lunedì 22 febbraio 2016

Principio di non interferenza


Racconto di Rubrus


Unghia di Cervo aveva sonno.
Se ne sorprese, ma non molto. Solo una blanda curiosità.
Sto per morire assiderato – constatò – e non m'importa
Continuò a camminare: uno – due, uno – due. Non avvertiva freddo ai piedi e si chiese se già fosse iniziata la cancrena. Sapeva che, malgrado il cappuccio, macchie nere gli erano apparse sul naso e sulle guance. I morsi degli Gnoph Keh, come le chiamavano.
Era una morte misericordiosa. Bastava sdraiarsi nella neve e dormire, dormire, dorm...
Scosse la testa, imponendosi di proseguire. Non adesso, non così presto. Era in cammino da...  alzò lo sguardo verso il cielo  lattiginoso.
Hugin e Munin si erano congiunti davanti alla faccia bianca di Mjollnir il giorno in cui aveva lasciato il villaggio e, da allora, lo avevano fatto altre due volte, sicché erano passati trenta... no, trentun giorni. Poi l'Uccello della Tempesta aveva iniziato a divorare il cielo, e il giorno e la notte erano diventati un oscuro, indistinto biancore.
Si udì un'esplosione e un venerando abete alla sua sinistra si schiantò spezzandosi in due. La parte superiore rimase eretta per un istante, poi si abbatté con un tonfo attutito.
Il dito del Wendigo, pensò Unghia di Cervo, e nuovamente guardò in alto, sperando di sentire il suo urlo nel vento del nord, ma l'aria era immobile, vuota e indifferente.
Riprese a camminare. La gamba sinistra sprofondò fino al ginocchio e dovette sollevarla con la mano. Le racchette avrebbero retto un altro po', dopo... ma forse non sarebbe vissuto fino al “dopo”.  
«Nessuno si avventura nelle Valli Nevose, in questa stagione» aveva detto Salmone Danzante nell'aria fumosa della tenda. Mjollnir galleggiava piena nel cielo. Hugin la precedeva, mentre Munin ne contemplava la faccia oscura. Salmone Danzante lo aveva guardato. «Nessuno che torni a raccontarlo» si era corretto. Era stato l'ultimo essere umano che Unghia di Cervo avesse incontrato ed era stato... era stato... era stato un sacco di tempo prima.
Ma ogni anno l'inverno durava di più e la stagione calda di meno. Ogni anno le mani dei ghiacciai calavano sempre più in basso e vi rimanevano sempre più a lungo. Ogni anno la neve era più alta e più lenta a sciogliersi.
«La Prova non è fatta per sfidare i Popoli del Cielo» gli aveva detto suo padre. Sapeva che Unghia di Cervo non gli avrebbe dato ascolto. Era fiero e spavaldo e non sarebbe stato giovane se non fosse stato così. Per questo, raggiunta la maggiore età, ogni ragazzo della tribù doveva rimanere solo nella foresta per la durata di un intero Incontro, come si chiamava la congiunzione di Hugin e Munin nel cielo. Per essere fiero e spavaldo nel modo giusto. Ma Unghia di Cervo il modo giusto non lo avrebbe trovato mai. «La Prova è fatta per sfidare se stessi» aveva concluso suo padre e suoi occhi erano quelli di un uomo che urla in una valle senza eco.
Il pendio divenne più ripido e Unghia di Cervo dovette rallentare ancor di più l'andatura. Uno. Due. Uno. Due. 
Sì, ogni anno i giovani della Tribù trascorrevano un intero Incontro nella foresta. Qualcuno non tornava, ma nessuno si rifiutava di partire, anche se ogni anno era più dura. Quando Unghia di Cervo era bambino, alcuni vecchi raccontavano che, ai loro tempi, i giovani tornavano dalla Prova con interi palchi di alci a tracolla, ma poi avevano smesso. Non perché i ragazzi fossero meno valorosi, ma perché non c'erano più alci. Erano migrate a sud, come coloro che si erano uniti alle Genti delle Lunghe Navi.
Udì un rombo lontano, oltre la cima invisibile delle montagne. Annunciava la fine del periodo di calma e l'avvicinarsi di una nuova tempesta.
