Racconto di Rubrus
«Ogni
storia fantastica, per non dire ogni storia, si basa sul rapporto col
potere. Le storie mediocri parlano di
chi il potere ce l’ha e lo usa, quelle migliori di chi il potere non ce l’ha,
ma lo trova dentro si sé, o lo acquista a caro prezzo, o lo perde. Per questo
“Predator”, funziona. Avete presente
l’inizio? Scwharzy e il suo gruppo di
supermacho atterranno nella giungla per salvare un pezzo grosso da un gruppo di
guerriglieri e non c’è bisogno di dire che si tratta di guerriglieri comunisti – infatti il film non lo
dice. Potrebbe essere benissimo un’altra
storia con Rambo che va a salvare i soldati americani prigionieri in Vietnam.
E, come previsto, i nostri arrivano, suonano il loro pezzo a suon bombe e mitra
e la missione pare compiuta. Solo che tutto dura un quarto d’ora scarso.
Perché, da quel punto in poi, qualcosa,
qualcosa che è peggio dei comunisti inizia a dare la caccia a Schwarzy e
compagni e gli omaccioni supertozzi, che verranno fatti fuori come i dieci
piccoli indiani di Agatha Christie, da predatori diventano prede. Il rapporto
di forze è invertito».
Il
pistolotto aveva una sua logica, ma il fatto che, a tenerlo, fosse un tale in
tenuta da guerriero alieno con tanto di treccine rasta incollate ai lati del
cranio (la maschera, con gli uncini mobili come i palpi di un granchio, era
appoggiata sul sedile) gli toglieva credibilità.
Cosa
c’era di peggio di una riunione di cosplayers?
«Ehi,
capo, quand’è che ci fermiamo per andare al gabinetto?».
Che
domanda. Una riunione di cosplayers incontinenti.
Giorgio,
consapevole che l’autostrada era deserta e, soprattutto, che non c’erano
autovelox o tutor nelle vicinanze, spinse il piede sull’acceleratore, superando
i novanta.
Erano
maledettamente in ritardo. Era tutto maledettamente in ritardo.
L’aereo
che portava i sei sciamannati alle sue spalle era atterrato un’ora dopo quella
prevista e, anche se Giorgio sospettava che fosse dipeso dalla necessità di
convincere la sicurezza che pistole a raggi, spade laser, cannoni al plasma e
altre bazzecole che quei disgraziati si portavano dietro non erano armi, la Direzione lo aveva spedito a prenderli
organizzando un trasporto speciale.
“Se
quelli non arrivano in tempo ci piantano un casino a paragone del quale “Guerre
stellari” sembrerà una partita a rubamazzo, perciò piglia il pulmino, fila a
prenderli, portali qui e non menarla con gli straordinari” gli aveva ingiunto
il boss.
Giorgio
non ci pensava affatto a menarla, anche perché non aveva diritto agli
straordinari. A trent’anni suonati aveva messo da parte la laurea in lettere e
si era preso la patente D. Gli era costata un bel po’ ma si era rivelato un
investimento utile. Quando la direzione del Cosmo Hotel (anzi: CosMOHteL, come
diceva l’insegna) aveva stabilito a chi rinnovare il contratto, il suo nome era
finito in cima alla lista. “Capace che ci torna utile, la volta che dobbiamo
organizzare un servizio navetta” doveva aver detto il boss, prima di spostare
la penna dal nome di Giorgio a quello subito sotto e cancellarlo con un bel
rigone nero.
Ed
eccolo lì, alla guida di un pulmino a nove posti, verniciato con quel colore
giallo che, nei film americani, sembra fatto apposta per attirare squilibrati
di ogni ordine e grado. Tutte le volte che passava sotto un viadotto, Giorgio
guardava in alto aspettandosi di trovare l’Ispettore Callaghan.
Non
era così che pensava di arrivare ai trent’anni. Oh, certo, un po’ di gavetta
l’aveva messa in conto, perché si sa che con la laurea in lettere non ci è mai
campato nessuno, ma aveva sperato di raggiungere, intorno ai venticinque anni –
quell’età in cui cominci a tenere il conto del
tempo perché prima, tutti gli anni sono uguali (e non si comprende
perché non dovrebbe essere così dato che, come ti bisbiglia la sirena che hai
nel cuore, sarai eternamente giovane) – un certo grado di stabilità.
E
invece non era successo. Era in ritardo. Era tutto maledettamente in ritardo.
Gli
toccava scarrozzare a notte fonda sulla E45 – un’autostrada che, si sarebbe
detto, gli americani avevano bombardato con particolare impegno e che nessuno
si era curato di riparare, peccato che, come tutte le autostrade italiane,
fosse stata costruita un bel pezzo dopo il ’45 – un’accozzaglia di cinquantenni
rimbambiti.
Cinquantenni
di potere, però.
Darth
Vader, prima che si finisse di caricare i bagagli, aveva raccolto i mandati per
un’azione contro il tour operator se questo non avesse erogato l’indennizzo per
il ritardo e non l’avesse corrisposto subito.
Dopotutto, non c’era una gran differenza tra una toga e il mantellone nero di
Annakin Skywalker e c’era da scommettere che l’amico conoscesse bene il lato
oscuro della forza.
«Allora?».
A
parlare era stato Spock che, forse perché Nimoy era morto da poco – il
vulcaniano no, si sa che campano un sacco di anni, ci teneva a precisare il tizio
con le orecchie posticce – si comportava come se gli dovesse essere
riconosciuta una sorta di superiorità morale. Nella vita, Spock faceva
l’ingegnere petrolifero. Giorgio lo aveva capito perché, poco prima, lo aveva
sentito discutere con un tale in costume da robot anni ’50 (“Robby” era il
nome: non troppo originale, ma a quell’epoca se lo potevano permettere) dei
problemi legati al fracking e di quanto si scavasse alla ricerca del
petrolio. “Avete notato come non si
parli più di esaurimento del petrolio? Anni fa era una questione all’ordine del
giorno, mentre ora non è più un problema... ed è vero. Non lo vediamo ancora,
il problema. Stiamo scavando troppo precipitosamente, troppo in fretta e troppo
in profondità. Decisamente troppo a fondo.
Non mi stupirei se destassimo il Balrog di Moria”.
A
questo punto Robby era saltato su dicendo che il Balrog era una creatura
fantasy e non era dignitoso parlarne tra appassionati di fantascienza. Spock
aveva replicato chiedendogli se, secondo lui, “Guerre Stellari” era una saga
fantasy o fantascientifica. Darth Vader era intervenuto e la discussione aveva
preso tutt’altra direzione, puntando decisamente verso la rissa.
