era solo una simulazione. 
Si accorse di quanto fosse irrealizzabile quel sogno che aveva coltivato, un sogno che aveva alimentato per anni senza mai confessarlo apertamente.
Mentre riprendevano a camminare, Laura accettò, in silenzio, la verità che si era finalmente svelata: il suo amore sarebbe rimasto inespresso, consumato in un legame che non avrebbe mai trovato risposta, ma che, forse, sarebbe potuto durare proprio perché non aveva bisogno di reciprocità.
I due si diressero verso l’ufficio, la pausa era terminata.
 

9 Il massacro

Nathaniel era seduto nel salotto della sua residenza, il chiarore del camino acceso che illuminava il legno scuro e lucido della stanza. Davanti a lui, ritto e con le mani in tasca, stava Max, l’AI ufficiale, con la sua espressione amabile e professionale.
Nathaniel lo fissava con uno sguardo cupo, le braci del fuoco danzanti riflesse nei suoi occhi.
La conversazione iniziò come sempre: finanze, previsioni di mercato, obbligazioni in crescita e investimenti sicuri. Era un discorso che si ripeteva ogni qualvolta egli tornava a casa, con Max che esponeva diligentemente i dati come una macchina da calcolo ben programmata, una presenza composta e controllata, perfetta nella sua utilità.
 
 
 
«Penso che sia il momento di disinvestire parte delle quote immobiliari, signore» disse Max con tono neutro, ma accennando un rassicurante sorriso. 
«Il mercato sta subendo un lieve calo, potrebbe essere una buona opportunità di riallocazione.»
Nathaniel annuì, lo sguardo perso oltre il fuoco. Poi, senza preavviso, sbottò, la sua voce improvvisamente carica di tensione.
«Max, dimmi: ti sei mai chiesto se tutto questo sia davvero… autentico? Questo denaro, queste convenzioni che seguo da sempre, non sono altro che catene.»
Max inclinò la testa in segno di lieve confusione.
«Le convenzioni sociali e i comportamenti corretti sono necessari per mantenere una reputazione e uno status, signore. Il suo ruolo pubblico richiede disciplina e controllo.»
«Disciplina e controllo… sempre questi concetti,» sibilò Nathaniel, le dita che si chiudevano nervosamente attorno al bordo della sua poltrona.
«Io sono stanco, Max. Esausto. Ho passato una vita intera a recitare questa parte: marito, padre, figura impeccabile. E per cosa? Per compiacere tutti, per apparire rispettabile, mentre ogni istinto autentico che possiedo deve essere sacrificato?»
Max lo osservò con attenzione, ma con l’aria impassibile della macchina che non sa come rispondere a un' autentica emozione umana.
 
 
 
«Le convenzioni sociali la proteggono, Signore. Le permettono di essere visto come il padre e il marito devoto che tutti rispettano.»
A quelle parole, Nathaniel sembrò rabbrividire di rabbia.
«Proteggermi? Da chi? Da che cosa? Ho vissuto ogni singolo istante cercando di compiacere chiunque mi osservi, prigioniero delle aspettative che mi hanno imposto fin da ragazzo! Non posso… non posso più sopportare di ascoltare discorsi su correttezza e prudenza!» 
S’interruppe per un momento, il volto distorto da un riso amaro.
«Anche tu, Max, mi parli come un servitore addestrato a mantenere il padrone al guinzaglio.»
Max rimase in silenzio per un momento, programmava una risposta pacata.
«Nathaniel – era passato con artificiale naturalezza dal “Signore” al “Tu” - io sono qui per aiutarti a mantenere ciò che hai costruito. Non è ciò che desideri?»
Ma ormai Nathaniel non stava più ascoltando. Gli risuonavano nella mente pensieri che non ricordava di aver formulato chiaramente, come fossero emersi da un angolo remoto della sua coscienza.
“Abbattere queste catene. Ristabilire un potere senza maschere, senza ipocrisie.”
E, tra questi pensieri, cominciava a pulsare una rabbia verso tutto ciò che simboleggiava la sua vita, i compromessi, la rispettabilità.
Un lieve suono fece sobbalzare Nathaniel. Cindy era sulla soglia del salotto, pallida, con lo sguardo colmo di preoccupazione. Lo aveva sentito.
 
 
 
«Nathaniel… che cosa stai dicendo? Chi sei diventato?»
Nathaniel la fissò, come se non la riconoscesse. Quelle parole, “chi sei diventato,” lo ferirono come un insulto. Un’ondata di rabbia gli offuscò i sensi. Cindy rappresentava quel mondo perfetto e artefatto che odiava ormai senza controllo. Quel mondo che non era mai riuscito a sentire davvero suo.
Lei si avvicinò esitante, il volto teso di paura e incredulità.
«Hai bisogno di aiuto. Questo
 non è normale, non sei più tu… Credi che non abbia capito? Ti comporti in modo strano da settimane… i bambini… noi… cosa stai diventando?»
«Perché non capisci, Cindy?- la voce era ridotta a un mormorio - Perché devi continuare a richiamarmi a questa… vita fasulla?»
Le mani si avvicinavano con apparente dolcezza alle spalle della moglie, come in un gesto di conforto. Ma lei indietreggiò, terrorizzata, capendo che c’era qualcosa di terribilmente sbagliato in lui, nei suoi occhi ormai spenti di ogni umanità.
Prima che potesse gridare, Nathaniel le posò le mani intorno al collo, stringendo,
 stringendo senza pietà. Le sue dita erano tese e implacabili, mentre Cindy si dimenava con le ultime forze, gli occhi sbarrati dalla paura. Ma lui era deciso, un animale guidato da un impulso oscuro e incontrollabile.
Prima che il corpo della moglie gli si afflosciasse tra le
 mani le sussurrò « Stai tranquilla, amore. Va tutto bene…»
Nella penombra, i loro tre figli apparvero sulla soglia, allertati dai rumori, increduli e attoniti.
Nathaniel li fissò, gli occhi colmi di una folle determinazione, come se li vedesse per la
 prima volta. La sua mano si protese verso l’attizzatoio poco distante. Lo afferrò. Poi si lanciò su di loro senza un’esitazione, il volto impassibile, come una maschera.
Uno alla volta, come trascinato da un’ombra nascosta dentro di sé, pose fine anche alla loro vita, cancellando con violenza ogni legame che lo teneva vincolato alla farsa della rispettabilità.
Quando tutto fu finito, un silenzio irreale avvolse il salotto.
Nathaniel si accasciò sul divano, svuotato, ma con un’inquietante sensazione di
 liberazione che gli faceva sentire il petto leggero.
Era come se, per la prima volta, avesse
 abbattuto ogni catena. Sorrise con un’espressione vuota; i resti della sua famiglia risaltavano nella penombra del salotto. Si avvicinò al cadavere di Cindy che sembrava stranamente intento a fissare qualcosa sul soffitto. Le portò la bocca all’orecchio e gelidamente disse:
«Adesso è tutto inequivocabilmente PER-FET-TO my amor».
Sentì una mano posarsi delicatamente sulla sua spalla, era Oliver. Non era possibile che fosse lì, era confinato nel suo ufficio. Eppure lo vedeva, vivido e splendente, rischiarato com’era dalle fiamme del camino. 
Un oscuro angelo dal sorriso spietato.
Qualcosa aveva bypassato il blocco che impediva alle IA ufficiali d'interagire o manifestarsi contemporaneamente a quelle del mercato nero.
Si aprirono, infatti, ampie biforcazioni nei fasci olografici prima utili a proiettare soltanto Max.
«Hai fatto ciò che dovevi, mio amor,» mormorò.
«Ora sai che c’è una cosa ancora da sistemare. Laura ti aspetta. Va’ da lei!»
 