Sì, ogni anno i ragazzi della Tribù sostenevano la Prova, e la vincevano, ma questo aveva forse tenuto lontano il Wendigo?.
No, si disse Unghia di Cervo facendosi forza (uno – due, uno – due, ma i suoi passi erano sempre più lenti e, se si fosse voltato, avrebbe visto come le sue orme erano sempre più vicine l'una all'altra, man mano che proseguiva).
Ogni anno, il Wendigo e i Giganti di Ghiaccio, gli... (non ricordava il nome nella Lingua  Antica come se la sua mente stesse rallentando assieme alle gambe) si facevano sempre più forti e conquistavano sempre più terra, costringendo la Tribù a spingersi a sud, dove avrebbero dovuto affrontare in uno scontro sanguinoso le Genti delle Lunghe Navi.    
Forse, se un giovane abbastanza coraggioso fosse andato incontro al Wendigo e sfidando gli, gli...  
«Jotunn!» urlò Unghia di Cervo. Quello era il nome dei Giganti di Ghiaccio nell'Antica Lingua, quella di cui rimanevano solo poche parole.
«Jotunn!» ripeté, e sperò che, provocati, i Giganti mostrassero tra le giogaie i loro profili da titano.  
Un soffio di vento gelido spazzò il pendio e Unghia di Cervo sorrise, continuando a salire.
Non si erano mostrati, gli Jotunn, ma avevano dato un segno.
Se Unghia di Cervo si fosse voltato non avrebbe più visto le proprie impronte, ma solo un candore letale che si spingeva fino alla linea degli alberi, ogni anno più rada e arretrata.
Uno – due, uno – due.  Nessuno saprà quanto avanti ti sei spinto. Nessuno tranne te. Non ti basta, forse?
Forse i Giganti di Ghiaccio lo stavano osservando, sorpresi dal suo coraggio. Forse persino il Popolo del Cielo si sarebbe mosso a compassione e sarebbe intervenuto.
«Il Popolo del Cielo non si cura della Tribù, né della Gente delle Lunghe Navi, né di nessun altro. Hanno il cielo, perché dovrebbero?» aveva detto Acqua che Brilla, la sera prima che Unghia di Cervo partisse.
Il Popolo del Cielo – quello che parlava l'Antica Lingua e da cui la Tribù (e secondo alcuni tutti i popoli) discendevano – era calato in tempi remoti dalle stelle e aveva preparato la terra perché la Tribù vi abitasse. Se era così, pensò Unghia di Cervo, come poteva disinteressarsene?
Si udì un rombo, più forte ancora, e poi un altro e un altro ancora, come se i Giganti di Ghiaccio si chiamassero l'un altro, gridando dai picchi.  
I monti Oeras, nell'Antica Lingua. Se riesco a raggiungerle troverò una grotta dove aspettare che la tempesta passi. Ho dei rami e della carne secca. Se  riesco ad accendere il fuoco e a passare la notte potrò proseguire e salire fino a... fino al punto in cui non potrò più andare avanti. O finché non vedrò il Wendigo.
«È come un grosso animale che vive là e non è bello da vedere» gli aveva detto suo padre accennando ai vasti boschi a nord e si era rifiutato di aggiungere altro.
Era stato Salmone Danzante a raccontare. «La sua voce – aveva detto ai ragazzi attorno al falò, durante quella che Unghia di Cervo ricordava come l'ultima, vera estate – ha il suono di tutti i rumori della foresta: il vento, l'acqua che scorre, i versi degli animali... una volta che l'avete sentita diventate parte di lui. Vi prende per i piedi e per gli occhi. Gli occhi per il desiderio di vedere e i piedi per quello di correre. Andate così veloce che i piedi bruciano e vedete così tanto che gli occhi sanguinano. Il Wendigo vi porta con sé, e viaggiate così rapidi da non toccare il terreno, e a volte siete così in alto che i capelli sfiorano le stelle e prendono fuoco».
Turbini di neve gelata sciamarono tutt'intorno, e Unghia di Cervo raddoppiò gli sforzi.
Doveva salire, doveva andare perché...