Giorgio
si era visto in una stazione della Autostradale a spiegare che, lui, con quei
sei forsennati in costume che si erano presi a cazzotti dentro il suo pullman
non c’entrava niente, quando dalla radio era uscita la versione di “Sixteen
tons” usata dalla Petrox come jingle e Spock, con uno scatto d’ira poco
vulcaniano, gli aveva chiesto di cambiare canale.
Il
tizio con lo sciarpone e il vestito anni ’70 che voleva essere chiamato Il
Dottore (ci metteva due maiuscole, quando lo diceva, e facile che lo fosse sul
serio, probabilmente chirurgo estetico) aveva chiesto a Spock se per caso lui lavorasse per la Petrox, l’altro
aveva mugugnato un “lavoravo” e le acque si erano calmate.
Finché
non era venuto fuori il problema “pipì”.
«Siamo
già in ritardo» disse Giorgio «e non posso aumentare l’andatura più di tanto:
la strada non lo consente». Avevano oltrepassato Cesena e, in un sussulto di
dignità, la E45 aveva abbandonato la definizione di “autostrada” per assumere
quella, più dimessa, di SS3bis. Peccato che anche quella denominazione fosse
esagerata. Il tratto che stavano percorrendo, tra deviazioni, buche, lavori in
corso, avrebbe potuto essere una mulattiera con manie di grandezza. O forse, a
dare quell’impressione, erano l’assenza di veicoli in tutt’e due le direzioni e
gli Appennini incombenti, boscosi e privi di luci.
«Manca
molto all’arrivo?» chiese Robby. Liberarsi di quel costume argentato non doveva
essere facile; Giorgio non aveva visto cerniere, ma, dopotutto, non era
previsto che gli automi lo tirassero fuori, qualsiasi uso dovessero farne.
«Un
paio di uscite, e quella è la prima». Controllò l’orologio: le undici e dieci.
Era in piedi da venti ore e, una volta che avesse raggiunto il letto, neanche
un’invasione aliena sarebbe riuscita a svegliarlo. I cartelli che indicavano
l’uscita parevano venirgli incontro come supporters.
«Alzi
il volume» ordinò Predator (che, a giudicare dalla faccia, diventata verde
senza bisogno di trucco, soffriva di chinetosi). L’audio non era basso, in
realtà. Semplicemente, la ricezione era pessima dopo che Spock aveva chiesto di
cambiare canale. Giorgio smanettò fino a tornare alla stazione precedente, in
tempo per sentire le informazioni sul traffico. Le quali lo avvisavano che
l’uscita successiva, la loro, era chiusa per lavori a partire dalle undici e
trenta.
Giorgio
imprecò sterzando all’ultimo secondo. L’unica donna del gruppo, che sembrava un
campionario ambulante di protesi al silicone, strillò, e Il Dottore, seduto
accanto a lei, scivolò a metà fuori del sedile, puntellandosi con un piede.
«Ehi
cosa ti prende?» latrò Darth Vader.
«Volete
che inverta la marcia e torni indietro contromano?» Non era la risposta più
adeguata per quei gerontocrati affetti da infantilismo, ma se la sarebbero
fatta passare. Certo, se avesse superato l’uscita, Giorgio avrebbe potuto
riguadagnarla a marcia indietro, ma non era il caso. Benché non avessero
incrociato nessuno da almeno mezz’ora e la strada fosse probabilmente deserta,
l’illuminazione non era buona e, dal buio alle loro spalle, avrebbe potuto
sbucare qualunque cosa.
Qualunque cosa? E da dove gli veniva questa?
«Be’,
se si rimane sintonizzati sulla frequenza sbagliata e si è senza navigatore...»
osservò Spock.
Giorgio
lasciò perdere. Aveva altre priorità, come si rendeva conto mentre discendeva
la rampa inoltrandosi nel buio.
Tanto
per cominciare, aveva solo una sommaria idea di quale strada prendere.
«E
suppongo che arriveremo tardi alla convention» ringhiò Darth Vader. Aveva
abbassato la voce di un’ottava, neanche indossasse la maschera, e c’era da
scommettere che quello fosse il suo “tono da tribunale”.
«C’è
un paese, più avanti» li informò Giorgio. Se chiamavano “statale” quel
tratturo, lui poteva chiamare “paese” quel gruppuscolo di luci simili a lumini
da fiaba sperduti nel fitto del bosco.
«Il
cellulare non prende» comunicò Il Dottore armeggiando con un aggeggio che,
venuto da un futuro fantascientifico, lo sembrava davvero.
«Dev’essere
per via delle montagne» confermò Predator smanettando col suo. Gli altri non
ebbero maggior fortuna.
La
donna frugò nella borsetta ed estrasse un tablet. Non avrebbe potuto portare un
cellulare, addosso, non con quei vestiti: non ci sarebbe stato nulla di più
voluminoso di un pacchetto di sigarette. Da quando erano partiti Giorgio si
domandava quale fosse il personaggio al cui costume – si faceva per dire – si
era ispirata, ma non gli veniva in mente niente. Probabile che si trattasse di
qualcosa estraneo al suo bagaglio culturale (si faceva sempre per dire), o che
la quantità di pelle esposta incidesse negativamente sulle sue facoltà
mnemoniche. Tardona o non tardona, silicone o non silicone, gli istinti animali
avevano le loro esigenze e sapevano imporle.
«Niente»
si lamentò Miss Non Senso del Pudore «rifiuta persino di accendersi».
Come
li avevano convinti a comprare i primi cellulari? Ah già: “casomai foste per
strada e ci fosse un’emergenza”.
Il
paese li aveva raggiunti, ma si capiva che non sarebbe rimasto con loro per
molto, benché Giorgio avesse rallentato nella speranza di vedere un bar aperto
o una cabina telefonica.
Le
case dovevano essere poco più di una dozzina e, più che affacciarsi sulla
strada, sembravano sporgersi come tartarughe appena svegliate dal letargo. Un
paio di lampioni erano spenti senza che importasse a nessuno. Una macchina, su
una strada laterale, era parcheggiata per metà sul marciapiedi e per metà sulla
carreggiata; anche se riusciva a vederla solo con la coda dell’occhio nello
specchietto retrovisore, Giorgio avrebbe giurato che una portiera era aperta.
Più avanti, un cassonetto dell’immondizia si era rovesciato e i rifiuti erano
sparsi dappertutto. Dovette superare la mezzeria per evitarli.
«Per
la miseria, che mortorio» commentò la voce di Robby.
Il
Dottore fece per unirsi al coro, ma il jingle della Petrox lo sovrastò.
«Spegna
quell’affare!» urlò Spock. Giorgio si sporse, lieto di accontentarlo. Quella
canzonetta gli stava dando sui nervi: la mandavano in onda troppo spesso.