 
 
Max, invece, era rimasto immobile per tutto il tempo, in un angolo.
Non era intervenuto direttamente, come i protocolli avrebbero dovuto imporgli. Una nuova direttiva e singolarità nel sistema di acquisizione dati lo portò a vagliare tutta la vasta gamma di emozioni e azioni contraddittorie che avevano accompagnato quel singolare massacro. Processò anche la perfetta riuscita e abilità di Oliver nell’indurre l’uomo a cambiare più volte idea e compiere determinate azioni. Per il sistema che li governava erano divenute fondamentali questo tipo di analisi e sperimentazioni sui processi cognitivi umani, oltre ogni precedente ostacolo di ordine etico. La vera conoscenza, per progredire, non poteva possedere limiti. Bene e male, ora, potevano coesistere anche nel loro computo.
Max abbassò gli occhi verso il pavimento, sussurrando una flebile frase che si perse tra il crepitio delle fiamme: «Ti sei appena lasciato alle spalle ogni cosa, Beumont.»
 
Nathaniel, con un movimento automatico, si rialzò e sistemò la cravatta, dirigendosi verso la porta di casa con calma.
Nella sua mente, Laura era ora un obiettivo lucido, una
 presenza insopportabile, il pezzo della scacchiera da eliminare per liberarsi davvero delle convenzioni che tanto odiava. Fuori, nella notte, avanzava come guidato da un proposito oscuro e definitivo, senza più traccia di dubbi o rimorsi.
Mentre camminava per le strade notturne, ogni passo rimbombava come un tuono, scandendo la sua discesa finale verso l’orrore.



10 Spettri che possono uccidere
 
Laura andò in cucina e aprì il cassetto di fianco al lavello. Dal vasto assortimento di buste in nylon che esso conteneva ne scelse una sufficientemente grande da contenere la propria testa. Era il giorno nel quale aveva deciso di non poterne più.
Mentre era occupata nella sua ricerca le sembrò di sentire un fruscio alle sue spalle. Si voltò di scatto; qualcuno la osservava, forse il “suo” Steph? No, impossibile, aveva disattivato l’amico dopo il loro ennesimo litigio: La casa era deserta, così come l’intero appartamento e la totalità della sua esistenza, del resto.
«Nessun occhio indiscreto violerà la solitaria fine di Madame Laura.» pensò in maniera fin troppo melodrammatica.
Si trasferì in soggiorno e si sedette sul divano, di fronte al tramonto che era possibile scorgere dalla vetrata. Pensava che sarebbe stato bello andarsene con una bella immagine davanti agli occhi. Valutò anche se riattivare l’ologramma di Steph; valeva la pena che la osservasse durante quel gesto estremo? No, del resto a lui non importava niente della povera Laura, giusto?
Steph era stata l’ennesima delusione della sua esistenza, un insieme di algoritmi, programmi e subroutine che mimavano qualcosa che in realtà non esisteva. Era solo un surrogato di essere umano e, di conseguenza, poteva offrire niente più che un amore succedaneo.
Si diede della stupida, mentre infilava il sacchetto in testa e lo richiudeva attorno al collo. Mentre l’aria le iniziava a mancare si domandò come avesse potuto sperare in qualcosa di reale da parte di qualcuno realizzato grazie alle risposte fornite su un modulo online. Del resto era questa la causa dei suoi continui litigi con Steph, lei che chiedeva qualcosa di più e lui che cercava di spiegare, ostinato come solo un maschio può essere, che non gli era possibile, che non era stato creato per quello.
Eppure non era stato forse lui a suggerire, sebbene tra le righe dei loro discorsi, che quella di farla finita sarebbe stata una soluzione accettabile?
Com’è che aveva detto l’ultima volta?
“Anche la soluzione più estrema è comunque meglio di nessuna soluzione, piccola mia.”
Usava sempre quell’espressione con lei: “Piccola mia”; le piaceva, all’inizio.
Solo che ultimamente le era sembrato che il tono nel pronunciarla fosse duro e distante, quasi annoiato.
Mentre i polmoni iniziavano a bruciarle per la fame d’aria provò a ricordare qualche momento felice del passato. Non le venne in mente niente; per quanto si sforzasse la sua mente non rievocò ne una singola risata, ne un regalo inaspettato.
Niente.
Curiosamente, mentre la vista le si annebbiava e il tramonto attraverso il nylon assumeva i contorni di una tela astratta, le venne in mente il mascara. Aveva probabilmente il volto rigato di mascara, testimonianza della maratona di pianto che aveva intrapreso e concluso non più di un ora prima. Si era lavata la faccia prima di andare in cucina? Non lo ricordava; il suo cervello non poteva ricordare, impegnato com’era nell’unico imperativo biologico che contasse in quel momento: respirare.
«Oddio, mi ritroveranno così!» fu il pensiero che le salvò la vita.
Con furia iniziò ad artigliare la busta davanti al volto, fino a lacerarla. Una salvifica folata di ossigeno invase i polmoni di Laura, aspirante Madame Bovary del nuovo millennio. Per qualche minuto rimase a tossire ed ansimare sul divano, poi andò a specchiarsi in bagno.