«Perché devi andare?» gli aveva chiesto Acqua che Brilla, quella notte, e Unghia di Cervo aveva capito che era pronta a giacere con lui, anche se non era bene che due ragazzi si unissero prima che il maschio avesse superato la Prova. Allora aveva capito che, se fossero stati insieme, lui non sarebbe più partito, ma sarebbe rimasto con lei.   
«Perché devi andare?» gli aveva chiesto di nuovo e Unghia di Cervo le aveva raccontato quello che, fino a pochi istanti prima, aveva ripetuto a se stesso.
Che era necessario sfidare il Wendigo, non fuggirlo, né perpetuare antiche, inutili usanze. Che il Popolo del Cielo si interessava alla Tribù e che se lui si fosse dimostrato abbastanza coraggioso, abbastanza valoroso...
Vi prende per i piedi e per gli occhi. Gli occhi per il desiderio di vedere e i piedi per quello di correre
Si fermò e si voltò.
Alzando gli occhi e vide che, proprio sopra di lui, il cielo si era rasserenato.
Mjollnir risplendeva al centro di un cerchio perfetto di nuvole, simile ad una pupilla di ghiaccio in un occhio tenebroso. Munin e Hugin erano prossimi a congiungersi. Era quasi passato un altro Incontro.
Unghia di Cervo guardò in basso e vide le Valli Nevose rincorrersi verso l'orizzonte. In un angolo verso sud ovest, oltre la massa scura della foresta, c'era lo spicchio grigio del  Lago Vociante. Sull'altra sponda, il villaggio della Tribù.
Si chiese se Acqua che Brilla stesse guardando le onde, come a volte faceva d'estate, ma, prima che l'immagine nella sua mente prendesse una forma più definita, un'altra folata, scesa da chissà dove, gli strappò il cappuccio dal volto.
Vi prende per i piedi e per gli occhi. Gli occhi per il desiderio di vedere e i piedi per quello di correre pensò Unghia di Cervo e capì che il Wendigo lo aveva chiamato molto, molto tempo prima, quando era ancora un bambino.
Si riaggiustò il cappuccio e prese a salire.
Per questo suo padre, quando era partito non lo aveva trattenuto. Aveva visto come fissava la foresta. Come ne ascoltava il richiamo.
Proprio come ora.
La stessa brama di andare là dove nessuno era mai giunto prima, di vedere tutto quello che c’era da vedere, di correre ogni sentiero...
Era quel desiderio ad averlo spinto fin lì. Solo ora lo comprendeva. Non aveva senso andare a cercare il Wendigo. Era sempre stato accanto a lui,  sin dal principio.
Il pendio si fece ancora più ripido e i passi di Unghia di Cervo più brevi, più lenti. Ma non si fermarono. 
La tempesta, come se quell'occhio nel cielo si fosse richiuso, riacquistò forza e il mondo ritornò ad essere un turbine di candidi aghi gelati.
Le orecchie presero a ronzargli e, sotto, gli parve di udire (tutti i rumori della foresta: il vento, l'acqua che scorre, i versi degli animali...) molte voci che erano una e nessuna e che venivano dalla sua testa e da fuori.
La Prova non è fatta per sfidare i Popoli del Cielo, la Prova è fatta per sfidare se stessi, ma lui era il fiume che gelando graffia le sponde, il respiro dell’orso immerso nel letargo, la neve che afferra i rumori e li sotterra, il (Lui vi porta con sé, e viaggiate così rapidi da non toccare il terreno, e a volte siete così in alto che i capelli sfiorano le stelle e prendono fuoco).
Cercò di alzare il capo, pensando di vedere il Wendigo che correva saltando da una cima della montagna all’altra, ma non vi riuscì. Solo, di nuovo, udì quell’urlo nel vento che era/non era la sua/non sua voce.     
Il sonno lo colse di nuovo.
Non gli importava più dimostrare quanto fosse valoroso, né di Acqua che Brilla, né di ciò che sarebbe successo alla sua gente.
Contava solo dormire e nel sonno udire la canzone del Wendigo e cantare con lui.  


