domenica 24 aprile 2022

Le bizzaree cronache di Allport -Il Pezzo di Merda-

 


Racconto di 90Peppe90


Era stata la cagata più soddisfacente che Lewis si faceva da un anno a quella parte.
Dannazione, a dirla tutta, era stata la cagata più soddisfacente di tutta la sua vita.
Tirò un sospiro di sollievo, si passò una mano tra i radi capelli brizzolati e si risistemò gli occhiali in cima al naso, pigiando i polpastrelli sulle lenti. Respirava ansando, a un ritmo elevato, ingollando l’aria a grossi bocconi. Nonostante il puzzo di feci, diamine, era l’aria più buona che avesse mai respirato. L’assaporò.
Il telefono vibrò. Lewis lo recuperò dal bidè accanto e lesse il messaggio. Era Jenna. Ma quanto ci metti?, gli chiedeva; la domanda era corredata da una emoji ammiccante. Parole ed emoticon erano la didascalia in calce alla foto della robusta tetta di Jenna. Il capezzolo turgido era strizzato dalle dita della mano sinistra.
Il timer scadde, e fotografia e messaggio sparirono in uno sbuffo.
Arrivo arrivo, digitò Lewis, che già avvertiva il pene drizzarsi fino a sfiorare il bordo interno della tazza. Jenna era un vero animale, dannazione. Lo faceva impazzire.
Fu sul punto di mandarle la foto del cazzo, di ricordarle l’effetto che gli faceva, ma poi, trascorsi venti secondi, anche il suo messaggio svanì dalla chat Telegram. Poco male. Giusto il tempo di godersi quel crescente rilassamento generale in seguito alla cagata…
Plo-plop.
Una parte della merda, inizialmente rimasta appiccicata sulla superficie di ceramica, doveva essere scivolata a raggiungere il resto della sfornata. Fu un suono confortevole. Se il sollievo avesse avuto un suono, sarebbe sicuramente stato quello lì: la sua cacca che affondava nell’acquetta in fondo al cesso.
«Dio…», gemette, un lieve sorriso affiorato in volto, a un punto di mezzo tra la beatitudine e l’estasi. «Roba da pazzi, la vita», commentò, in un sussurro – e, per lui, non era una novità quella di dar voce ai propri pensieri, tra sé e sé, nell’intimità del gabinetto: soprattutto nel corso degli ultimi due anni, il bagno era stato il suo santuario, la sua sfera d’inviolabilità, sebbene fosse stato anche croce e non solo delizia. «Ho quella porca, di sopra, nell’altra stanza, pronta a sbranarmi… e però sono molto più contento di aver cagato.»
Signorsì. Per un anno buono, andare al bagno, per Lewis Cawald, non era stato solo sinonimo di staccare la spina, di rifugiarsi in un atomo di esistenza in cui essere sé stesso, in cui dismettere quella maschera affranta e contrita, ma anche motivo di sofferenza, che indossava in pubblico. La stitichezza lo aveva tenuto in ostaggio, il suo stomaco non ne voleva sapere, di collaborare, e a volte doveva sforzarsi tanto da farsi scoppiare le vene del collo e farsi uscire tre ernie dalla schiena. Per cacciare fuori, alla fine dei conti, tre palline di Nesquik…
Ma ora, oh sì, ora…
Plop…
Un ultimo pezzetto doveva essersi staccato dal gabinetto. Lemme lemme, finalmente, anche lui si era convinto a immergersi insieme ai suoi amichetti. Ora si sarebbero rilassati, belli tranquilli, a galleggiare pacatamente, prima che Lewis li avesse mandati giù per le spettacolari ripide del Fognapark.
Si deterse il sudore appiccicoso dalla fronte. Faceva un caldo della miseria. Niente di nuovo, per Allport, specie considerano che era metà giugno. E il peggio doveva ancora venire. Ma andava bene così. L’intestino di Lewis pareva essersi rimesso a posto, e perciò lui avrebbe benissimo potuto sopportare pure il caldo dell’Inferno, ora come ora. Niente più poteva preoccuparlo. Il mondo stava tornando a girare nel modo giusto.