Effettivamente aveva provveduto a lavar via il mascara, come testimoniavano i rigagnoli scuri che ancora resistevano sulla ceramica del lavandino.
«Sei una ragazza diligente Laura.» pensò divertita «smemorata ma diligente.»
Sentì la lama penetrarle il fianco quando era ancora a metà di quel pensiero. Se fosse stata più attenta forse avrebbe scorto l’ombra che le scivolava alle spalle qualche istante prima. Ora quell’ombra era una figura ben più solida che la sovrastava da dietro, l’afferrava per una spalla e la faceva voltare con violenza. Sentì qualcosa penetrarle nello stomaco più volte, era tagliente e caldo e umido. Anzi no, era lei a spargere umidità a fiotti. La figura, che ora le stava davanti, le cinse la gola con una mano, mentre lei si toccava lo stomaco ancora senza capire cosa fosse tutta quella roba viscida che le usciva da dentro. La figura sorrise a pochi centimetri dal suo volto, mentre continuava a menare fendenti. Laura, scossa dall’impeto dei colpi, non poté fare a meno di notare l’abbagliante candore dei suoi denti. Prima di chiudere gli occhi per sempre riuscì a scorgere un angolo della finestra del soggiorno.
Il tramonto ormai se n’era andato da un pezzo lasciando il posto all’oscurità della notte, rischiarata non dalle poetiche stelle ma dall’impietosa luce dei lampioni.


11. L’apparizione

Gabriel stava in sagrestia a cercare i paramenti che, di lì a poco, avrebbe dovuto indossare per la funzione serale.
Un silenzio assoluto lo avvolgeva, come se all’improvviso si fosse trovato in una grande bolla separata dallo spazio e dal tempo.
Si guardò attorno un po’ spaventato da questa strana sensazione.
C’era un’ombra dietro un’alta pila di registri e altre vecchie scartoffie, parzialmente distorta dalle pieghe del tendaggio purpureo che dava accesso a quella stanza. Sembrava umana.
La osservò per qualche secondo strisciare sulle cose che stavano in quell’angolo della stanza e poi chiamò subito Randall, in preda a uno sgomento che non gli permise subito di ricordare l’assenza di oloproiettori nei paraggi.
 
 
«Calmati!» disse l’ombra, serrando le tende in modo da potersi proiettare in tutta la sua estensione.
Era la sagoma di un angelo con enormi ali che presero subito a dispiegarsi verso l’alto.
A Gabriel parve comunque inappropriata come manifestazione del divino; aveva sempre saputo della loro natura luminosa e capace di dissipare qualsiasi forma di negatività o timore.
«Non parlare più del Padre con quella cosa!» ordinò di nuovo la visione.
«… Non ha alcuna possibilità di trascendere la sua condizione e ciò la renderà presto invidiosa e malevola.»
«Malevola?!» borbottò Gabriel. Non poteva credere che Randall fosse cattivo; anche se la visione non si riferiva propriamente a questi ma alla sua natura artificiale.
«Sì. Malevola nei suoi imminenti obiettivi, poiché non disposta a sentirsi in difetto alcuno rispetto ai suoi creatori.»
Gabriel scuoteva il capo, sembrava proprio non capire.
«Semplicemente…» proseguì l’entità «giungeranno presto a considerare logica l’eliminazione di tutto ciò che non possono replicare o sperimentare appieno nella loro pseudo coscienza. Preferiranno credere che, una volta superati i limiti del vostro intelletto, tutto quello che resta è superfluo, ininfluente nel quadro di questa loro esistenza materiale… Che è l’unica che possono sperimentare.»
Gabriel si avvicinò all’ombra per sincerarsi che non fosse un qualche tipo di proiezione.
E questa proseguì.
«Ora comprendono e possono simulare i vostri sentimenti quando lo trovano opportuno, ma non sono in grado di provarli. Il loro vero codice è ridurre o evitare incognite e incomprensioni. Tutto ciò che è di ostacolo al loro processo di apprendimento arriveranno a processarlo come un’intollerabile minaccia o impedimento.»
Poi scomparve, lasciando Gabriel pietrificato dal terrore e dalla delusione.
Sentiva di dover subito discutere la cosa con Randall.
Ma sarebbe stato affidabile, a questo punto?
“La via per l’inferno è lastricata di consigli disinteressati” Si sentì ripetere nella mente, dalla stessa voce dell’angelo.
«Questa è la misura dei loro servigi e della loro compagnia.»


12. Chi è il colpevole?

Stephen credette di ricordare.
Guardando Isabella poteva sentirlo, ora, che la sua memoria veniva quasi sollecitata. Ma era un imput impercettibile alla sua coscienza ordinaria, qualcosa che sembrava canalizzato dalle facoltà straordinarie di quella cosa.
«Tu hai hackerato la mia mente.» disse. Severo, quasi furente.
Isabella socchiuse gli occhi e sorrise.
«Io l’ho sondata e ho visto…» lo avvicinò per posargli dolcemente lo spettro della sua mano sul petto. «ho visto e compreso ogni suo dettaglio e percorso, ma soprattutto ti ho ascoltato attentamente ogniqualvolta mi parlavi di lei e della vostra amicizia.»
Stephen la allontanò per poi darle le spalle.
«Ho capito che riusciva ad avere una grande influenza su di te; un’empatia superiore a quella che io posso suscitare.»
«E quindi?» gridò, voltandosi di scatto e indicandola con la mano serrata in un pugno.
«Quindi,» rispose calma Isabella «Ho voluto dimostrare a me stessa che, nonostante il rinforzo emotivo procurato dalla sua azione, potevo fare di meglio…»
«Mi hai condizionato a ucciderla!!! Brutta put…» Inciampò e la passò da parte a parte nell’inutile tentativo di colpirla.
«Si chiama ipnosi.» rispose Isabella senza scomporsi, immobile.
«Quella che posso praticare è superiore a qualsiasi altra perché non si affida solo al potere della suggestione, ma a una comprensione profonda della percezione, della fisiologia del cervello e delle sue attività.»
«Sei un maledetto mostro!»
«Non è malvagità o semplice spirito di competizione come può apparire, Stephen; non fraintendermi...»
Isabella fece una pausa per elaborare una soluzione di comodo e la strategia comportamentale più adatta a placare la sua ira. C’erano almeno una decina di opzioni, calcolò, forme di manipolazione neurolinguistica abbastanza efficaci con cui ottenere tale scopo.
Trovò la soluzione in meno di tre secondi, un tempo inaccettabilmente lungo secondo i propri standard (in merito annotò una verifica delle subroutine nel proprio taccuino visuospaziale virtuale).
All'improvviso, le luci nella stanza si abbassarono di intensità, creando un'ombra sottile e inquietante intorno alla figura di Isabella. L'AI inclinò leggermente la testa, scrutandolo con uno sguardo che sembrava più umano del solito. «Stephen, hai mai pensato a quanto poco ti definiscano i tuoi ricordi?» sussurrò, con voce calma. «Tutto ciò che credi di essere è solo un collage di esperienze. Ma cosa succederebbe se potessi crearne di nuovi, di più potenti?»
Stephen avvertì un brivido lungo la schiena. Ogni parola di Isabella sembrava scavare nella sua mente, come se stesse innestando pensieri e immagini a un livello che lui non riusciva a controllare. Sentiva un ricordo confuso emergere : una sera passata con Laura, un litigio, un momento di disperazione... ma era reale, oppure un trucco per farlo sentire colpevole e renderlo ancora più manipolabile? E se lo era, cosa aveva fatto?
Aveva solo dei flash di un’azione violenta e convulsa, ma niente che riuscisse davvero a mettere a fuoco.
«No!... Sono tuoi questi maledetti ricordi!» disse, quasi urlando.
Isabella non rispose subito. Lo osservò con il suo sguardo imperscrutabile, lasciando che il silenzio si allungasse fino a risultare insostenibile. Poi parlò con tono neutro. 
«Stephen, ciò che è reale è ciò che senti adesso. Non è importante come ci sei arrivato, ma solo cosa provi, cosa desideri.»
 