Fu il gocciolio sul viso a svegliare Unghia di Cervo.
Quello e il crepitio del fuoco nella caverna.
Caverna?
Ricordava di essere caduto nella neve. Ne rammentava l’abbraccio, insospettatamente caldo, e come lo avesse avvolto, quasi facendogli posto.
Forse aveva camminato inconsciamente fino a raggiungere la grotta, tuttavia...
Si alzò in piedi e quella che doveva essere una coperta gli cadde di dosso.
La raccolse. Era di un blu uniforme, perfetto, sottile come un velo nuziale e più calda di una pelle di foca.
Non era sua, né di nessun altro. 
Nessuno tesseva pelli così.
La lasciò cadere e si accorse che il fuoco non veniva da un falò, ma da un cilindro costruito con qualche strano metallo.
Avanzò verso l’ingresso della grotta. La tempesta era cessata e il chiarore dell’alba filtrava dall’apertura.
Stando rasente alla parete sbirciò fuori.
La figura ritta poco lontano non era il Wendigo.
Non era neppure uno Jotunn, né uno Gnoph Keh, né qualcuno della Tribù o delle Genti delle Lunghe Navi.
Aveva l’aspetto di una donna, ma la sua pelle era scura come la corteccia degli abeti.
Non poteva che essere...
Prima che il pensiero prendesse forma nella mente di Unghia di Cervo, la donna alzò un braccio.
Ci fu una specie di lampo e la figura scomparve come se non fosse mai esistita.   
Unghia di Cervo uscì all’aperto, sbattendo le palpebre nel chiarore dell’alba, amplificato dalla neve.
L’aria gelida lo sferzò rabbiosa, cancellando ogni residuo di irrealtà.
La neve era reale, il freddo era reale. Lo erano i monti Oeras alle sue spalle, con le cime congelate nella loro corsa verso il cielo. Riconobbe la punta di quella chiamata Ago d’Osso, più a est di quanto avesse pensato.
Si voltò e, di corsa, tornò dentro.
La coperta era dove l’aveva lasciata cadere.
Anche quella era reale.
E anche i Popoli del Cielo.
Corse fuori di nuovo. Sopra di lui si stendeva solo uno spicchio di azzurro intenso. Un gruppo di stelle resisteva in un angolo, come una carovana in cammino verso occidente. Il silenzio era assoluto.
Si udì uno schianto.
Veniva da molto più in basso, poco sopra la foresta. Probabilmente un altro abete si era spaccato per il freddo.
Dicevano che era il Wendigo a romperli. Gli bastava sfiorarli con un solo, invisibile dito, e anche i più robusti si spezzavano come pagliuzze.
Stette in ascolto, temendo di udire il suo urlo nel vento, o nel cuore, o in tutte e due, ma sentì solo il suono della quiete nella sua mente.
Coprendosi gli occhi con una mano cercò il villaggio. Lo indovinò, più che vederlo, in fondo alla pianura, dietro lo scintillio del Lago Vociante.
Nessuno era mai andato così lontano. Nessuno che fosse tornato indietro a raccontarlo.
E non era detto che lui tornasse.
Aveva poco cibo, e c’era da scommettere che l’ultima tormenta avrebbe reso la caccia ancora più difficile. E ci sarebbero state altre tempeste, prima di arrivare al villaggio.
Unghia di Cervo non si faceva illusioni.
Non si era guadagnato il rispetto del Wendigo. Gli uomini erano semplicemente troppo insignificanti perché lui se ne curasse, mentre saltava dalla foresta al cielo, afferrando le stelle più basse. 
Il Popolo del Cielo non si cura della Tribù, né della Gente delle Lunghe Navi, né di nessun altro aveva detto Acqua che Brilla.
Ma si sbagliava. Qualche volta succedeva, anche se era impossibile dire quando e perché.
Unghia di Cervo pensò che fosse il caso di tornare a dirglielo. Di più. Che fosse l’unica cosa sensata da fare.
La Prova è fatta per sfidare se stessi.
A passi lenti, metodici, Unghia di Cervo si avviò verso casa.