Il telefono vibrò di nuovo. Non lo usava con una simile frequenza da… da quando si erano accordati. Da quando lui e Jenna si erano messi d’accordo. Lewis aveva messo le cose in chiaro sin da subito. Se c’era da farlo, se davvero erano animati dalla volontà di andare fino in fondo, ci volevano pazienza e disciplina. Pazienza e disciplina ferree. Il telefono avrebbero dovuto dimenticarselo. Se non per scambiarsi comunicazioni che rientravano nel ruolo interpretato dalla maschera indossata in quei lunghissimi diciotto mesi. Messaggi affranti e contriti. Disperati. Allarmati.
La faccenda, ora, si era raffreddata. Lewis pensava che, per quanto gli inquirenti potessero dichiarare pubblicamente l’esatto opposto, la polizia aveva smesso di indagare. Non avevano niente, in pugno, e mai ne avrebbero avuto. Seppure avessero anche solo potuto ipotizzare un legame extraconiugale tra lui e Jenna, loro due non avevano mai fornito nessun indizio al riguardo, niente di niente. Per un anno e mezzo, lui e Jenna non erano stati altro che buoni amici, gli stessi buoni amici di sempre. Preoccupati, distrutti, smarriti… ma nient’altro che buoni amici. E lo sapevano gli sbirri, lo sapevano i giornalisti, lo sapevano i milioni di telespettatori allportiani che avevano assistito allo show gentilmente offerto da quelle maschere immortalate su riviste, social network e TV. Buoni amici, uniti nel dolore, gravati dall’angoscia. D’altronde, Jenna era pur sempre la moglie del migliore amico di Lewis, e Lewis era pur sempre il padrino dei due marmocchi…
Un sonoro peto schizzò fuori dalle chiappe di Lewis Cawald. E, ancora una volta, l’uomo assiso sul water dovette ammettere di aver goduto più per questo – per i prodotti di scarto evacuati dal suo corpo – che per Jenna. Nonostante il nuovo messaggio, che a breve sarebbe evaporato nei nebulosi server di Internet, in cui Jenna si sollecitava le labbra fradice della vagina con uno dei sigari scadenti che suo marito aveva usato collezionare per un breve periodo.
Un secondo peto, più discreto ma decisamente più puzzolente del primo, si aggiunse alla composizione sinfonica. Lewis sorrise, tronfio, e scalciò via i bermuda jeans. Scalciò via pure le mutande. Sarebbe tornato da Jenna completamente nudo. E avrebbero scopato tanto forte che probabilmente li avrebbe sentiti godere e grufolare anche il Pezzo di Merda.
E, siccome, come ben si sa, non c’è due senza tre, ecco che Lewis ne sganciò un altro. Il nuovo arrivato risuonò garrulo e breve nel silenzio del bagno. «Questo è per te, amico», mormorò. «Alla tua memoria.»
Lewis allungò la mano verso destra e strappò distrattamente della carta igienica, mentre con la sinistra, impacciato, rispondeva a Jenna: Me lo stai facendo scoppiare ma andiamoci piano coi messaggi.
Dai Lew ormai basta, rispose subito lei, impetuosa. Vieni qui e fammelo scoppiare nel culo. Mi interessa solo questo e nient’altro ok? Se davvero ci hanno in qualche modo sorvegliato le conversazioni ora sicuro non lo fanno più ficcatelo in testa.
L’assunto di Jenna era plausibile. Anzi, assolutamente ragionevole. Ma con quegli aggeggi non si poteva mai sapere. Erano infidi. Lewis non avrebbe mai dimenticato com’era stato licenziato dall’azienda per quella foto che aveva scattato e postato da ubriaco. L’aveva cancellata. Aveva aperto il fottutissimo Facebook per cancellarla e lo aveva fatto. Eppure, in qualche modo, quella foto era rimasta a galla…
Già, a galla. A galla come gli stronzi.