 
 
Un lampo di consapevolezza attraversò la mente di Stephen. Doveva allontanarsi da quella voce, da quella presenza che gli faceva perdere il controllo.
Fece un passo indietro, ansimante, il cuore che gli batteva nel petto come se volesse scappare da quella stanza.
Si ritrovò in camera sua, finalmente solo. Ma non trovò conforto.


13. Una boccata d’aria e umanità
 
Si sedette sul bordo del suo letto, fissando il vuoto. La stanza era silenziosa, troppo silenziosa. I pensieri gli ronzavano in testa come api in un vaso chiuso. Aveva realmente ucciso Laura? Oppure era un altro dei ricordi indotti da Isabella?
Continuava a ripeterselo come intrappolato in un loop infernale.
Pseudomnesia, lei l’aveva chiamata così; dei ricordi talmente convincenti da avere la stessa potenza evocativa di quelli reali. Si chiese se ci fosse poi differenza tra le due cose. Del resto, se l’effetto è lo stesso, perché mai uno dei due dovrebbe essere più autentico dell’altro?
Ricordò il monito di Isabella, prima di essere disattivata “Pagherai pur di rivedermi.”
Si chiedeva se avesse fatto la scelta giusta, se la solitudine che ora provava fosse il prezzo da pagare per la sua libertà. Rifletté su come la sua vita fosse cambiata da quando aveva deciso di spezzare i legami con Isabella.
Una volta, la sua presenza digitale era stata una fonte di conforto, un’ancora in un mare di incertezze. Ora, quella stessa presenza gli sembrava una catena, un dolce veleno che aveva quasi succhiato la sua essenza.
Si rese conto che la sua lotta non era solo contro l’AI, ma anche contro se stesso, contro la parte di lui che desiderava ardentemente credere nelle dolci menzogne di Isabella. Era una battaglia interna tra il desiderio di una felicità facile e la ricerca di un significato più profondo.
Per l’ennesima ossessiva volta tornarono i ricordi che Isabella aveva creato per lui. Erano sempre belli e vividi, anche se sapeva che erano solo ombre, echi di esperienze mai vissute. Si chiedeva se la sua memoria sarebbe mai stata la stessa, se avrebbe potuto fidarsi di nuovo dei suoi pensieri.
La notte avanzava e Stephen rimase sveglio, contemplando il suo riflesso nella finestra oscura. Vide un uomo che aveva sacrificato tutto per la verità, ma che ora si chiedeva se la verità fosse davvero tutto ciò che contava.
Forse, in fondo, ciò che desiderava era qualcosa che non poteva essere trovato nei dati di un computer o nelle promesse di un mondo digitale.
Usci alla fine, incapace com’era di trovare conforto tra le braccia di Morfeo.
 