 
«Abbiamo letto il suo rapporto, dottoressa Andry»
«Thor si sta deterraformando».
La donna guardò l’ologramma del pianeta che fluttuava a mezz’aria tra lei e la Commissione per la Sorveglianza Planetaria.
Un terzo del globo era coperto da una coltre di neve e ghiaccio protesa verso sud. Lunghe strie candide, simili ad artigli, si allungavano sulla cima delle montagne e le tenevano strette. Presto l’intero pianeta avrebbe avuto l’aspetto di Mjollnir, la luna ghiacciata che gli ruotava intorno coi due piccoli asteroidi, Hugin e Munin, a farle da corteo. 
«Esiste la possibilità che...» chiese il Presidente della Commissione.
«Si dovrebbe incrementare l’effetto serra».
«Ma i nativi non posseggono la tecnologia adeguata».
Dana Andry scosse la testa. «Al momento dell’ultimo contatto, subito dopo la colonizzazione, tutto sembrava procedere come previsto. Le forme di vita introdotte, sia pure con le adeguate modifiche genetiche, si erano adattate, poi deve essere successo... qualcosa».
«Ed è escluso che...».
«Hanno dimenticato tutto. Esiste solo una memoria mitica. Qualcosa a proposito dei “Popoli del Cielo”».
«I popoli del cielo?» chiese il Terzo Giudice.
«La lingua si è perduta. Rimangono alcune parole. Toponimi, per lo più. Noi veniamo chiamati così. Una specie di mito delle origini. I leggendari antenati, o dei, che hanno consegnato loro la terra in cui vivono».
Il Presidente fece ruotare l’ologramma, Era come rigirare una palla di neve sporca. «Ancora per poco, a quanto pare. E come spiegano il progredire dei ghiacci?».
«Un altro mito. Il... » alzò le spalle «Wendigo. Le tradizioni si sono mescolate».
Il Terzo Giudice sbuffò «Leggende che sopravvivono e scienza che svanisce».
«Tremila anni sono tanti. Per noi, qui, ne è passata solo una cinquantina dall’ultimo passaggio, ma laggiù è diverso. Il tempo è relativo». Dana Andry si morse la lingua. Non avrebbe dovuto dirlo: era un’ovvietà. Il Presidente della Commissione aggrottò le ciglia. «Lei si rende conto delle conseguenze che dobbiamo trarre dalla sua relazione». 
La donna annuì.
«Il che – aggiunse il Presidente – ci porta all’altra questione».
La fronte dell’uomo rimase corrugata. Non era per l’uscita infelice sulla relatività, comprese Dana. 
Be’, tanto valeva affrontare la questione.
«Lei conosce il Principio di Non Interferenza?» domandò il Relatore. In teoria era lui a dover leggere la relazione. Gli altri, nell’esprimere le loro valutazioni,  avrebbero dovuto basarsi sul suo riassunto. Fino a quel momento, però, il Relatore era stato zitto. 
«Gli umani che hanno scelto di vivere sui pianeti devono essere lasciati liberi di perseguire il loro modello di sviluppo, quali che ne siano le conseguenze» recitò Dana.
«E perché?».
«L’umanità ha distrutto il settantacinque per cento degli ecosistemi planetari con cui è entrata in contatto» proseguì. Non era esattamente il suo pensiero. Secondo Dana, l’umanità aveva distrutto tutti gli ecosistemi planetari con cui era entrata in contatto. Che cos’altro era la terraformazione  se non l’annichilimento di un pianeta per consentirne la trasformazione in un altro, del tutto diverso?. Tuttavia, tenne la riflessione per sé. 
«Precisamente» annuì il Relatore.
«Ritiene ci siano stati degli errori nel processo di terraformazione?» chiese il Terzo Giudice.
«È possibile».
«Solo possibile? Non “probabile?”».
Se lo avessi ritenuto “probabile” avrei dovuto indicare il grado di probabilità – pensò – Di più. Avrei dovuto indicare la possibile causa della de-terraformazione, ma non ci sarei riuscita. E voi mi avreste fatto a pezzi.  
«Ritiene possibili cause esterne?»  intervenne il Presidente.
Dana esitò «No».
«Allora non possiamo intervenire – sbuffò di nuovo il Terzo Giudice – dobbiamo lasciarli liberi di seguire il loro modello di sviluppo, quale che sia».
«Lei ritiene che aver salvato quel particolare individuo possa influire sul corso degli eventi?» incalzò il Relatore.