Lewis si sporse appena in avanti, scostandosi di lato e portando la carta igienica dietro, il membro duro e turgido, che iniziava già a lubrificarsi e sbrodolare, e frattanto le dita arrancavano sul display del telefono: Okay ma tanto sono qui e adesso arrivo. Se non è necessario evitiamo messaggi e chiamate quando è possibile dai. Ti amo. Arrivo.
Non aspettò la replica di Jenna; preferiva sentirgliela spiccicare dalle sue stesse labbra. Da quelle labbra sulle quali avrebbe appiccicato le sue. Quelle labbra che avrebbe succhiato, morso, leccato, come aveva sempre desiderato fare, come aveva iniziato a fare prima ancora che il Pezzo di Merda avesse iniziato a sospettare… prima ancora che il Pezzo di Merda avesse accennato a volerne parlare con Norma. Lui, proprio lui, il Pezzo di Merda in persona. Lui, che era sempre, perennemente impegnato in ufficio, oberato di lavoro, a fare gli straordinari in azienda. Lui… che, anziché affrontare la cosa e parlarne con Jenna, con quel gran bel pezzo di donna che gli si era concessa, la lasciava a marcire in casa mentre andava a svolazzare intorno a quella anonima puttanella che si celava sotto i nomi in codice “lavoro”, “straordinari” e “turni di notte”…
Plo-plop.
«Uh, devo averne fatta mezza tonnellata, Gesù Cristo!»
Lewis, anziché gettare la carta igienica usata dritta nel cestino, se la parò davanti agli occhi e la contemplò con sommo compiacimento. Al pari di una vittima della sindrome di Stendhal dinnanzi a un’opera d’arte moderna. Sì, proprio un’opera d’arte moderna, un ritratto merda su cellulosa. «Tale e quale, amico mio, tale e quale», commentò, ringalluzzito all’idea che finalmente quel dannato anno e mezzo era passato e che la polizia di Allport avesse ben altre gatte da pelare – ché tanto, in quella cazzo di città, la gente che spariva era prassi quotidiana. «Non sarò mai stato bravo come te in niente. Ma dobbiamo dirci la verità: questo tuo ritratto te l’ho fatto proprio preciso a te.»
Lewis starnazzò una mezza risata, buttò la carta sporca, e iniziò a far scorrere l’acqua dal rubinetto del bidet. Anche quel suono fu piacevole: preannunciava che, a breve, Lewis avrebbe finito. Il suo culo peloso sarebbe stato bello pulito e lui avrebbe potuto fiondarsi a capofitto su Jenna. Non avrebbero chiuso occhio un solo istante, quella notte. Non dopo tutto quel tempo. Non dopo tutta quella astinenza. Non dopo tutto quello che avevano dovuto passare per coronare il loro legame.
«Ma il duro lavoro ripaga. Il duro lavoro ripaga sempre. Il duro lavoro, ma quello vero, eh. Non quello che usavi da copertura mentre facevi le corna a Jenna», borbottò Lewis. Era in vena di sfogarsi. Di sfogare tutta la tensione e l’ansia che era andato accumulando nel corso dell’ultimo anno abbondante. Ora non solo poteva stare con Jenna, ma poteva pure cagare, e farlo senza il benché minimo, maledettissimo sforzo. «Già, Pezzo di Merda. Dormo con tua moglie e cago nel tuo cesso. Mi hai sentito? Dormo con tua moglie e cago nel tuo cesso.» Chiuse il getto del bidet e si preparò a compiere il balzo da una tazza all’altra. «E ci scommetto, che mi hai sentito, dato che qui sopra ci sei crepato.»
Plop… Plo-plop… Swush!
Fu l’ultima cosa che Lewis Cawald sentì in vita sua.
 
«Uffa, mi sono rotta il cazzo…», sbuffò Jenna Davin.