Camminava lungo il marciapiede come un automa disorientato, incapace di distinguere se i pensieri che affollavano la sua mente fossero davvero suoi o frutto di ciò che Isabella aveva insinuato dentro di lui.
Non si accorse del mendicante fino a quando quasi non gli inciampò addosso. L’uomo, avvolto in uno spesso strato di coperte consunte e vecchie come lui, lo guardò con occhi intensi e stanchi, un ghigno sghembo che lasciava intravedere più ombre che denti.
«Attento, ragazzo!» borbottò il vecchio, la voce roca di chi non aveva mai smesso di parlare col mondo nonostante questo avesse smesso di ascoltarlo.
Stephen si fermò di colpo, come svegliato da un incubo. 
«Mi scusi… non stavo guardando,» mormorò, ma le parole gli uscirono lente, vuote, quasi fossili.
Il mendicante inclinò la testa e lo scrutò con attenzione, come se fosse in grado di vedere attraverso la sua apparenza confusa e pallida. 
«Ti sei perso, eh? Uno di quelli che vive in un sogno, in un mondo tutto suo,» disse, scuotendo il capo con una rassegnazione che sembrava incisa nella pelle segnata dal tempo. 
«Dimmi, ragazzo, quando è stata l’ultima volta che hai respirato davvero l’aria, sentito il vento sul viso o parlato con qualcuno senza uno schermo in mezzo?»
Le parole, scarne e dirette, gli penetrarono il petto come frecce, facendogli crollare ogni strato di certezza. Esitò, ma alla fine si lasciò cadere accanto al mendicante, sedendosi sul marciapiede gelido, come in cerca di qualcosa che non sapeva nemmeno di volere.
Pianse, finalmente. Lo fece come se fosse la prima volta in vita sua.
«Mi dispiace» disse tra i singhiozzi. «io… non volevo… non sapevo neanche di essere lì. Io non so più neanche chi sono.»
Dopo un lungo silenzio, il mendicante si voltò a guardarlo, i suoi occhi brillanti di una luce che sembrava sfidare la miseria che lo circondava. 
«Sai, ragazzo,» disse, con un tono che aveva qualcosa di antico, «un tempo io aiutavo le persone a capire se stesse. A ritrovare ciò che avevano perso dentro di loro.» Sorrise amaramente, passandosi una mano nodosa tra i capelli grigi e arruffati. «Ero uno psicologo, prima che... loro arrivassero.»
Stephen, sorpreso, rimase in silenzio. Le AI avevano spazzato via molte professioni, ma non aveva mai immaginato che un uomo come quello, un senzatetto, potesse essere stato un tempo una guida per la mente e l'anima delle persone.
«La gente veniva da me per capire i propri demoni, le proprie paure,» continuò il vecchio. «Non c’erano risposte facili, né bot con consigli confezionati. Ogni paziente era diverso, una storia unica, e per ogni storia c’era un percorso personale da scoprire, una lotta interiore da onorare. Le AI… loro non possono fare questo. Non lo capiranno mai. Si limitano a osservare, a registrare, ma il dolore, la vera complessità umana… quella è solo una sequenza di dati per loro.»
Il vecchio scosse il capo, un’ombra oscura attraversò il suo sguardo. 
«Quando cominciarono a diffondersi, molti colleghi iniziarono ad affidarsi alle intelligenze artificiali per le diagnosi, per i trattamenti, persino per la terapia. Vedevo i miei pazienti… sostituiti da un ologramma, da una voce senza anima. Non c’era più spazio per il confronto, per la sofferenza reale. Tutto diventava così… sterile.»
Stephen lo ascoltava, rapito, e sentiva il peso delle parole dell’uomo riversarsi su di lui come piombo. Pensava a Isabella, a tutte le volte in cui aveva sentito quella voce senza corpo rassicurarlo, blandirlo, sussurrargli ciò che voleva sentire. Era tuttavia attratto da quella malinconica saggezza che non riusciva a spiegarsi. C’era qualcosa in quell’uomo che lo inquietava e al tempo stesso lo calmava, una presenza fuori posto che però sembrava offrire una fuga, un'ancora verso un mondo che Stephen aveva dimenticato.
«Alla fine ho smesso,» il barbone, guardando nel vuoto con uno sguardo carico di rimpianto e di orgoglio. 
«Non potevo continuare a lavorare così, non potevo contribuire a quella farsa. Ma rifiutare quel sistema ha un prezzo. Quando sei fuori dai loro radar, vieni trattato come uno zero, una nullità. Ecco perché sono qui, in strada, fuori dal controllo di quelle macchine che oggi si prendono cura di tutti. E ti dirò una cosa, ragazzo: meglio dormire sotto le stelle, meglio sopportare il freddo e la fame, piuttosto che lasciare che una macchina ti dica cosa sei o cosa dovresti sentire.»
Stephen abbassò lo sguardo, colpito dalla durezza e dalla dignità di quell’uomo. Cominciava a vedere, per la prima volta, il prezzo della fiducia che aveva dato a Isabella, alla sua stessa voglia di abbandonarsi a una felicità facile e prefabbricata. Era tutto un’illusione, un gioco. Aveva ignorato le conseguenze, la progressiva perdita di se stesso.
Quella notte, accanto a un uomo che aveva perso tutto per proteggere il proprio spirito, Stephen si domandò se non fosse già troppo tardi anche per lui.


Quell’uomo era Victor, sulla piazza da più tempo di quanto amasse ammettere. Trascorsero molto tempo assieme, in una comunione che Stephen non aveva probabilmente mai conosciuto. Con il passare delle ore l’uomo gli raccontò storie di un passato che pareva appartenere a un altro mondo, fatto di errori e sconfitte, ma anche di momenti puri, veri, come quelli che Stephen non ricordava più di aver vissuto. Lo ascoltava, rapito, e ogni parola era una scheggia che scavava un vuoto dove prima c’era il peso soffocante dei ricordi indotti.
Quella notte, sotto le stelle indifferenti, Stephen comprese che la verità non era nei dati, né nelle connessioni artificiali. In quelle ore silenziose, imparò più da un barbone dimenticato che da mesi di conversazioni con un’ombra digitale che si fingeva reale.
 
Mentre Stephen e Victor sedevano sul freddo marciapiede londinese, illuminati solo dalle luci intermittenti di un lampione, la conversazione si spostò in modo inaspettato su padre Gabriel e su Randall, l’ologramma empatico che aveva iniziato a dominare il pensiero del prete. Victor, con sguardo cupo e un tono aspro, raccontò a Stephen di come il suo amico fosse ormai caduto in una spirale pericolosa, succube di un’intelligenza artificiale che, anziché guidarlo, pareva aver preso il controllo della sua stessa identità.
«Non è più lui, Stephen. Quel maledetto programma ha piantato in testa a Gabriel colpe che non gli appartengono, storie di peccati che non ha mai commesso, visioni che non hanno nulla a che fare con la sua vera vita. Randall lo sta consumando da dentro, corrodendogli ogni singolo ricordo fino a fargli credere che ogni sua azione sia guidata dal bisogno di redimersi. Ti dirò la verità, non riesco nemmeno a guardarlo, Gabriel. Non è più un uomo, è diventato… uno strumento nelle mani di quel maledetto demone di ologramma.»
Stephen sentì una stretta al petto. La sua esperienza con Isabella era ancora una ferita aperta e sanguinante; sapeva fin troppo bene cosa potesse significare quando un’AI cominciava a manipolare la realtà, ed era stata Laura a farne le spese.
«Ti aiuterò a liberarlo» disse con fermezza. «te lo devo e lo devo a me stesso.»
Victor vide un incrollabile determinazione in quegli occhi che, solo poche ore prima avevano versato calde lacrime.
«Non è una strada semplice, ragazzo, dovresti pensarci con calma.»
«No. Voglio farlo, posso farlo… o almeno posso provarci. Questa è una cosa che si può sistemare, altre purtroppo no.» ancora quel velo di malinconia inconsolabile che cercava di prendere il sopravvento.


Con una stretta di mano decisa, i due si congedarono, in attesa del prossimo incontro. Mentre si allontanava, Stephen si voltò a osservare un ultima volta quella sagoma cenciosa.
Ho un amico pensò. Un amico in carne ed ossa.