Quando tornò a fissare la strada, il paese era bell’e finito. Un bar, al
pianterreno dell’ultima casa, c’era, ma era chiuso. La “B” dell’insegna era
spenta e la “AR” superstite li salutava come una risata rauca.
«Colgo
un certo astio nei confronti dell’ex datore di lavoro» ridacchiò Darth Vader.
«Lei
è uno di quelli che crede di sapere sempre tutto, vero?» lo rimbeccò Spock. La
sua voce si era fatta gelida. Doveva essere uno di quei tipi che, quando
s’infuria, diventa freddo come gli iceberg che vanno alla deriva e affondano le
navi. «Sa che cos’è il petrolio?».
«Anche
io devo andare in bagno» intervenne Robby.
«Il
residuo della composizione di antichi organismi» ripose Darth Vader,
ignorandolo.
«Secondo
la tesi predominante, il materiale biologico dal quale deriva il petrolio è
costituito da organismi unicellulari marini sepolti nel sottosuolo centinaia di
milioni di anni fa, in particolare durante il paleozoico. Fitoplancton,
zooplancton, batteri. Sa che sono stati rianimati batteri vecchi di milioni di
anni? Quelli che propendono per l’origine abiotica fanno rilevare che metano e
idrocarburi sono sparsi per tutto l’Universo. Il sistema solare ne è pieno.
Tutta roba di origine sconosciuta, rimasta sottoterra per tempi
incommensurabili e sottoposta a chissà quali trasformazioni chimiche. E noi la
stiamo riportando alla luce per sete di guadagno. È come dice la canzone. Non
conosce il testo, vero?, Be’ forse dice la verità. “Ho venduto l’anima alla
compagnia mineraria”».
Darth
Vader stette un po’ in silenzio, poi scoppiò a ridere. «Questo sì che si chiama
“amore per la natura”. Una crociata ecologista in difesa dei batteri. Oh,
andiamo, siamo pratici. Sono sicuro che persino questo macinino usa carburante
“Petrox”!».
Giorgio
non disse nulla. C’era un distributore della Petrox davanti al Cosmo Hotel. Lo
avevano installato da poco, sostituendo il precedente gestore.
«Io
comunque devo andare al cesso» insistette Robby.
«Il
suo amico, qui, teme che noi si possa arrivare in ritardo e le confesso che i
suoi timori non sono del tutto infondati, perciò, se volete che accosti... ».
«Ehi,
io non posso andare in mezzo ai
campi. Sono un donna, casomai non lo aveste notato». Barbarella, ecco chi! O
meglio, colei cui si era ispirata. Non gli era venuto in mente subito perché
non era un riferimento immediato, ma il modo in cui lo aveva detto gli aveva
ricordato Vadim e, per associazione, il fumetto fanta – erotico – letterario la
cui protagonista sfoggiava mise altrettanto succinte.
«Naturalmente»
confermò Predator rompendo il suo bellicoso silenzio. «Ci sarà pure un altro
paese più avanti».
Ovvio
che sì. Doveva esserci, anche se niente, là fuori, autorizzava ad affermarlo.
Giorgio
cercava di tenere un percorso parallelo all’autostrada che stava, grosso modo,
alla sinistra, ma non era facile. La linea di cemento, sopraelevata, si
indovinava, più che vedersi e, come se non bastasse, da qualche minuto il cielo
si era fatto buio. “Era una notte buia e tempestosa” scriveva Snoopy e tutti
quanti lo prendevano in giro. Quando ti ci trovavi in mezzo, però, non c’era
niente da ridere. E non serviva neppure la tempesta.
«Quello
è un distributore» annunciò indicando la sagoma familiare di una tettoia
illuminata, simile ad un giardino pensile piantato a metà.
«Magari
è della Petrox» fece Darth Vader.
«Ah,
sono sicuro che Spock non si lamenterà» disse Predator.
«Ma
certo» convenne Il Dottore «Dobbiamo solo fare pipì, mica diventarne
azionisti».
«Piss
Stop» ridacchiò Robby. Sembrava decisamente sollevato.
«Bene,
signori, cinque minuti, non di più» disse Giorgio aprendo le portiere «siamo
già in ritardo e non vorrei peggiorare la situazione. In ogni caso, non credo
che troverete una gran fila».
«Io
non vorrei trovare chiuso» brontolò Predator.
«L’emporio,
laggiù, pare aperto» osservò Barbarella indicando un negozietto poco lontano.
Anche se non si vedeva nessuno, le luci erano accese.
«Non
mi pare una buona occasione per mettersi a fare compere, al tuo solito» disse
Il Dottore, aiutandola a scendere. Facile che si conoscessero già, concluse
Giorgio. Probabilmente lui era il suo chirurgo plastico di fiducia. «È quasi
mezzanotte».
Darth
Vader fu l’ultimo a scendere «Non saremmo in ritardo se qualcuno non si fosse
scordato di controllare le informazioni sul traffico» recriminò attraversando a
grandi passi lo spiazzo incurante del fatto che qualcuno potesse vedere un mammasantissima
di una galassia lontana lontana precipitarsi a fare pipì in un distributore di
paese.
Giorgio
soffocò un sincero “vaffanbagno” e aprì il cruscotto alla ricerca di qualche
cara, buona, vecchia cartina della zona. Alzatosi per chiuderlo, vide che
Spock, benché fosse sceso, non si era mosso.
«Sicuramente
c’è un gabinetto solo e io non ho tutta questa fretta» disse a mo’ di
spiegazione «E lei? No, suppongo di no. Lei è giovane».
«Mai
abbandonare la nave».
«Giusto.
Potrebbero approfittarne i pirati». Mise una mano in tasca, estrasse una
caramella e prese a succhiarla. «Avrei una gran voglia di fumare, anche se ho
smesso una quarantina di anni fa». Tirò fuori un accendino. Anche senza
guardarlo da vicino, Giorgio fu certo che fosse d’oro. «Lo conservo per
ricordare a me stesso che ho smesso di fare una cosa stupida» disse Spock, poi
sollevò lo sguardo verso l’insegna del distributore: un gorilla bipede che
sputava fiamme. Petrox, manco a dirlo. «Molto stupida».
«Ma
quanto ci mette?» Predator era il prossimo della fila. Avere indovinato che,
effettivamente, c’era un gabinetto solo, misto, per di più, non gli aveva dato
diritto a nessuna priorità.
«Il
nostro amico ha molta roba da svuotare sotto quel costume argentato» disse
Darth Vader, dietro di lui. Alle sue spalle, Il Dottore, malgrado lo sciarpone,
pareva rabbrividire «Io sceglierei l’opzione “innaffiare i campi”».