Si infilò la maglia scolorita degli Allport Whiteheads e si tirò su dal letto. Andò al comodino, prese il pacchetto di sigarette e se ne accese una. Dopo la prima boccata, abbassò lo sguardo alle piastrelle su cui poggiavano i suoi piedi nudi. Come se quello – fissare il pavimento – potesse bastare a richiamare Lewis dal cesso. Tirò fuori il fumo in una soffiata un po’ nervosa e un po’ impaziente.
Sapeva dei problemini di Lew. Durante l’eterno periodo delle indagini, delle interviste, degli appelli, dei pianti e di tutto il resto di quella necessaria messinscena, non si erano visti né sentiti – o, almeno, non da soli. Le aveva riferito della stitichezza in una di quelle occasioni che, di quando in quando, erano riusciti a ritagliarsi insieme; per esempio quando c’era da confrontarsi col detective in centrale o da rivolgere un’accorata invocazione d’aiuto, nel corso di una delle conferenze stampa organizzate, affinché chiunque avesse visto qualcuno corrispondente alle foto si facesse avanti, lei e Lew erano riusciti a ritagliarsi qualche minuto isolati dal resto del mondo. Con la scusa di una sigaretta, magari.
Jenna scrutò le braci ardenti di nicotina all’estremità del morbido bastoncino bianco e arancio che reggeva tra indice e medio. Le Walkers erano le preferite di Lewis. Lei ne aveva sentito il sapore sin dalla prima volta che lo aveva baciato. Ne aveva sentito l’aroma, sparso nella cucina di Norma, quella volta che – pazzo d’eccitazione – lui le aveva alzato su la gonna, tirato giù gli slip e slinguazzato la passera mentre, al di là della penisola, la piccola di Norma e Lewis osservava meravigliata la torta scadente che stava lievitando in forno. E la prima volta che avevano fatto l’amore, poi, l’aria dello stanzino era stata pregna dell’odore pungente di Walkers.
Si vide riflessa sul vetro della finestra spalancata che dava sul nulla cosmico che circondava la periferia di Allport, dove la città iniziava a essere campagna, e la campagna si estendeva per una infinità di ettari… ettari in cui trovare un cadavere seppellito era più difficile del recuperare il proverbiale ago nel pagliaio. Figurarsi, tra l’altro, se gli sbirri del dipartimento allportiano avevano tutto quell’interesse nel farlo. Se l’APD avesse investito davvero le proprie risorse per ogni persona scomparsa in quella fottuta città, l’amministrazione sarebbe stata perennemente in rosso, costretta a elemosinare davanti alle chiese e alle fermate della metro. E uno sbirro non corrotto… be’, ecco un’altra cosa difficile da trovare, a Allport, forse anche più di un cadavere nelle campagne là fuori.
Se Jenna e Lewis avessero avuto abbastanza soldi da offrire, probabilmente il caso non sarebbe neanche partito, e loro due non avrebbero dovuto patire quella distanza forzata. Ma non potevano permetterselo. Gli sbirri erano corrotti, sì, ma non a buon mercato.
Dio, se Lew non avesse perso il posto nell’azienda dove aveva lavorato anche il Pezzo di Merda… allora, forse, sarebbe stata tutt’altra storia. Certo, Jenna sospettava che spompinando il detective assegnato alle ricerche avrebbe potuto ottenere qualcosa, magari avrebbe potuto accorciare i tempi, ma non ne aveva avuto voglia. L’idea non l’aveva mai allettata. Lei apparteneva a Lew e a Lew soltanto; e, viceversa, lui a lei. Norma era solo una dannata parentesi… che, chissà, un giorno sarebbe in qualche modo stata rimossa dall’equazione…
In compenso, comunque sia, a controbilanciare tutti quei mesi lontana dal corpo di Lewis, Jenna riconosceva che stare sotto ai riflettori non era stato poi così male. Le era stato utile anche per piazzare qualche pulce nell’orecchio, per sollevare qualche dubbio sulla presunta irreprensibilità dello scomparso, lasciando intendere che – se lui fosse tornato – lei gli avrebbe ben volentieri perdonato quegli “scivoloni” di percorso.