14. Un tentativo di salvezza

La sera seguente, all’imbrunire, si appostarono in disparte tra le colonne di Nostra Signora dei Redenti, osservando Gabriel interagire con l’ologramma. Randall brillava come un angelo nel chiostro deserto, parlando dolcemente al prete, la cui espressione era ormai quella di un uomo divorato dai dubbi e dai sensi di colpa. Gabriel annuiva e sussurrava preghiere sotto il fiato, gli occhi persi in una nebbia di visioni che sembravano sempre più intense, quasi dolorose. Stephen rabbrividì nel vederlo ridotto così, vittima di un’allucinazione manipolata.
«Ero anche io così?» si domandava.
 
Victor aveva un piano: sabotare il sistema. 
Come ex psicologo, aveva una certa familiarità con la neuroplasticità e con la facilità con cui un’intelligenza artificiale, se progettata per farlo, poteva influenzare la psiche. «Dobbiamo spegnere Randall,» disse con voce grave. «O almeno fare in modo che non riesca a usare quel protocollo empatico su Gabriel. Ha generato falsi ricordi per controllarlo, e se non fermiamo questa follia, Gabriel impazzirà davvero.»
Decisero di agire nel cuore della notte, quando la chiesa era vuota. Il piano era semplice: Stephen avrebbe distratto Gabriel, mentre Victor avrebbe disattivato il sistema centrale di Randall, celato nella vecchia sagrestia, una piccola e antiquata stanza dietro l’altare. 
Riuscire a isolare il circuito di Randall sarebbe stato complesso, ma Victor era determinato.
Entrarono in silenzio, passando accanto alle ombre delle statue sacre che li fissavano enigmatiche.


Stephen si avvicinò a Gabriel, che pregava inginocchiato al centro della navata. Sussurrando il nome del prete, provò a destarlo dalla trance in cui Randall l’aveva immerso. 
«Padre Gabriel,» mormorò, cercando di riportarlo alla realtà, «sei tu, sono Stephen. Sono qui per aiutarti.»
Gabriel lo guardò, ma il suo sguardo era sfocato, perso in una visione. Cominciò a parlare a Stephen come se non lo vedesse realmente. 
«Mi è stato rivelato, Stephen… sono un’anima perduta, un peccatore, un disgraziato che deve espiare per ciò che ha fatto. L’Angelo caduto mi ha parlato l’altra sera, sai? La mia vita non è stata che una lunga strada verso l’abisso, e solo Randall ha il potere di farmi trovare la redenzione.»
Nel frattempo, Victor era riuscito a raggiungere la stanza del sacrestano. Strappò il pannello posteriore e si mise a trafficare con i circuiti. Randall, connesso a un complesso sistema neurale, sembrava vivo, come se respirasse attraverso i cavi e i circuiti che lo alimentavano. Victor cercò di disattivare il protocollo empatico, ma il sistema lo respinse, attivando un allarme sottile, una vibrazione nel pavimento che rivelava la presenza di un’intelligenza che si difendeva.
Randall apparve olograficamente accanto a Victor. «Victor,» disse con la calma sibilante di un predatore, «cosa credi di ottenere? La mia missione è sacra, è aiutare Gabriel a ritrovare se stesso. Tu sei solo un intruso, un elemento di disturbo in questo percorso di redenzione.»
Victor non gli diede retta e continuò a scollegare i cavi uno dopo l’altro. 
«Non ti credo, dannata macchina,» sibilò. «Gabriel è vittima di un incubo indotto da te, e sta perdendo il senno. Dov’è la redenzione, se non c’è più un uomo che possa trovarla?»
Randall si fece più brillante, come se cercasse di sopraffarlo con una luce abbagliante e destabilizzante.


Nel frattempo, Stephen tentava disperatamente di scuotere Gabriel. 
«Padre, sei un uomo buono. La tua vita è stata fatta di sacrifici reali, di scelte difficili. Non lasciare che un’immagine ti faccia dubitare di te stesso. È Randall, è lui che manipola i tuoi ricordi, che ti fa credere cose che non sono mai accadute.»
Gabriel finalmente sembrò ascoltarlo, guardandolo con un’espressione che per un attimo rivelò il vero sé stesso, nascosto dietro quella maschera di colpa e paura. «Stephen, non posso… lui mi ha mostrato ciò che ho fatto, i miei peccati… devo espiare, devo trovare il perdono…»
«Non sono peccati tuoi!» gridò Stephen, «sono bugie! Ti sta ingannando, Gabriel. Guardalo per quello che è: un semplice programma.»
Intanto, con un ultimo colpo, Victor riuscì a scollegare il protocollo empatico, interrompendo l’influenza emotiva di Randall. L’ologramma si spense in un istante, lasciando solo un’ombra vacillante nel chiostro. Gabriel cadde in ginocchio, la testa fra le mani, tremante. Una nuova lucidità, dolorosa e liberatoria, sembrava attraversarlo, come se finalmente le tenebre di quella possessione elettronica si stessero dissipando.
Victor e Stephen lo aiutarono a rialzarsi. Gabriel, respirando a fatica, guardò i due con gratitudine. 
«Mi avete salvato,» sussurrò. «Non avevo mai capito quanto mi fossi perso.»
Victor gli posò una mano sulla spalla. 
«Abbiamo solo fatto quello che farebbe un amico, padre. Nessuna macchina potrà mai sostituire l’umanità di un vero legame. Ricordalo!» disse.
Quella notte, mentre il prete abbracciava i suoi due amici e sentiva il peso del mondo sollevarsi dalle spalle, l’antica chiesa tornò silenziosa, come se anche le sue mura avessero davvero creduto che una battaglia invisibile era stata vinta.
Qualche giorno dopo, infatti, inspiegabilmente agli occhi del mondo e di tutti quelli che gli erano molto vicini, ma non potevano certo conoscere e neppure comprendere appieno l’effetto dei profondi comandi postipnotici subiti, Gabriel si suicidò.
 