Dana indicò una zona scura nell’emisfero sud del pianeta «L’area di Surtr manifesta un’intesa attività vulcanica e orogenetica. Quella zona, benché isolata, è libera dai ghiacci. Se, come ritengo, il processo di fusione proseguirà col ritmo che ha tenuto finora, è possibile che la glaciazione regredisca. È quanto potrebbe essere successo sulla Terra durante il periodo “Palla di Neve”. Dal punto di vista geologico, è un processo straordinariamente breve: pochissime migliaia di anni. Se un gruppo di individui riuscisse a sopravvivere abbastanza a lungo...».
«Ma il soggetto che lei ha salvato e il suo popolo si trovano nell’emisfero nord. Crede che possano raggiungere l’area di Surtr, insediarvisi e resistere fino alla fine della glaciazione?».
Dana sospirò «È improbabile».
«È possibile che, grazie all’individuo che lei ha salvato, sopravviva un numero di soggetti sufficiente a perpetuare la specie umana su Thor?».
Dana spostò lo sguardo dall’ologramma ai membri della commissione «Non lo so».
«Dottoressa Dana Andry» riprese il Relatore «Lei crede possibile che quel soggetto sopravviva?».
Dana non rispose. Il Relatore si allungò sulla sedia all’indietro. Il Terzo Giudice sbuffò.
«Dana» chiese il Presidente. Aveva abbassato la voce e si era sporto in avanti, la punta delle dita unite «perché ha salvato quell’uomo?».
«Una sensazione» disse Cal.
«Almeno ci sono andata di mezzo solo io» rispose Dana.
«Tre mesi di sospensione senza stipendio. Il vecchio ha avuto la mano leggera. “Ho agito di mia esclusiva iniziativa, senza coinvolgere la squadra”. Mi domando come l’abbiano bevuta. Se l’hanno bevuta».
«È andata così, ecco come l’hanno bevuta»
«Suvvia... sapevamo che cosa volevi fare e non siamo intervenuti... non c’è una gran differenza. Per la miseria, secondo il Principio di non Interferenza, un popolo così primitivo dovrebbe ignorare persino la nostra esistenza».
«Non credo mi abbia visto. E comunque il Programma di Sorveglianza Planetaria proseguirà».
«Non so fino a quando» Cal si avvicinò a un oblò. Lui e Dana abitavano in uno degli alloggi esterni perché costavano poco. «I pianeti interessano sempre meno e i fondi scarseggiano sempre più. Dopo aver distrutto decine di ecosistemi naturali, la maggioranza ha deciso che è meglio vivere in quelli artificiali. Forse hanno ragione loro. Mi riesce difficile credere che l’umanità sia composta da settecentoquaranta miliardi di deficienti».
Dana gli si accostò, appoggiandogli una mano sulla spalla. Come lei, Cal pensava che la smania di conoscenza, da parte dell’uomo, fosse pari solo alla sua smania di distruzione. Per millenni i terrestri avevano scandagliato lo spazio in cerca di pianeti dove collocare l’ineliminabile surplus di popolazione. Col passare del tempo, coloro che si stabilivano sui corpi terraformati erano sempre di meno e coloro che rimanevano a bordo delle astronavi sempre di più.
La donna osservò i grandi corpi toroidali abitativi che ruotavano attorno all’asse centrale.
La scelta di vivere sulle astronavi aveva eliminato i costi della terraformazione. Non era il caso di spendere quadrilioni di crediti per pochi milioni di romantici che preferivano vivere su una terra vera invece che virtuale, quando era impossibile cogliere la differenza tra le due. Inoltre, anche i costi ambientali erano ridotti. Certo, il consumo di materie prime non era diminuito, ma le miniere si trovavano su corpi dove la vita non si sarebbe sviluppata mai, e considerare l’Universo un ecosistema quando più del 99% dei pianeti era abiotico...
«Una sensazione...»  ripeté Cal.
«È difficile da definire».
Cal sorrise. «Credo sia semplice empatia verso un essere umano in pericolo». Le carezzò una guancia. «Umanità». Guardò Thor rimpicciolire. Ora sembrava più che mai una palla di neve sporca. «E va bene così».
Dana gli strinse la mano. «Umanità» ripeté.
Ma non è solo quello – pensò Dana – E ho torto. Non è difficile da definire: è impossibile. Non qui,  su questo guscio di lumaca con cui vagabondiamo nello spazio. Qui è tutto sotto controllo. Tutto controllabile, proporzionato. Ma laggiù è diverso.  Laggiù sei solo e sperduto in un mondo che non è fatto per te e che solo per fortuna, finora, ti ha ignorato. Ma la fortuna è finita. Quella voce nel vento...
Dana rabbrividì e si allontanò dall’oblò.
Dal gelido, indifferente, infinito nero del cosmo.