Insomma, lui aveva pensato di metterli nella merda? Dopo tutto ciò che le aveva fatto – le assenze, le scuse, i ritardi, le notti in ufficio, le trasferte –, tradendolo con chissà quale puttanella tra le tante che gli erano andate indietro sin dalle superiori, aveva davvero pensato di spifferare a Norma e a chissà chi altri l’intesa che c’era tra lei e Lewis? Cazzo, Lew ne sarebbe uscito rovinato; sarebbe finito sul lastrico anche solo per pagare le spese di separazione e gli alimenti a quella cagna rognosa che aveva per moglie…
Quindi, fottiti, Pezzo di Merda: eccoti pan per focaccia.
Non solo gli avevano impedito di aprire bocca, ma era stata lei stessa, Jenna in persona, assistita da qualche accenno abilmente piazzato da Lewis qua e là, a spifferare qualcosa sulle scappatelle del Pezzo di Merda.
Vide il riflesso della maglietta sul vetro della finestra spalancata. Al centro, stinto e sbriciolato, campeggiava lo scudo circolare nero e rosa su cui si stagliava il profilo dell’aquila di mare testabianca; sotto, la dicitura
Il Pezzo di Merda non era mai stato un vero tifoso né particolarmente amante dello sport (A meno che – ovvio – non si consideri “sport” lo sbattersi qualche collega o una giovane tirocinante nel sottoscala dell’azienda): comprare magliette di squadre di football, basket e hockey era stata una delle sue fissazioni temporanee, al pari dei sigari. Jenna non mancava di indossarne una dopo aver fatto sesso con Lewis.
A proposito di Lewis…
Jenna schiacciò il mozzicone nel posacenere pieno poggiato sul comò. Possibile mai che, adesso che potevano finalmente tornare ad amarsi, per la prima volta dopo un anno e mezzo di sacrifici, dovessero sottomettersi ai problemi intestinali di Lewis? Cazzo, lei aveva sperato, e aveva anche creduto, che una volta archiviata la faccenda, Lewis si sarebbe del tutto ripreso. E invece…
E invece è come se quel Pezzo di Merda ci costringesse a stare separati anche ora che sta due metri sottoterra.
A quel punto, Jenna si girò di scatto. Le venne istintivo e non seppe spiegarsene il motivo. Lo comprese solo fissando la porta che dava sul corridoio: c’era da andare di sotto e sincerarsi delle condizioni di Lewis. Inviare messaggi era inutile. Aveva temporaneamente smarrito la libidine che l’aveva mossa a inoltrare quelle immagini, e poi Lewis si ostinava a essere ancora guardingo, rispetto all’utilizzo del telefono.
In ogni caso, Jenna doveva scendere dabbasso. Non poteva aspettare neanche un istante di più. Aveva già aspettato tanto. Troppo. E quella era stata la parte più difficile: l’attesa. Uccidere – quello era stato semplice. Si era trattato solo di sciogliere una compressa in un bicchiere di vino. Trasportare e occultare la carcassa – anche quello era stata una passeggiata di salute: uscire dal casolare nottetempo, spingersi tra le ombre della boscaglia, scavare e ricoprire. Pulire la scena dell’ultimo respiro del Pezzo di Merda – che, ingurgitato il bicchiere di vino, aveva avvertito lancinanti fitte allo stomaco – quello era stato ancora più facile. Detersivo, candeggina, spugna, lavasciuga… et voilà!, il cesso era come nuovo, lindo e splendente. Uno specchio. D’altronde Jenna non aveva fatto che quello, da quando lo aveva sposato? Ripulire i piatti e la merda suoi e dei bimbi – che ora, per svagarsi dopo quel brutto periodo, erano andati alla colonia estiva –, mentre lui andava a trombarsi questa o quell’altra troietta.
«Lewis!», iniziò a chiamare Jenna Davin, imboccando il corridoio, vestita solo della maglia slargata del suo scomparso marito. «Come va, Lew?»
 
Ma Lewis Cawald non poteva rispondere.