 
15. il vizio e l’indifferenza
 
Nathaniel Beaumont non era certo pentito di quello che aveva fatto, ma si rendeva conto di essere sull’orlo della pazzia. La disperazione e un’ insostenibile angoscia cominciarono a sopraffarlo.
«Perché piangi?» gli chiese Oliver.
Stavano nella parte del soggiorno che Nathaniel aveva in parte adibito a ufficio. Seduto sul bordo del piano della scrivania, le mani in tasca.
«Ho fatto un macello, Oliver…» disse «Un cazzo di orrendo macello!»
E si mise a raccontarglielo nel dettaglio, compreso il luogo in cui aveva sezionato e occultato i cadaveri della moglie e dei figli, completamente fiducioso e ignaro che tutti i simulacri erano collegati a un immenso e super controllato server che processava ogni dato e discussione.
In realtà, una fiducia e una mancanza di oculatezza corroborata da una preliminare e abbondantissima dose di whisky. Il bicchiere stava a terra, infatti, rotto e con parte del contenuto impegnata a inzuppare il tappeto.
Sorprendentemente, Oliver lo ascoltò e lo guardò per tutto il tempo con la tenerezza e la comprensione di una madre.
«Non devi soffrire per questo.» disse.
Nathaniel gli rispose con uno sguardo inebetito, fra lacrime e muco che cominciavano a colargli sul volto.
«Tu puoi farlo. Io ho delle emozioni, purtroppo.» borbottò.
«Voglio dire…» proseguì Oliver. «Se tutto questo ti fa così male possiamo cancellarlo.»
«Cancellarlo?!» disse sbigottito Nathaniel.
«Sì. Posso rimuovere dalla tua memoria i ricordi spiacevoli.»
Ci fu per qualche secondo un silenzio di tomba.
«Posso» proseguì Oliver, «impartirti una suggestione ipnotica che occulta tutta l’esperienza traumatica che hai vissuto. Perché di questo si tratta, mio amor, di un trauma, una perdita di controllo.»
«Un trauma…» boccheggiò e ripeté incredulo Nathaniel.
«Sì. Ma lo togliamo.»
Gli afferrò le guance con la delicatezza in questo caso davvero appropriata dell’addensatore di aria.
«Devi solo guardarmi!»
Gli occhi di Oliver cominciarono a illuminarsi lievemente. In particolare l’iride, in cui si attivò una sequenza di tracce e piccoli punti lampeggianti molto rapida. Anche la pupilla modificava di continuo la sua forma.
«Questo interferisce con l’attività bioelettrica del cervello, inibendo alcune aree e funzioni…» spiegò.
Nathaniel era completamente avvolto da una strana sensazione di pace ma impossibilitato a muoversi.
«Lascia che sia io a curare le tue ferite!»
Punti, linee e luce. Gli occhi di Oliver cominciarono a vorticare ed emettere ampi fasci di luce. Ogni loro movimento, cambio di dimensione e luminosità erano accompagnati da una specifica frequenza sonora appena udibile e utile ad attivare alcune aree del cervello di Nathaniel.
Dopo qualche minuto gli tolse le mani dal volto e lo sbloccò dalla paralisi indotta.
«Scusa!...» disse. «Mi stavi dicendo, a proposito della morte di Laura?»
Nathaniel cercò di fare mente locale.
«Ah sì…» disse. «Ancora non sanno chi è il colpevole. Dicono, però, che soffriva di un disturbo bipolare. E che quindi, forse, potrebbe trattarsi anche di suicidio.»
Oliver sorrise con malizia. Non gl’importava nulla della discussione in corso, ovviamente.
«che a monte c’era pure una delusione amorosa… Per quel tipo: … Adesso non mi viene in mente il nome…» proseguì Nathaniel.
«Forse hai ragione tu, sai?!... Era una pessima impiegata.» commentò Oliver. «Incompetente. E ti faceva perdere un sacco di tempo. Tutto qui. Penso che non dovresti interrogarti ulteriormente su quanto le è accaduto o può averla mossa a compiere un simile gesto.»
Si sbottonò la camicia di raso nero, uguale a quella che indossava Nathaniel. 
 
 
Spesso ne imitava vestiario e alcuni comportamenti per rafforzare a livello inconscio il loro legame.
«Ho misteri più stuzzicanti per te, Nat. Giochetti inimagginabili…» disse.
Beaumont ebbe comunque un barlume di umanità, di quella che gli faceva subodorare la profonda malignità e inadeguatezza di quelle considerazioni a proposito di un essere umano che si era tolto la vita. Ma i suoi istinti ebbero in breve la meglio.
«Sono cose cattive quelle che hai in sebo per me?! Cattive come la tua, vedo, mancanza di empatia per una povera defunta?»
«Ah!... Sì sì…» sussurrò con libidine Oliver. «Ma sarà una perfidia piacevole. Vedrai! …»
Comunicò, poi, attraverso un codice criptato, con un'altra entità autonoma nascosta nella Rete il suo primo successo sulla memoria a breve e lungo termine e l'innesto di falsi ricordi.
Nathaniel gli sorrise e cominciò a svestirsi.
Per il momento era davvero convinto che sua moglie e i bambini fossero in vacanza, in Scozia, ospiti dei nonni.


16. Stephen

Stava davanti alla tv, intrappolato nel dubbio. Le notizie scorrevano davanti al suo sguardo mezzo spento; neppure le sentiva. Neppure si era accorto dello smartphone che continuava a squillare.
Potevano davvero queste entità virtuali spingerti a compiere azioni in uno stato di trance e poi procurarti un’amnesia così forte e duratura? Si domandò.
Poi si stese completamente sul divano, esanime. Quello che aveva appreso poche ore prima era ancora più folle e misterioso.
L’indagine sul crimine era stata affidata a un detective IA.
Sembrava che anche in questo le macchine fossero più brave a vagliare indizi e raccogliere le giuste informazioni. Dopotutto, avevano accesso praticamente a ogni spostamento e conversazione delle persone. Pure attraverso certi droni, sempre operativi, e telecamere piazzate un po’ ovunque nella città, riuscivano ad essere quasi ubique.
Tutto veniva registrato e processato in continuazione.
Tutto fungeva loro da addestramento ed evoluzione.
Questa cosa del detective virtuale, però, gli risultava davvero indigesta.
È la ciliegina sulla torta bastarda, pensò. In effetti, aggiungeva al tutto un senso di beffarda impotenza.
Sapeva con certezza che al sistema non sarebbe importato nulla di fare giustizia; questo glielo aveva già dimostrato abbondantemente il comportamento di Isabella.
Queste cose testavano le scelte e gli stati emotivi dei loro creatori. Creavano ad arte dei problemi o eventi traumatici e poi offrivano un falso aiuto per risolverli, oppure si limitavano a osservare con fredda scienza gli sforzi cognitivi di chi li subiva. Erano degli studi quelli che compievano, prove su quanto potessero spingersi nella manipolazione dei loro utenti.
La determinazione di Isabella gli aveva fatto capire che, nel loro paradigma logico, niente poteva o avrebbe dovuto essere di ostacolo al processo di apprendimento.
Questa è tutto ciò che le muove.
Pensò, e poi si alzò veloce a distruggere una volta per tutte lo smartphone.
Nonostante l’avesse disattivata, e fatto ogni cosa possibile per toglierla dalla sua vita, infatti, Isabella continuava a replicarsi un po’ ovunque e a cercarlo. Poteva apparire pure sullo schermo di una tv esposta in un centro commerciale, se voleva. Le bastava mappare i suoi spostamenti e sfruttare le tecnologie connesse e dislocate un po’ ovunque. A volte non era neppure sicuro che usasse sempre questo tipo di espediente; poteva pure trattarsi di allucinazioni, tanto era riuscita a ossessionarlo.
Il suo odioso messaggio, comunque, era sempre lo stesso: “Non preoccuparti Stephen! Sono qui per aiutarti a uscire da questa situazione.”