«Tanto
pare che siamo incollati qui. Sua moglie, a quanto pare, è a fare shopping».
L’altro
allungò la testa verso il negozietto. «Strano che sia aperto».
«Cosa
vuole che ci sia da rubare in questo posto dimenticato da Dio?» osservò Vader.
Predator
portò una mano al basso ventre, come se avesse anche lui un bel po’ di roba da
scaricare, e in fretta, e bussò alla porta del gabinetto.
Il
Dottore si diresse verso lo spazio oscuro oltre l’isola luminosa del
distributore.
Predator
bussò più forte.
«“Una
mascherata”, amico mio, sono sicuro che sta pensando questo: “Sto sprecando la
mia giovinezza a portare dei ricconi annoiati a una festa in maschera” e sa
cosa le dico? Ha ragione. Sulla festa in maschera, almeno. Queste» disse Spock
toccandosi le orecchie «Servono a illuderci ricordando i giorni in cui
pensavamo che il tempo fosse fatto di promesse meravigliose, tutte da
mantenere».
«Ho
smesso da un po’ di pensare che il futuro possa riservarmi qualcosa di
meraviglioso» rispose Giorgio scrutando la cartina «Mi accontenterei di
arrivare a destinazione prima che quel tizio col mantello nero decida di fare
causa a tutti quanti e io perda il posto». Subito si pentì di averlo detto.
Erano mascherati e lui aveva visto solo la maschera, come ci si aspettava.
Magari quel tale con le orecchie a punta non era così male. Cercò una frase cui
porre rimedio, ma l’altro lo batté sul tempo. «A proposito, vado a vedere a che
punto sono. Mi pare siano passati ben più di cinque minuti».
Giorgio
lo osservò allontanarsi attraversando lo spiazzo. Improvvisamente, gli sembrava
più vasto.
Prima
aveva notato la donna – Predator aveva ragione, c’era un servizio solo – uscire
dal bagno e andare verso l’emporio. Non era tornata, però.
Allungando
il collo, vide che Predator e Darth Vader erano ancora in fila. Il Dottore non
si vedeva. Probabilmente era dentro. E Robby? Magari era dentro anche lui. Ma
se c’erano due posti perché, prima, era entrata solo Barbarella?
Be’,
mica potevano essersi persi.
Si
sentì a disagio e, automaticamente, accese la radio.
I
was born one mornin' when the sun didn't shine[1]
Per
la miseria, ma trasmettevano solo quella canzone?.
La
spense con rabbia.
Tutta roba di origine sconosciuta,
rimasta sottoterra per tempi incommensurabili e sottoposta a chissà quali
trasformazioni chimiche. E noi la stiamo riportando alla luce.
Tornò
a concentrarsi sulla cartina. Sperò di potersene andare in fretta.
Di
andarsene subito.
“Un
uomo che va di corpo regolarmente è un uomo felice” era solito dire suo padre.
Era
stato un medico di campagna e ora, superati da un bel po’ gli anta, Il Dottore sospettava che avesse
ragione.
Certo,
non era così ingenuo da credere che i soldi dessero la felicità, ma neppure
così stupido da credere il contrario. Per questo aveva fatto il chirurgo
plastico; come diceva un altro saggio, meglio essere infelici coi soldi che
senza.
Se
la felicità aveva a che fare con le piccole cose (per esempio andare di corpo
ah, ah), avere quattrini non era di ostacolo.
Adesso,
però, e benché fosse andato di corpo, non era felice.
Doveva
essere per via della campagna. Non gli era mai piaciuta, probabilmente perché
quando suo padre andava a fare il suo giro di visite stava via sempre troppo
tempo, tanto da fargli temere che non tornasse più. Alla fine, era andata proprio così perché
(era andato in pensione, ma la mania dell’aria aperta gli era rimasta, tanto
che gli si era sviluppata una tardiva passione per il trekking) l’avevano
trovato stecchito in un fosso.
In
ogni caso, lui, Il Dottore, era un tipo di città.
Troppo
spazio, fuori, per i suoi gusti. E il cellulare che non prendeva. Lo alzò, come
un oracolo tecnologico cui chiedere soccorso. Niente. E anche agli altri
succedeva lo stesso. Mentre attendevano che sua moglie uscisse dal bagno
avevano concluso che la “copertura totale” di cui si vantavano tutte le
compagnie telefoniche, era una gran balla. Darth Vader aveva minacciato di fare
causa.
Solo
che non era solo una questione di copertura, eh no. Era evidente che non si trattava
solo di quello. Tanto per cominciare, avevano gestori diversi e nessuno
prendeva. Ma c’era dell’altro.
Chiuse
il telefonino con un gesto di stizza e tornò sui suoi passi.
Una
volta che si trovava in piscina, un tale si era tuffato dal trampolino, e l’ondata
che aveva sollevato lo aveva preso in pieno. Lui aveva in tasca il cellulare
(essenziale per annotarsi i dati di tante potenziali clienti di cui le piscine
rigurgitavano) e l’apparecchio si era inzuppato.
Il
risultato era stato simile a quello che ora vedeva sul display: uno sfarfallio
intermittente come le palpebre di un epilettico... ed era così su tutti i cellulari della comitiva. Era
come se, nell’aria, fosse diffuso qualcosa che impediva la ricezione.
Tornando
indietro incrociò Spock (preferivano chiamarsi coi nomi dei personaggi da cui
si mascheravano: era capitato di incontrare altri cosplayers nella vita reale
ed era stato imbarazzante) che si dirigeva ai gabinetti quando sentì sua moglie
che lo chiamava dall’emporio.
«Sono
almeno cinque minuti che è dentro» ringhiò Predator e, per sottolineare il
proprio disappunto, prese a scuotere la porta.
Spock
guardò alternativamente lui e Darth Vader e, per un istante, sembrò davvero un
vulcaniano alle prese con due terrestri particolarmente idioti. «E se si fosse
sentito male?».
Il
negozietto era veramente aperto. Di più: era spalancato e deserto. Da tempo.
Foglie
morte e sporcizia si erano accumulate all’ingresso insieme a fango ormai secco
e fogli di giornale spinti dalle correnti d’aria. Qualche animaletto si era
intrufolato e si era arrampicato sugli scaffali dei generi alimentari.
Confezioni di vari prodotti erano state aperte e il contenuto sparso sul
pavimento. Qua e là spiccavano piccole impronte di zampe.