E Jenna cominciò a sudare spiacevolmente quando arrivò alla porta del bagno, al piano di sopra di quel casolare diroccato e sfatto, all’estrema periferia di Allport, che era casa sua.
Si arrestò e si zittì. La mano non osò toccare la maniglia, temendola rovente. Temendo che, aprendo, avrebbe rivissuto una scena già vista. Solo che, al posto del Pezzo di Merda, ci sarebbe stato Lewis; Lewis, l’uomo della sua vita, l’uomo che sapeva realmente farla sentire viva, voluta, desiderata; Lewis, che avrebbe fatto di tutto per lei, che la bramava e la possedeva con vigore e pienezza, sbavando, ansimando, gemendo per lei; Lewis, che l’aveva tirata fuori da quell’incubo di apatia e disinteresse, procurandole quella pasticca e facendosi trovare tra gli alberi di agrumi con un paio di vanghe pronte all’uso; Lewis – riverso bocconi in avanti, il culo all’aria e la faccia spaccata per terra e le interiora freddate da un bel blocco intestinale.
Ma che cazzo vai pensando?, si ammonì Jenna. È soltanto stitichezza. Un fatto nervoso. Ma adesso che non c’è più niente per cui essere nervosi…
E allora perché la sua mano, avvicinandosi alla porta del bagno – non con l’intenzione di aprirla, però, bensì con quella di bussare –, tremava come se in casa facessero improvvisamente venti gradi sotto zero? Perché esitava? Perché non ripeteva il nome di Lewis? Perché non entrava? Perché…?
Perché ho i piedi bagnati?
La sensazione tattile non era bastata; solo dopo essersi posta mentalmente il quesito, infatti, Jenna capì che era il caso di guardare giù, nel punto in cui i suoi piedi erano piantati su…
«Merda!», strillò, in un rantolo strozzato; al contempo, balzò all’indietro e sbatté la schiena e la nuca contro la parete del corridoio.
“Brachicardia da paura”. Un tempo, da qualche parte, forse in una serie o in un film, Jenna Davin aveva sentito quella espressione. Era, ricordò il suo cervello imballato e partito per la tangente, una condizione di paralisi che ghermiva il corpo in concomitanza a uno smodato incremento di adrenalina indotto da una forte emozione di paura. Non sapeva se si trattasse esattamente di questo, fatto sta che le sue gambe cedettero, e lei, anziché urlare, girarsi e correre più in fretta che poteva, si afflosciò sul pavimento, sfregando la schiena contro la parete.
Le dita dei suoi piedi non si erano solamente bagnate. Si erano proprio sporcate. Dei pezzettini di materiale marrone si erano appiccicati sui suoi piedi. Un fetido flusso di quelli che sembravano escrementi fuoriusciva dalla fessura inferiore della porta del bagno – plop, swush, swush, swush… E continuava a scorrere… a scorrere… a scorrere…
Plo-plop… swush, swush, swush…
Finché, a metà strada tra il bagno e il muro dirimpetto, il fluire si fermò. E quel puzzolente, rivoltante, semisolido liquame marrone prese a sollevarsi. Era come se, anziché continuare a scorrere in avanti, adesso stesse scorrendo verso l’alto. E, man mano che lo faceva, assumeva spessore e consistenza.
Plop, plop, plo-plo-plo-plop.
Prima due forme tubolari, poi queste si univano in un solo blocco, per poi suddividersi formando altre due escrescenze tubolari, una per lato; e dopodiché… dopodiché, la merda continuò a muoversi e modellarsi, continuò a spostarsi e definirsi, come lurida creta tra le mani di un artista depravato e coprofilo. Un artista che aveva plasmato una merdosa scultura ad altezza e proporzioni d’uomo… la fisionomia della quale era terribilmente familiare per Jenna Davin. Una fisionomia che doveva trovarsi due metri sottoterra a fungere da banchetto per i vermi.