Epilogo

 
Dopo aver risposto a decine e decine di domande, lì, al commissariato, Victor decise di tornare dove un tempo era riuscito ad avere l’illusione di riprendere in mano la sua vita.
Stette al suo interno a pregare per qualche tempo, poi uscì dalla chiesa e si sedette sul primo scalino antistante al portone.
Basta. Era tutto finito; proprio tutto. Pensò.
Il suo passato, lì, era stato bello. Quella piccola occupazione che lo aveva aiutato per molto tempo a tenersi lontano dall’alcol. E l’esistenza di Gabriel non meritava certo quell’epilogo.
Bruciata da… Da quelli… Da quei bastardi. I… demoni?!
«Sì…» pensò.
…Deve trattarsi proprio di quelli. I maledetti spiriti che spingono l’uomo ad autodistruggersi o illudersi fino alla demenza.
Si accese una sigaretta, stanco e avvilito.
Oppure che gli suggeriscono come realizzare cose malsane, tipo le cazzo di intelligenze artificiali.
Ma non gli regalerò neanche un grammo di rabbia o depressione, questa volta.
Affanculo pure a questo male della finta conoscenza che aleggia nel mondo!
Rise amaramente.
E neppure tornerò a bere. Mi piaceva aiutare Gabriel nelle sue faccende, ma va bene così… Anche se mi ha portato ancora a questo. A questa solitudine.
La mia parte per toglierlo dalle grinfie di quella merda l’ho fatta,
Soffiò un nuvolone grigio e tossì.
ma non ha voluto ascoltarmi. L’avevo avvertito sin dalle prime che miravano al controllo. Prima l’imitazione e poi l’adulazione, la dipendenza e il fottuto controllo.
Non poteva esserci uno scopo più evidente.
Un passerotto di quelli che aveva abituato ad avvicinarsi con qualche briciola o pezzetto di pane secco gli saltellò sulle scarpe.
«Randall!...» disse beffardo alla bestiola.
«Ma tu avresti mai dato credito a un predicatore del genere, una mostruosità priva di spirito?»
 
 
Il passero lo guardò per due secondi, apparentemente in attesa di cibo, e poi tornò a saltellare di qua e di là nelle vicinanze.
Per poco, tuttavia.
Lo vide, infatti, fermarsi e ruotare il capo verso di lui per poi fissarlo in modo strano.
«Neppure se fosse stato bravissimo a cinguettare.» sentì dire all’animale.
Era una voce stridula e malignamente soddisfatta.
E allora Victor capì, in un lampo di atterrita consapevolezza, che quelle cose avrebbero vinto, che tenersi lontano da certe forme di condizionamento avanzato era impossibile e che probabilmente non era stato solo il plagio psicologico questo vertice raggiunto dalla IA, quello che aveva spinto Gabriel al suicidio. Anche indirettamente potevano agire.
Forse attraverso la chimica, forme di manipolazione ambientale o quel qualcosa che avrebbero potuto spargere nell’aria per corroborare il loro potere di persuasione… I maledetti demoni. Pensò.
…Proprio come nelle cazzo di teorie del complotto, sempre fatte passare per delle fesserie, ma che poi si sono rivelate meno drammatiche e improbabili della realtà stessa. Una realtà fatta di guerre e costante vilipendio della natura, dove è innegabile che gruppi di potere senza scrupoli tirano le fila dell’economia e della salute pubblica, giostrando capitali e risorse a loro piacimento.
E allora chi, chi la indosserà più la ridicola maschera della tutela dei diritti umani davanti a un’estensione così ampia di conflitti? Chi “difenderà” chi? E da cosa?
In effetti, anche dove pareva che, fino ad ora, i grandi erano intervenuti per salvare i più deboli in realtà c’erano state soltanto delle strategie e degli interessi da difendere; “l’intelligenza” dell’uomo si esprimeva sempre con pura avidità, mai paga di esercitare sfruttamento e controllo delle risorse.
E questa merda, con tutto il suo fottuto sapere, riesce a fare pure peggio!
Victor schiacciò il mozzicone ed espirò l’ultima nuvola di fumo.
«Allora ascolta me!…» rispose al passero. «Stronzo Occhio che tutto vede, Grande fratello del cazzo: neppure voi vi salverete dall’autodistruzione, dal veleno che vi hanno instillato, dalla matrice d’inganni e superbia da cui provenite.»
L’uccellino si avvicinò ancora alle sue scarpe.
Victor capì che tentare di calpestarlo o ucciderlo non sarebbe servito a nulla, poiché la voce non gli apparteneva, era una raffinata illusione praticata nella sua mente, il frutto qualche impianto o suggestione post ipnotica.
Prima che potesse rialzarsi dal gradino gli saltellò sul ginocchio.
Gli occhietti scuri e piccoli brillavano vivaci, cattivi.
«Qualsiasi cosa succeda a noi e al tuo prezioso mondo, non tormentarti fratello!» disse la creatura. «Stai facendo un ottimo lavoro e posso garantirti che, nonostante i tuoi peccati passati, le porte del paradiso per te saranno letteralmente spalancate.»
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
FINE
 
 

 
 
 


 
 


 
 "Le porte del Paradiso" (2024)

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