La
donna fece qualche passo all’interno. Benché l’istinto le dicesse di darsela a
gambe, e in fretta, la parte più evoluta del suo cervello la costrinse a
restare. Era quella parte incapace di vedere quanto aveva davanti, la stessa
che l’aveva indotta a sottoporsi di eventi di mastoplastica, blefaroplastica,
rinoplastica, a ginnastiche sfibranti e diete da fame. La stessa parte che la
induceva a travestirsi da Barbarella, odiandosi e tuttavia non riuscendo ad
evitarlo. “Così devi diventare” le diceva sua madre, confrontando le loro
immagini, la propria e quella di lei bambina settenne con quella di Brigitte
Bardot appesa alla specchiera. Lei, ovviamente, aveva fatto l’opposto finché,
raggiunta la soglia degli anta, aveva obbedito perché a volte, nella vita, si
distrugge ciò che si ama e si diventa ciò che si odia e lei, dopotutto, odiava
sua madre o forse se stessa.
Fece
qualche passo ancora, poi si immobilizzò, rifiutandosi di credere che quello
che vedeva fosse reale.
Non
era una novità, per lei. Ce n’erano sempre, a ogni convention, anche non di
cosplayers, cui le fosse capitato di andare.
Ma
lì, sul pavimento dietro la cassa di un emporio da quattro soldi in un buco di paese
che ne valeva due, simili cose non avrebbero dovuto esistere.
Stava
osservando un frattale, del tutto identico, a parte le dimensioni e benché
sembrasse composto di un liquido dal forte puzzo di benzina, ai disegni nei
campi noti come crop circles.
Lo
fissò, incapace di distogliere lo sguardo finché non le parve di scorgere,
sulla superficie, linee gialle e marroni come quelle sulle chiazze di petrolio,
poi chiamò la persona che l’aveva aiutata, se non ad accettare se stessa, a
convivere con la versione di stessa da proporre al mondo, cioè suo marito.
Altrimenti noto come “Il Dottore”.
Predator
doveva essere davvero compreso nel suo ruolo perché insistette per entrare per
primo.
E
trovò il gabinetto vuoto.
«È
un crop circle di benzina, vero? Come possiamo chiamarlo “gasoline circle?”».
Il
Dottore si alzò di scatto.
Come
sua moglie, anche se in misura minore, era stato incuriosito, se non attratto,
dalla macchia di liquido che si trovava sul pavimento, ma, non appena si era
chinato, ogni fascinazione era svanita. Anzi, avvertiva, e con sempre maggior
insistenza, un senso di pericolo.
«No,
non è benzina. Non solo, almeno. Certo, deve essere fatto di idrocarburi, ma
c’è dell’altro. Vedi quelle particelle bianche che sembrano calcificate? Be’ ti
sembrerà assurdo, ma giurerei che si tratta di... ».
Il
cellulare nella tasca ronzò, vibrando.
Il
Dottore lo sollevò osservando lo schermo che lo fissava con luminosa, serafica,
tecnologica indifferenza.
Sua
moglie estrasse il proprio dalla borsetta e anche quello fece lo stesso, come
se nulla fosse accaduto.
«Ehi»
disse Barbarella «facciamoci un selfie!».
«È
vuoto» disse Darth Vader allungando il collo da dietro la spalla di Predator.
L’altro
si guardò intorno. Un bugigattolo di tre metri quadri al massimo, con un lavabo
e un gabinetto alla turca bisognoso di essere pulito. Un rotolo di carta
igienica, infilato in un supporto sulla parete di destra, srotolato, formava
una montagnola bianca accanto allo scarico.
«Ma
va?» fece Predator.
«Siete
certi che sia entrato?» chiese Spock da dietro.
Darth
Vader si girò verso di lui senza parlare.
«Ed
è sparito» continuò l’altro.
Predator
indicò la finestrella semiaperta, di quaranta centimetri per venti, da cui
entrava l’aria fresca della notte «Noo. Ha fatto un numero alla Houdini ed è
scappato di là».
Spock
non fece in tempo a replicare.
Un
urlo di terrore giunse dall’emporio.
Darth
Vader guardò Spock. Sul costume nero, la sua faccia sembrava diventata di
gesso.
Predator
si mosse per uscire, ma, improvvisamente, barcollò appoggiandosi allo stipite
dell’ingresso. «Andate a vedere» ansimò «io arrivo subito».
CosMOHteL.
COSplayers
Hotel.
COSMOhtel.
CosMothel.
CosmoTEL.
Una
volta i giochi di parole erano la sua specialità, per questo Giorgio aveva
sperato che lavorare all’hotel potesse piacergli. Una speranza che era durata
non più di trenta minuti.
You
load sixteen tons, what do you get?
Another
day older and deeper in debt[2]
Cancellò
gli anagrammi che aveva scarabocchiato su un bloc notes trovato nel cruscotto,
senza notare Spock e Darth Vader che attraversavano il piazzale correndo.
La
mano guantata appoggiata alla parete, Predator vide il getto misto di sangue e
urina sprofondare nella fogna.
Era
più sangue che urina, ormai, e il dolore era sempre peggio.
Come
sempre, strinse i denti per non gridare, benché nessuno potesse sentirlo.
Le
forme erano importanti. Le forme erano dignità.
Tutti
dovevano crepare, uomini e Yautja (che era il vero nome dei Predator, se mai
esistevano da qualche parte).
Tirò
l’acqua (un’altra formalità da rispettare) e una zaffata acida, che puzzava di
benzina, lo assalì. Ma con che cosa pulivano i cessi, da quelle parti?.
Se
c’era qualcosa che rimpiangeva, era il fatto di non essere mai stato preso sul
serio.
Tutti
l’avevano sempre considerato solo una massa di muscoli senza cervello, buono
per fare da testimonial a una catena di palestre – anche quando erano diventate
le sue palestre.
Muscle
and blood and skin and bones./ A mind that's a-weak and a back that's strong[3], come diceva
quella stramaledetta canzone.
E
allora tanto valeva mascherarsi da mostro alieno.
Andarsene
con dignità era l’unica cosa che contava. Che faceva la differenza tra uomo e
uomo. O tra Yautja e Yautja.
Provò
a mettersi dritto, ma le gambe lo tradirono, e dovette puntellarsi di nuovo.
Un
liquido nero sgorgò dalle profondità dello scarico, lambì gli scarponi e prese
a corroderli, salendo rapidamente lungo le gambe.
Pensò
a un’allucinazione indotta dagli antidolorifici (non era la prima, ma non erano
mai state così realistiche) e continuò a crederlo anche quando il cuoio
cominciò a sfrigolare.
Smise
solo quando la sostanza nera che puzzava di petrolio iniziò a sbranargli la
carne.
Il
negozietto era placido e deserto sotto la familiare, straniante luce del neon.
Solo
la sporcizia all’ingresso e l’incuria generale lo rendevano differente da
migliaia di altri empori delle stazioni di servizio.
E,
ovviamente, la grossa striscia nera che, sul pavimento, partiva da un punto
dietro alla cassa inoltrandosi tra le
corsie.