«Sai, Jenna?», disse l’orrida figura – un terribile squarcio si apriva in orizzontale a formare un sorriso sdentato e deforme – che teneva, tra le mani melmose, gli occhiali di Lewis: a una lieve stretta delle dita, e a dimostrazione della solidità e compattezza che quel cumulo di sterco aveva assunto, gli occhiali si spaccarono. «Sono salito dal fondo del cesso, proprio lì dov’ero morto, e mi sono rivestito delle feci di Lewis per poter tornare a muovermi e agire su questo mondo», proseguì il vomitevole abominio, quell’inumano golem di guano umano, tendendo le nerborute e ripugnanti mani marroni verso il collo nudo della donna, colando ed emanando umori scuri. «E perciò tu e Lewis avevate ragione da vendere: sono proprio un Pezzo di Merda!»
 



Articolo tratto dal portale online dell’Allport Chronicles:

Caso Gretskin: la macabra fine della moglie e del migliore amico dell’uomo scomparso sembra accreditare l’ipotesi di omicidio per tradimento.
 
Raccapricciante la scena che le donne e gli uomini dell’Allport Police Department si sono trovati di fronte in casa Gretskin, a Citrus Hectars, all’estrema periferia di Allport.
Jenna Davin e Lewis Cawald, 37 e 41 anni, sono stati trovati senza vita al secondo piano dell’abitazione.  La scoperta dei cadaveri, barbaramente brutalizzati, è avvenuta in seguito alla segnalazione che i genitori della Davin, non avendo più notizie della figlia da tre giorni ed essendo sprovvisti delle chiavi del casolare che lei aveva diviso per i quattro anni di matrimonio con Nelson Gretskin, hanno fatto alla polizia.
Il corpo inanime di Lewis Cawald, migliore amico di Gretskin – del quale si sono perse le tracce ormai da diciassette mesi –, è stato rinvenuto nel bagno; nudo e steso prono sul pavimento, l’uomo è morto per le emorragie riportate in seguito all’introduzione forzata all’interno dell’orifizio posteriore delle sue stesse feci.
«La scena», ha dichiarato la detective Belsham, «era letteralmente un pantano di sangue e merda: mi ha fatto pensare a un qualche girone infernale dantesco.»
I primi resti a essere stati trovati, però, sono stati quelli di Jenna Davin – scompostamente seduta nel corridoio, esattamente di fronte alla porta del gabinetto, soffocata tramite l’immissione violenta degli escrementi dello stesso Cawald.
Si è conclusa in queste circostanze, atroci e scellerate, la vita della donna e dell’uomo che sono stati assiduamente sotto i riflettori lungo l’intero dipanarsi delle infruttuose indagini.
Indagini che, tuttavia, adesso sembrano aver trovato un inatteso colpo di coda. Tutto, infatti, sulla scena del crimine, lascia intendere che Davin e Cawald avessero una relazione segreta all’infuori dei rispettivi matrimoni: anche la donna – eccezion fatta per una t-shirt maschile dei Whiteheads – era completamente nuda, il letto matrimoniale è stato trovato disfatto e le parti intime dei morti, che dopo la morte sono stati ricoperti di escrementi, indicavano chiaramente – stando alle prime indiscrezioni – la consumazione di un recente rapporto sessuale.
Ai nostri microfoni, Isaac Koontz, avvocato di Gretskin, ha asserito: «Questo va a confermare quanto ho da sempre sostenuto: c’era del marcio tra la signora Davin e il signor Cawald, ed era nella loro direzione che le indagini avrebbero dovuto indirizzarsi, perché era plausibile – e lo è ora più che mai – che entrambi, temendo di essere scoperti nella fragranza del tradimento, avessero architettato di sbarazzarsi del signor Gretskin.»
Per la verità, Koontz ha spesso lasciato intendere questa sua posizione, senza comunque mai esplicitarla chiaramente, corroborando le maliziose ipotesi di una ristretta e circoscritta parte dell’opinione pubblica allportiana. Secondo alcuni, difatti, Nelson Gretskin aveva subodorato o scoperto il tradimento messo in atto da due delle persone più importanti della sua vita e, per metterlo a tacere, Jenna Davin e Lewis Cawald lo avrebbero fatto sparire – probabilmente uccidendolo e nascondendone la salma.