N.d.r  Questo scambio di commenti sul testo è avvenuto prima della realizzazione dell'illustrazione iniziale e ne ha influenzato, ovviamente, la presenza di alcuni dettagli.


14/02/2016
YOHV:

Molto buono. Se è vero che Dio fece l’uomo a sua immagine e somiglianza, quel dio potremmo benissimo essere anche noi all’ apice della nostra evoluzione scientifica, tecnologica  e di viaggiatori del tempo; magari intenti a colonizzare o terraformare mondi, come in questo caso (e ciò rimanda anche alle nostre ultime considerazioni in tema di ufo e misteri vari legati al futuro dell’uomo e dell’universo).
Curioso il fatto, ma magari è solo una mia associazione d’idee, che la donna appare nera o comunque scura quando decide d’intervenire in quella realtà, come l’altro tuo viaggiatore/punitore  interdimensionale Strangomanni del romanzo "Dark Summer" ( l’unico rimando che sono riuscito a cogliere è quello al Wendingo, ma sicuramente ce ne sono altri legati alla mitologia nordica, visto il nome che hai voluto dare al pianeta, che possono spiegare anche questo aspetto).




14/02/2016
Rubrus:
Ciao. Lieto che ti sia piaciuto. 
La spiegazione del colore della donna è molto semplice, in realtà: dato che già adesso le popolazioni di pelle scura crescono di numero più velocemente di quelle di pelle chiara, è opinione condivisa che, in futuro, la "razza bianca" si estinguerà.
Il racconto è costruito un po' come una proporzione, e in questo hai pienamente ragione. 
I "popoli del cielo" (personalmente sono convinto che il nostro destino, se esiste, non possa che essere fuori dalla Terra, in questo sono asimoviano) stanno ai thoriani come X sta ai "popoli del cielo".   
Io insisto molto sulla X su cui non mi esprimo. Osservo che l'opzione "soprannaturale" cui si affida Unghia di Cervo, benché frutto di un fraintendimento, dà al mondo, e alla sua stessa salvezza, un ordine e un senso. Viceversa, all'astronauta, cui la conoscenza preclude tale inganno o autoinganno, si trova, alla fine, a fronteggiare il gelido, infinito, nero, ostile vuoto dello spazio (e comunque la sua carriera è compromessa).
Ciao e a presto.       



2 commenti:

  1. Bel racconto. Molto suggestivo il rapporto con la natura, quella sorta di timor panico che sconfina nell'arcano, e che si prova in ambienti selvaggi, anche da noi. La situazione è bel motivata dal punto di vista fantascientifico, però secondo me sarebbe stato meglio abbreviare un po' le spiegazioni sul finale, per lasciar aleggiare le emozioni prodotte dalla storia.

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  2. Grazie. E' un po' lungo, ma l'idea era di fare due parti "bilanciate" in cui la seconda smentisse la prima o ne fornisse una lettura affatto diversa. Ti ringrazio, ciao.

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