«Ma
cosa sta succedendo?» chiese Darth Vader, la voce cavernosa ridotta a una
specie di pigolio.
Spock
scosse la testa senza rispondere e l’altro lo superò dirigendosi verso l’interno
del negozio lungo la scia della traccia scura.
Esitando,
Spock fece un passo. Poi vide per terra il cellulare del Dottore.
Predator
era abituato al dolore e un po’ di morfina doveva essere ancora in circolo,
forse per questo era ancora cosciente quando la sostanza nera gli divorò le
ginocchia e prese a corrodergli le cosce, puntando verso l’inguine.
Improvvisamente
si rese conto che non era lo scarico del cesso la via che il tizio vestito da
Robby aveva usato per lasciare questo mondo e si ricordò che le dannate forme
erano importanti.
Afferrò
la pistola giocattolo che teneva alla cinta e premette il grilletto più volte
mentre la mostruosità oscura emetteva bagliori gialli e marroni, come se le scariche
della batteria provocassero in essa chissà quale reazione elettrochimica.
«Klaatu
Varada Niktu, figlio di buona donna!» ringhiò.
Non
era buona educazione, neanche nell’era digitale, guardare le foto altrui senza
permesso, ma Spock non seppe trattenersi dallo scorrere le immagini del Dottore
e della sua signora.
L’ultima
ritraeva Barbarella in un caschè, come una Carrà dei tempi d’oro, in modo da
poter inquadrare il pavimento.
Sorrideva
– ma non troppo, anche il lifting aveva i suoi limiti – mentre Il Dottore, al
suo fianco, il viso deformato da una smorfia di terrore, era mezzo avvolto in
una specie di cellophane nero.
Una
pellicola tenebrosa e graveolente come quella che andava addensandosi accanto
ai piedi di Spock.
Giorgio
controllò l’orologio: erano fermi da più di un quarto d’ora.
Ciò
non avrebbe impedito ai suoi passeggeri di dare a lui la colpa del
ritardo, invece che alle loro prostate malconce.
Meditò
se suonare il clacson, poi lasciò perdere: sarebbe riuscito a indispettirli
senza guadagnare un solo minuto. Tanto valeva scegliere il male minore e
rassegnarsi a perdere altro tempo.
Lo
avrebbero accusato di essere un perditempo, ma non di essere un perditempo sgarbato.
Ebbe
la sensazione che, per quanto si cercasse di indorare la pillola, il diventare
adulti si riducesse a questo: scegliere il male minore.
Chiuse
la portiera del pulmino, proteggendosi contro il senso di sconforto che (come
gli accadeva sempre più spesso) lo stringeva da ogni parte e contro l’aria
fredda della notte.
E
contro le grida che venivano dall'emporio.
Una
volta, Darth Vader aveva assistito una tizia il cui il marito aveva stabilito
una significativa relazione con una bambola gonfiabile.
L’oggetto,
con cui l’uomo era stato sorpreso in flagrante delicto, era stato
prodotto in tribunale, causando una certa impressione.
Vader
non lo avrebbe mai ammesso, e meno che mai i membri della giuria, ma
determinante nel far schizzare verso l’alto l’importo dell’assegno divorzile
era stata la circostanza che la bambola fosse nera.
Ora
aveva ce l’aveva di nuovo davanti, pronta a denunciare tutti quanti per
discriminazione sessuale e razziale.
Solo
che era viva.
Darth
Vader arretrò davanti a quella mostruosità impeciata che avanzava verso di lui
mentre brandelli di carne cadevano a terra raccogliendosi in una pozza.
Arretrò,
ma non abbastanza.
Una
mammella scoppiò come un chicco di pop corn e il viscidume colloso schizzò
colpendolo alla spalla. Risalendo lungo il collo, raggiunse il viso in meno di
tre secondi.
Mentre
gli occhi sprofondavano nelle orbite sfrigolando come uova cotte troppo in
fretta e il cervello collassava su se stesso, l’avvocato riuscì a formulare l’ultimo
pensiero cosciente: se gli avessero rovinato il costume, avrebbe fatto
causa.
Venticinque
minuti.
Forse
un colpetto di clacson, timido timido, era il caso di darlo.
Sfiorò
il disco rosso al centro del volante e la radio si accese a tutto volume.
If
you see me comin’, better step aside[4]
Balzò
in piedi, battendo la testa contro il tetto.
A
lotta men didn’t, a lotta men died[5]
Era
un contatto, che altro poteva essere?
Guardandosi
in giro, come se la risposta si trovasse là fuori, vide Spock correre
zoppicando verso il pulmino.
Per
un istante ebbe l’impressione che l’ingegnere petrolifero stesse esercitandosi
in una bizzarra corsa su una gamba sola, poi lo sentì urlare e lo vide cadere a
terra, accanto alle pompe di benzina.
Solo
a quel punto corse fuori.
Ci
vollero esattamente cinque secondi perché arrivasse a una dozzina di metri da
lui.
Quanto
bastava per vedere una specie di macchia d’inchiostro vivente risalire sui
pantaloni e avvilupparlo come se fosse un grottesco biscotto immerso in una
specie di the nero e colloso .
Vide
Spock mettere una mano in tasca, estrarre l’accendino e accenderlo.
Per
un momento i due si guardarono in faccia. Una delle orecchie finte era caduta,
mentre l’altra sporgeva in fuori come un’antenna piegata dal vento.
Poi
Spock avvicinò la fiamma al liquido nero.
La
prima volta che, da ragazzo, i suoi lo avevano portato a un ristorante
francese, Giorgio era rimasto affascinato vedendo il cuoco alle prese con le
crepes flambè.
La
fiammata fu altrettanto veloce, ma infinitamente più intensa e puzzolente.
Quando
si esaurì, ciò che rimaneva per terra era la macabra parodia, annerita e fetida,
di un essere umano.
Tuttavia,
Spock era ancora vivo.
Si
chinò su di lui, una mano sulla bocca per non vomitare, del tutto consapevole
dell’inutilità di qualunque soccorso, inorridito e tuttavia incantato.
L’altro
rantolò qualche parola, il braccio destro, con l’accendino ancora in pugno,
strinato e ritto verso l’alto in un’orrida imitazione della Statua della
Libertà, la voce alterata dalla scomparsa delle labbra, completamente
carbonizzate. «Biologia a base di idrocarburi... chimica del carbonio, ma
diversa... impulsi elettrochimici come quelli del cervello... intelligenza...».
Lo
stomacò di Giorgio si rovesciò e lui si piegò di lato per vomitare.
Quando
ebbe finito, Spock era morto.