«Questo non dimostra un bel niente», ha ribattuto per le rime Brian Lee, legale di Cawald, manifestando una furia composta. «E il mio collega dovrebbe soppesare per bene le parole, prima di scagliare illazioni che vanno a infangare la memoria della moglie del suo assistito.» L’avvocato ha poi aggiunto: «Per quanto ne sappiamo, la relazione tra Lewis e la signora Davin è potuta sbocciare anche in seguito alla sparizione del signor Gretskin, suggellata dal pesante fardello della perdita che li accomunava: e non c’è niente di male, in questo, né esiste una legge che punisca come reato questo genere di relazioni.»
Nessuna dichiarazione, invece, dalla madre di Gretskin. Mentre chiedono giustizia, a gran voce, i genitori delle vittime: «È una cosa terribile e innaturale, quella che è stata fatta ai nostri figli, una fine infame. Ed è di loro, di questo duplice omicidio, che dovrebbe parlarsi, anziché concentrarsi ancora su Nelson Gretskin.»
Va loro incontro la dichiarazione della detective Caroline Belsham, responsabile del caso, che – immaginiamo – ci terrà compagnia, quantomeno, per il resto dell’estate: «Faremo chiarezza su questa vicenda, che puzza almeno quanto la scena del crimine, e assicureremo alla giustizia i responsabili di un’azione tanto turpe e deplorevole.»
I responsabili, già. L’opinione pubblica è tornata a scaldarsi sull’argomento Gretskin, dopo un paio di mesi di stanca, che ha fatto seguito alla sospensione delle ricerche. Internet e i social media pullulano già di teorie, accuse e congetture, tra le quali figurano l’idea di un gioco erotico finito male, l’esecuzione da parte di una qualche setta occulta,  la punizione inflitta da un qualche “Figlio di Allport” – come siamo soliti definire i serial killer generati a grandi ritmi dalla nostra società – incaricato, magari, proprio da un Gretskin che si è volontariamente dileguato, un anno e mezzo fa, al fine di organizzare questa sua macabra vendetta. Per quel che siamo riusciti a raccogliere fin qui, intanto, la polizia sta setacciando il sottobosco criminale e, nello specifico, ambienti di cruciale rilevanza, rispetto alla particolare dinamica del duplice omicidio, come l’esclusivo club a luci rosse Desaad e l’attiguo famigerato locale che risponde all’insegna di Slutgarden.
Fanno discutere, in conclusione, le parole che abbiamo casualmente intercettato poco prima che l’avvocato Koontz chiudesse una telefonata sul suo cellulare: «Era una storia di merda ed è giusto che nella merda sia finita.»
Ma noi, personalmente, dubitiamo che la storia sia davvero finita.
Anzi, ammettendo che Nelson Gretskin non sia semplicemente sparito, ma sia piuttosto andato incontro a un destino ben più definitivo, adesso le anime che reclamano verità e giustizia – relativamente a questa terribile storia – ammontano a tre.








2 commenti:

  1. Forte. Non per tutti nel linguaggio, nei contenuti e nello stile ma ben scritto, da non riuscire a staccarsene durante la lettura. Un pulp/horror meritevole di far proseguire su AD la saga di Allport. L’assassinato che si riconfigura in quel modo, poi, è l’apoteosi del ributtante. A un certo punto mi sembrava quasi di “avvertirne” l’insostenibile presenza…

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  2. E poi dicono che i personaggi di film, romanzi e racconti non vanno mai al cesso...
    Contento ti sia piaciuto!
    Un onore che le sporche gesta di Allport tornino a insozzare le multiformi realtà di AD.
    Speravo proprio di renderlo abbastanza vomitevole - non perché fosse il mio obiettivo fondamentale ma perché coerente con quanto accade nel racconto -, e a quanto pare ci sono riuscito! Bene.
    Abbracci tentacolari, Mastro Grifabius!

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