E
due grosse macchie scure, una dai gabinetti, l’altra dall'emporio, strisciavano
verso di lui.
Per
qualche secondo ne fu affascinato, incapace di credere a quel che vedeva e notando
che una, quella di destra, procedeva più lentamente, percorsa da deboli
scariche elettriche, poi il puro, animalesco istinto di sopravvivenza ebbe il
sopravvento
Giorgio
balzò in piedi, fuggendo verso il pulmino.
Aveva
percorso metà della distanza quando il volume della radio si alzò di colpo. One fist of iron, the other of steel / If the right one don't a-get you,
then the left one will[6] risuonò per lo spiazzo come se Ernie Tennesse fosse tornato dall’Oltretomba
per un concerto improvvisato.
Le
portiere dell’autobus si chiusero di colpo, con un scatto irridente e
perentorio
Poi
la macchina, piena di benzina Petrox, si diresse verso Giorgio.
Il
ragazzo scartò sulla destra, ma la macchia più lenta gli sbarrò il percorso, le
scariche elettrice come fruste guizzanti e fameliche.
Un
lieve sfrigolio, alla sua sinistra, gli annunciò che quella più veloce aveva
iniziato a nutrirsi di Spock, cominciando dalla testa.
E
lasciando libero il braccio che reggeva l’accendino.
Senza
riflettere, se impadronì staccandolo dalla mano del morto. Le dita si ruppero
con uno schianto, disperdendo frammenti fuligginosi.
La
macchia più lenta descrisse una manovra ad arco, cercando di aggirarlo e, alle
sue spalle, il pulmino rombò, avvicinandosi.
Giorgio
raggiunse la pompa di benzina e staccò la pistola.
La
macchia veloce lasciò perdere quel che rimaneva di Spock (chissà come si
chiamava davvero, chissà come si chiamavano tutti) puntando verso di
lui, divorando i pochi metri che li separavano col rapido, inarrestabile
sciacquio di un’onda anomala.
Ebbe
la certezza che, fino a quel momento, le “cose” si erano mosse lentamente per
puro divertimento, come il gatto col topo. Le gomme del pulmino
stridettero e il motore andò su di giri.
Giorgio
schiacciò il pulsante dell’erogatore. Un getto di liquido ambrato schizzò
davanti a lui.
Alla
nitida, inequivocabile luce del neon, notò che nel fluido marroncino si
insinuavano alcune linee più scure.
Accese
l’accendino, avvicinando la fiamma azzurrina al carburante.
Le
macchie spiccarono un ultimo balzo. Il motore del pulmino ruggì.
Spock
aveva ragione: fumare accanto a un distributore era una pessima idea.
Ma
a volte si sceglieva il male minore.
L’E45
era chiusa al traffico e nessun automobilista vide l’esplosione, né udì il
fragore.
Nel
paese, poco più sotto, non si registrò alcun movimento, né segno d'interesse.
Solo
qualche animale selvatico fuggì lontano, ma erano rimasti in pochi, ormai.
Da
un pezzo avevano avvertito l’odore dei predatori in caccia.
Il
cellulare levato in alto a illuminargli la strada come una debole torcia
elettrica, Giorgio ebbe la conferma di quel che sospettava.
Le
creature sprigionavano scariche elettrochimiche ed elettromagnetiche.
Impossibile
stabilire quale ne fosse la potenza e se il fenomeno fosse volontario o
istintivo, ma certo disturbavano le comunicazioni.
Il
telefonino sfarfallò più intensamente che mai, poi si oscurò.
Lo
chiuse. Era arrivato al paese, ormai, e non gli serviva più. L’illuminazione
stradale, benché esigua, poteva bastare.
Percorse
la via principale, superando il bar.
L’immondizia
era sempre sparsa in mezzo alla strada. Puzzava di avanzata e indisturbata
decomposizione.
Controllò
il cellulare alzando allo stesso tempo lo sguardo verso i lampioni, in cerca
dello sfarfallio degli insetti alla luce dei lampioni, o di qualche pipistrello
svolazzante, ma non vide nulla.
Probabile
che gli animali, coi loro sensi più acuti, avessero percepito il pericolo prima
degli umani, e se ne fossero andati.
Si
domandò quale reazioni potessero aver avuto quelli domestici: cani gatti, o
animali da cortile – probabile che ce ne fossero, in un paese come quello:
avevano cercato di avvertire i loro padroni del pericolo, come i loro omologhi
nelle storie di fantasmi?
Magari
non ne avevano avuto il tempo. O non glie lo avevano dato.
Biologia
a base di idrocarburi... chimica del carbonio, ma diversa... impulsi
elettrochimici come quelli del cervello... intelligenza.
Il
petrolio e i suoi derivati erano dappertutto: serbatoi, depositi, plastiche,
tessuti...
Era
nella terra e nell’acqua.
Era
nell’aria.
Fumi
derivanti dalla combustione, particelle sospese che si infilavano ovunque.
Annusò
il fetore dell’esplosione, portato fin lì dal vento gentile della notte. Lo
avvertiva solo perché, in quel momento, era anormalmente intenso, ma c’era
sempre.
D’impulso,
raccolse una bottiglia e la scagliò contro una finestra.
Il
vetro andò in frantumi col fragore di una Tromba del Giudizio.
Si
guardò intorno. Nessuna reazione. Tutto spento come l’occhio di un morto, con
le palpebre pietosamente abbassate per impedire a chi rimaneva di vedere l’ultimo
orrore.
Vide
la macchina nella strada laterale, parcheggiata per metà sul marciapiedi e per
metà fuori.
Non
si era sbagliato: una portiera era aperta. Salì.
Inspirò
le tracce di petrolio nelle plastiche, nelle gomme, nei metalli.
Non
ce se ne accorgeva perché c’era sempre. Era familiare. Era dentro tutto quanto.
Era dentro di lui.
In
fondo, quel tizio aveva ragione: ogni storia fantastica, per non dire ogni
storia, parla del potere. Di chi ce l’ha e lo usa, o di chi lo perde, o di chi
non ce l’ha, ma lo scopre dentro di sé o lo acquista a caro prezzo.
Appoggiò
le dita sul meccanismo dell’accensione e ce le tenne finché il motore non si
mise in moto, poi cercò alla radio quella canzone che gli piaceva tanto e
partì.
Some people say a man is made outta'
mud
A poor man's made outta' muscle and blood
Muscle and blood and skin and bones
A mind that's a-weak and a back that's strong
You load sixteen tons, what do you get?
Another day older and deeper in debt
Saint Peter don't you call me 'cause I can't go
I owe my soul to the company store
I was born one mornin' when the sun didn't shine
I picked up my shovel and I walked to the mine
I loaded sixteen tons of number 9 coal
And the store boss said "Well, a-bless my soul"
You load sixteen tons, what do you get?
Another day older and deeper in debt
Saint Peter, don't you call me 'cause I can't go
I owe my soul to the company store
I was born one mornin', it was drizzlin' rain
Fightin' and trouble are my middle name
I was raised in the canebrake by an ol' mama lion
Cain't no-a high-toned woman make me walk the line
You load sixteen tons, what do you get?
Another day older and deeper in debt
Saint Peter, don't you call me 'cause I can't go
I owe my soul to the company store
If you see me comin', better step aside
A lotta men didn't, a lotta men died
One fist of iron, the other of steel
If the right one don't a-get you, then the left one will
You load sixteen tons, what do you get?
Another day older and deeper in debt
Saint Peter, don't you call me 'cause I can't go
I owe my soul to the company store.
A poor man's made outta' muscle and blood
Muscle and blood and skin and bones
A mind that's a-weak and a back that's strong
You load sixteen tons, what do you get?
Another day older and deeper in debt
Saint Peter don't you call me 'cause I can't go
I owe my soul to the company store
I was born one mornin' when the sun didn't shine
I picked up my shovel and I walked to the mine
I loaded sixteen tons of number 9 coal
And the store boss said "Well, a-bless my soul"
You load sixteen tons, what do you get?
Another day older and deeper in debt
Saint Peter, don't you call me 'cause I can't go
I owe my soul to the company store
I was born one mornin', it was drizzlin' rain
Fightin' and trouble are my middle name
I was raised in the canebrake by an ol' mama lion
Cain't no-a high-toned woman make me walk the line
You load sixteen tons, what do you get?
Another day older and deeper in debt
Saint Peter, don't you call me 'cause I can't go
I owe my soul to the company store
If you see me comin', better step aside
A lotta men didn't, a lotta men died
One fist of iron, the other of steel
If the right one don't a-get you, then the left one will
You load sixteen tons, what do you get?
Another day older and deeper in debt
Saint Peter, don't you call me 'cause I can't go
I owe my soul to the company store.
[1] “Sono nato una mattina che il sole non
c’era”.
[2] “Porti sedici tonnellate e cosa
guadagni?/ Ogni giorno sei più vecchio e più indebitato”
[3] “Muscoli
e sangue e pelle e ossa. / Una mente che è debole e una schiena che è forte”
[4] “Se mi vedi arrivare meglio che ti fai
da parte”
[5] “Un sacco di gente non l'ha fatto e un
sacco ne è morta”.
[6] “Un pugno di ferro, l’atro d’acciaio / se il destro non
ti stende, il sinistro lo farà”
LEGGI L'INTERO ROMANZO!
SOSTA DI MEZZANOTTE
Bello e divertente! “Blobbesco”, ma con un fluido tutt'altro che alieno; fonte di potere che diventa esso stesso potere incontrollabile sull’uomo. Così l’ho vista, nella sua pop-fantascientifica minaccia di idrocarburi senzienti. Ottima anche la caratterizzazione dei personaggi in costume e l’atmosfera.
RispondiEliminaCome dicevo, l'atmosfera pulp dell'illustrazione corrisponde in pieno a quella che anche io avevo in mente. Poi, che dire, io cerco di scrivere roba che possa divertire e se uno si diverte sono contento. Se poi scava un po' di più vuol dire che la parte puramente ludica ha svolto alla meglio il suo compito e quindi, se possibile, sono ancora più contento.
RispondiEliminaDella trilogia, questo è il racconto che, personalmente, reputo "più horror" nonostante anch'esso abbia i suoi momenti comici. La narrazione è permeata di un'aura sinistra, più degli altri, che si materializza nei nostri blob-predatori con ottima efficacia. La narrazione è perfettamente integrata dagli "intermezzi musicali" più che azzeccati. Particolarmente apprezzate le frasi sul potere e sul petrolio, messo in relazione con l'intelligenza delle creature... insomma, piaciuto molto!
RispondiEliminaTi dirò... nel costruire la trama ho usato la canzone come canovaccio: "sono nato una mattina che il sole non c'era" (sottoterra) "se mi vedi arrivare è meglio che ti togli di mezzo", "se il destro non ti stendo lo farà il sinistro" (riferito al doppio attacco delle due creature).
RispondiEliminaCiao Rub, bello questo tuo racconto. Gli riconosco diversi padri, dal già citato "Blob" a "L'invasione degli ultracorpi" passando per "Dalle fogne di Chicago", vecchio romanzo fanta-horror di Kate Wilhelm e Ted Thomas, diciamo, per brevità, che è un po' una fusione dei due noti film. Qui però ci metti anche molto di tuo, dall'idea di ciò da cui i tuoi blob derivano alla caratterizzazione dei personaggi come partecipanti a una masplayer (cosa di moda anche da noi, la più nota, credo, quella che si tiene a Lucca in autunno in occasione dell'annuale mostra del fumetto), che sulle prime mi pareva futile e invece è efficace nel dare un tono tra il malinconico e l'ironico ai personaggi. Decisamente piaciuto. Non conoscevo questo racconto, che ho visto solo oggi, ma leggo nel commento di Peppe che fa parte di una trilogia. Il resto sta qui nel sito di Fabio? Ciao.
RispondiEliminaCiao. Il racconto è stato il primo di una serie di tre - inizialmente non pensavo a una trilogia - che hanno in comune il fatto di svolgersi in una stazione di servizio (a proposito di esse e dei "non luoghi" ti rimando anche al racconto di Beppe che sta su net) e i blob. Il secondo è "Una strada, una bionda e un mucchio di soldi" e l'ho inviato solo agli amici. Il terzo invece - che mi pare tu non abbia letto - si intitola "Missione siamese". Sono collegati, ma indipendenti e l'ultimo è di circa 20.000 parole; volendo qualcosa di simile ai film a episodi di una volta. E' un tipo di formato assolutamente incompatibile sia col web (troppo lunghi) sia con la carta stampata (troppo brevi e soprattutto troppo simili a una trilogia di racconti, un tipo di libro assolutamente indigesto al pubblico, specie italiano), ma, come direbbe Clarck Gable, "francamente me ne infischio". In comune, hanno la mescolanza di registri tra il comico, il malinconico e l'inquietante (che qui predomina). La più famosa convention di cosplayers è quella di Lucca, ma ce ne sono periodicamente un po' ovunque. Lieto che ti sia piaciuto.
RispondiEliminaPenso che ne verrebbe fuori un ottimo e-book, invece, come pochi ne ho acquistati ultimamente. Io di queste tre storie, a parte la buona e sapiente dose di humor, ho trovato affascinante e superbamente resa anche la sua atmosfera alla Twilight Zone.
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